Caso Adama: la periferia prende il centro della scena

Francia. Le realtà di quartiere della periferia parigina si connettono, la morte del ragazzo diventa un caso nazionale e poi internazionale arrivando a mobilitare le realtà del Black Lives Matter americano. Il tam tam sui social network aumenta e risponde colpo su colpo alle intimidazioni istituzionali verso la famiglia Traoré ed in particolare verso Youssuf e Bagui, fratelli di Adama, e verso Assa, la sorella che più di tutti è il volto mediatico di questa lotta.

Il caso Adama poteva restare una delle numerosissime morti impunite delle banlieue francesi.

Negli ultimi decenni, dicono alcune stime non ufficiali, circa una dozzina di persone all’anno sono morte nei commissariati della république, in stragrande maggioranza immigrati di terza o quarta generazione originari dell’ex impero coloniale francese.

Si tratta di tragedie «normali», conseguenza del regime d’eccezione permanente che vige nelle periferie.

Poteva restare un nome tra tanti, e invece giorno dopo giorno sempre più persone sanno chi è Adama Traoré.

Le realtà di quartiere della periferia parigina si connettono, la morte del ragazzo diventa un caso nazionale e poi internazionale arrivando a mobilitare le realtà del Black Lives Matter americano.
Il tam tam sui social network aumenta e risponde colpo su colpo alle intimidazioni istituzionali verso la famiglia Traoré ed in particolare verso Youssuf e Bagui, fratelli di Adama, e verso Assa, la sorella che più di tutti è il volto mediatico di questa lotta.

Con una voce ferma e decisa, Assa ripete costantemente la domanda di verità e giustizia. Non si rappresenta come una rivoluzionaria, ma esige che la storia della sua famiglia, del suo quartiere, di tutti i soggetti «razzializzati» delle periferie francesi, non sia la storia di cittadini di serie B.
Assa scoperchia su giornali e televisioni le contraddizioni della «patria dei diritti umani». Sfrutta lo stesso sistema mediatico da sempre complice del silenziamento e della marginalizzazione delle periferie, ma ne ribalta le logiche: replica punto su punto ai tentativi di criminalizzazione, racconta le difficoltà dei quartieri popolari e delle persone che ci vivono, chiede che sia fatta chiarezza.

Ed è forse attorno a questa domanda di verità e giustizia che si sta innescando nell’esagono una fondamentale alleanza: quella tra il centro delle metropoli e le periferie, tra la sinistra «storica» ed i soggetti periferici da sempre in lotta contro un sistema che li mette agli ultimi posti nella catena dello sfruttamento.

Dopo l’enorme movimento contro la riforma del lavoro che ha segnato la prima metà dell’anno, la Francia si avvia in una campagna elettorale all’insegna del conservatorismo, del razzismo e dell’islamofobia. La mobilitazione in campo potrebbe diventare anche una risposta a questa torsione, un punto di riconnessione per resistere alla progressiva deriva verso destra dell’asse politico.

 

Fonte:

http://ilmanifesto.info/caso-adama-la-periferia-prende-il-centro-della-scena/

 

Leggi anche qui:

adama

http://www.osservatoriorepressione.info/parigi-sosteniamo-la-famiglia-adama-traore-ucciso-dalla-polizia/

Saluti nazisti e croci runiche: viaggio dentro la comunità che nega l’Olocausto

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Caidate, nel varesotto, dove 300 naziskin vivono organizzati militarmente. Ecco come si raccontano. I nemici sono “immigrati, ebrei, gay, centri sociali, polizia, banche”. La festa per il compleanno di Hitler, la famiglia, i volantini col volto di Eva Braun per il gruppo femminile, il rifiuto di avere contatti con il resto dell’estrema destra

La runa di legno stava lì, sdraiata nel giardino ingabbiato da una rete metallica: la runa Tiwaz, simbolo dei guerrieri di Odino, mitologia germanica che influenzò l’ascesa del Terzo Reich. I neonazisti varesotti l’altro giorno l’hanno portata al monte San Martino e, posando in parata, hanno profanato il sacrario simbolo della lotta partigiana contro le SS nel ’43. “L’anno scorso ci hanno fermato i carabinieri…”, taglia corto il capo dei Do.Ra., Alessandro Limido. Sul retro del villino una massicciata di cemento. “Non abbiate paura del cane… Preoccupatevi del padrone” è scritto sul cartello al civico 8 di via Papa Giovanni XXIII. Due disegni: un bulldog e una mano che stringe la pistola. Se non fosse per quel benvenuto sinistro e per niente astratto (ad aprile Limido ha massacrato di botte un ladro che stava rubando un’auto sotto casa), si direbbe che l’atmosfera è quasi familiare. Hinterland di Varese: c’erano una volta Bossi e la Lega. Il Pil trainato dall’industria aeromeccanica. Oggi ci sono i naziskin. “Siamo nazionalsocialisti. Neghiamo l’Olocausto. Sono stati gli ebrei, per difendere il capitalismo, a volere la guerra contro Hitler e Mussolini: non il contrario. Da qui parte la nostra attivita’, dalla controinformazione alle iniziative sul territorio”.

I Do.ra. – acronimo della Comunità militante dei dodici raggi (i raggi del Sole nero, simbolo del castello tedesco di Wewelsburg, sede operativa delle SS) – sono la più numerosa e organizzata comunità nazionalsocialista italiana. Quattro anni di vita sottotraccia. Formalmente “associazione culturale”. In pratica un micro pezzo di popolazione varesotta che, 71 anni dopo la fine del regime nazista, prospera sugli orrori incisi nella storia. “I veri eroi sono i nazisti che hanno combattuto. Noi possiamo solo contestare il sistema e vivere secondo le nostre regole Comunitarie”. Cose dell’altro mondo. Eppure Alessandro Limido, 34 anni, figlio di una ex hippie e di Bruno Limido, già calciatore della Juventus poi coinvolto in una vicenda di caporalato e fatture false, non fa una piega. Limido jr è  “Ale di Varese”, il “presidente”. Vende piscine con la Almipool group di Azzate. Ma il senso della vita è la leadership  di questa tribù marziana cresciuta sul modello del nazismo delle origini nel ventre della periferia di Varese.

Caidate. Il giardino coperto di foglie ricorda i boschi dove i Do.Ra. organizzano i “solstizi”: mogli, bambini, cani, canti identitari, birra a fiumi, salamelle. E svastiche bruciate e loro intorno, a cerchio. Nella Germania del Reich il solstizio era un rito propiziatorio che serviva a rievocare le virtù del sacrificio e del prestigio: i falò erano elevati in onore al Führer. Del quale i Do.ra., il 20 aprile, celebrano la nascita. “Mica ci nascondiamo noi”. Non la dissimulazione di Casapound. Nemmeno le velleità politiche di Forza Nuova. Piuttosto la sintesi dell’esperienza ventennale degli skinhed razzisti di Varese. Disciplina interna quasi maniacale. Un autorigore inversamente proporzionale alla disinvoltura a cui sono ispirate le azioni contro i “nemici”: immigrati, ebrei, gay, centri sociali, polizia, banche. Anche Salvini, che “fa il duro contro gli ultimi della società e poi striscia in Israele a leccare la mano al suo amico sionista Avigdor Liberman”, è la sintesi di Limido.

La sede dei Do.ra. è questo ex magazzino. Regolare contratto d’affitto. Enrico Quirico, il proprietario, fa l’operaio e dice che ha idee “diverse da loro”. Ma tant’è, avere in casa un gruppo di neonazisti non gli provoca imbarazzo: “Ho affittato con agenzia, pagano puntuali: mai un problema”. Questione di punti di vista. E di leggi. Per esempio quelle sull’apologia fascista, la discriminazione e l’odio razziale.

La normalità antisemita dei Do.ra.? Ha una struttura di stampo militare. C’è un nucleo direttivo, un presidente (Limido), un vice, Matteo Bertoncello, capo dei Blood and Honour, gli ultrà razzisti e xenofobi del Varese calcio; un responsabile operativo chiamato “sergente”, Andrea De Min; una “guida suprema”, Maurizio Moro, che ha fondato il gruppo nel ’93 fondendo i Varese skineah e gli Ultras 7 Laghi. Ma non di soli uomini è formato il corpaccione dei Dodici raggi.

Le donne della comunità hanno resuscitato il Servizio ausiliario femminile (Saf) della Rsi: volantini con il volto di Eva Braun, incontri a tema. “Non siamo subordinati alla figura e al ruolo  dell’uomo – dice Silvia Malnati , un tempo legata a Limido – ma siamo per la società tradizionale: madre padre figlio patria famiglia”. Dietro le rune germaniche e i rituali della religione odinista cara a Hitler, il culto praticato qui, tra muscolari cortei anti immigrati e dibattiti sull’”assurdità della legge che persegue chi nega l’Olocausto”, i Do.ra., tatuatissimi dai polpacci alla carotide con croci celtiche e svastiche, organizzano la loro settimana. Tutto ruota intorno alla sede di Caidate. Cineforum (“American history”, “Russian 88”); biblioteca con testi revisionisti da De Felice in su; dibattiti  sul negazionismo nella sala addobbata con croci runiche; tornei di calcio “contro la pedofilia”, match di arti marziali miste sotto la targa del riconosciuto “Sodalizio sportivo Do.Ra.” (l’atleta di punta è il pugile campione italiano dei pesi welter Michele Esposito); e poi un gruppo musicale nazirock, i Garrota. “…skin alza la testa, Varese nazionalsocialista”.

L’hanno alzata eccome, la testa, i Do.ra. Pagina Fb molto attiva, sito in costruzione. Hanno prodotto anche una linea di t shirt: il modello che le indossa e le pubbicizza è uno skinhead  parricida, Luigi Celeste, 9 anni di carcere per l’omicidio del padre a colpi di Beretta. “Altri combattono il sistema per entrarci: noi no”. Zero dialogo. Nemmeno con altre anime dell’estrema destra: è la loro linea. Disinteressati alla politica. E però la politica si interessa a loro. “Ci hanno proposto di fare una lista civica – ricorda Limido -. No secco”. Pensare che nel 2006 il sedicente “Movimento nazionalista e socialista dei lavoratori” fondato da Pierluigi Pagliughi proprio nel varesotto tentò di entrare nelle istituzioni: andò male a Duno e Inarzo, meglio (due consiglieri eletti) a Nosate, nel milanese. Per ora i Dodici raggi stanno arroccati nel loro fortino.

“Sono arrivati qui quattro anni fa e per prima cosa hanno distribuito dei biglietti con dei numeri di cellulare – dice il più vicino dei vicini di casa dei Do.Ra. -. Ci hanno detto “se ci sono problemi, avvertiteci”. Scrupolo a doppio risvolto.”Se le auto danno fastidio le spostiamo subito”. Ma anche un’autoinvestitura: “Con noi in paese molti si sentono piu sicuri”. Sentinelle sociali pronte a vigilare su Caidate, piccola frazione di Sumirago che ha tanti abitanti quanti ne conta (tra tesserati e simpatizzanti) la galassia dei Do.Ra.: 300, o giù di lì. Sparsi nel varesotto, sguardo glocal. Un gemellaggio coi “fratelli” ungheresi. Inseriti nel network antisemita europeo Skin4Skin e devoti alla figura del terrorista di Avanguardia nazionale Vincenzo Vinciguerra, in carcere dal 1979 per l’uccisione di tre carabinieri nella strage di Peteano (1972). Colonna del comitato xenofobo “Varese ai varesini”.

Questo sono i Do.ra. A settembre hanno tirato su barricate contro l’arrivo di quattro (di numero) profughi a Castronno. Cinque mesi prima – il solito 20 aprile – hanno festeggiato la nascita di Hitler al locale Never Done di Besnate. Militanti dai 18 ai 50 anni, pinte di birra, braccia tese. Un appuntamento fisso, il compleanno del Fuhrer. Dal 2013. La prima festa si svolse sotto il tendone dell ex scalo ferroviario di Malnate affittato ai nazi dall’associazione “I nostar radiis”, vicina alla Lega. “Il giorno dopo sono venuti a pulire tutto”, ricordam oggi il gestore Dino Macchi, ex assessore alla cultura a Vedano Olona. E i “sieg heil”? E gli insulti agli “schifosi ebrei”? E le legnate promesse agli immigrati dai “sergenti” finiti sotto inchiesta e daspati per violenze e razzismo da stadio? “Molti si girano dall’altra parte. Noi ci rivolgiamo alle istituzioni: possibile che una formazione nazista faccia tranquillamente propaganda sul territorio?” – chiede Gennaro Gatto, dell’Osservatorio sulle nuove destre.

A Caidate qualcuno ha protestato invocando l’intervento della magistratura. “Perché nessuno si muove? E’ una vergogna – dice Roberta Nelli che gestisce il circolo Caidate 1912 -. Fanno proseliti negando o esaltando l’Olocausto”. Romeo Riundi,  medico di base, fa parte del comitato “Cittadini per Sumirago”. Lo ha scritto in una lettera pubblica: “Vi rendete conto di cosa sta succedendo a Caidate?”. Cose dell’altro mondo, dicono. La storia che rinasce sulle macerie, profanando le ferite incise sulla pelle di chi ha conosciuto l’orrore. Qui c”è un Sole Nero che non si eclissa e la sua aurora è una runa di legno.

Paolo Berizzi da Repubblica.it

tratto da http://www.osservatoriorepressione.info/saluti-nazisti-croci-runiche-viaggio-dentro-la-comunita-nega-lolocausto/

«Via i negri», rivolta razzista a San Basilio

Roma, cacciata dalle case popolari una famiglia marocchina assegnataria dell’appartamento

Come era loro diritto avrebbero dovuto prendere possesso del loro alloggio, una casa popolare nel quartiere romano di San Basilio. Ad attenderla invece una famiglia marocchina . padre, madre e tre bambini piccoli – ha trovato gli abitanti in strada decisi a a tutto pur di non farli entrare. «Qui non vogliamo negri. Tornate a casa col gommone» avrebbero gridato alcune persone. Solo l’arrivo della polizia ha evitato che la situazione degenerasse. I violenti hanno comunque vinto. Spaventata dall’accoglienza ricevuta, la famiglia ha infatti rinunciato alla casa.

La rivolta, che ha coinvolto qualche decina di abitanti delle case popolari di San Basilio è avvenuta nella tarda mattinata di ieri quando la famiglia con tre bimbi al seguito, 1, 4 e 7 anni, è arrivata sul posto. Nei giorni scorsi era stato effettuato lo sgombero degli inquilini abusivi e ieri si sarebbe dovuto procedere all’assegnazione alla famiglia che ne aveva diritto. I vigili urbani sarebbero anche intervenuti con la forza per garantire l’accesso alla casa, decisione poi sospesa per la scelta della famiglia di rinunciare. Cinque residenti, identificati grazie a foto e immagini girate dalle forze dell’ordine, sono stati denunciati. Gli inquirenti non escludono che dietro la rivolta razzista ci siano in realtà il racket delle case occupate o lo spaccio di droga.

 

Fonte:

http://ilmanifesto.info/via-i-negri-rivolta-razzista-a-san-basilio/

Il pogrom di Chios

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Quando andavamo a scuola ascoltavamo i professori parlare dei pogrom avvenuti nel corso della Storia e condannarli duramente. A metà degli anni ’90 ritenevamo assurdo che simili vergognose pagine potessero essere scritte nuovamente. I pogrom contro gli Ebrei, gli Slavi, i comunisti, gli omosessuali, ecc. erano diventati le sentinelle della dignità umana, con il loro grido proveniente dal passato: «Mai più»!

In quegli anni nessuno credeva che la nostra isola sarebbe diventata uno dei luoghi in cui sarebbe stato scritta un’altra vergognosa pagina di storia. Alcuni criminali nazisti sono saliti sulle mura del castello di Chios per distruggere completamente la vita di esseri umani sradicati. Vedendo i grandi buchi sulle tende e le pietre enormi accanto ai letti dei rifugiati, ho constatato che i criminali non volevano spaventare le persone ospitate nel campo profughi, ma ucciderle. Vogliono il morto.

E sappiamo bene perché vogliono un morto.

Perché quel morto sarà la scintilla che porterà il caos. Conosciamo molto bene anche i mandanti morali e gli autori del crimine. Due sono venuti a parlare sull’isola il giorno prima l’accaduto, mentre il loro capo lo ha celebrato due giorni dopo. I criminali dell’isola li conosciamo bene, come conosciamo la loro vigliaccheria. Attaccano in gruppo profughi, solidali e persone di sinistra. Colpiscono di notte, come è accaduto per la cucina sociale. Minacciano chiunque, senza eccezioni, e insultano sfacciatamente chiunque si trovino davanti, anche il (precedente) capo della polizia di Chios. Non li ferma nessuno.

Le autorità comunali sono rimaste a guardare.

La polizia segue il corso degli eventi senza arrestare nessuno dei criminali. Al contrario, mette le manette solo a solidali e profughi. I poliziotti dovrebbero pensare a questo quando si lamentano della mancanza di empatia nei loro confronti.

Ma la cosa peggiore è la tolleranza dimostrata dalla comunità di Chios nei confronti di questi atti criminali. Ho detto molte volte che i neonazisti sono criminali, ma il silenzio della comunità è complice di quanto accade da alcuni mesi a questa parte.

Negli ultimi mesi la disumanità di queste persone ha scritto molte pagine buie della storia dell’isola. I presidi carichi d’odio, le provocazioni al porto di Chios, dove erano stati sistemati i rifugiati, i petardi lanciati in mezzo ai gruppi di bambini, i cortei fascisti e ora la pioggia di pietre e molotov sul campo profughi.

Il momento in cui arriverà il primo morto è vicino.

Le autorità e la polizia possono disinteressarsi della situazione.

Ma non noi.

Non tutti noi, che vogliamo il bene dell’isola e degli esseri umani.

Per quanto riguarda i criminali di qui, voglio semplicemente dire quanto mi dispiace che abbiano aggiunto la mia isola sulla lista delle vergogne della Storia.

di Ghiorgos Chatzelenis

Fonte: http://chatzelenisgeorge.blogspot.it/

Traduzione di AteneCalling.org

 

http://atenecalling.org/il-pogrom-di-chios/

La mano nera dietro la manifestazione di Archi

di Alessia Candito

Lunedì, 10 Ottobre 2016 11:18

C’è una doppia tragedia nella squallida manifestazione che un centinaio di abitanti di Archi hanno inscenato ieri nei pressi dell’ex facoltà di Giurisprudenza, oggi mal riconvertita in un centro di accoglienza. Non si tratta solo di una manifestazione razzista. Non si tratta solo dell’ennesimo sconcertante episodio di una stupida e fratricida guerra fra poveri. Quella manifestazione è soprattutto la conferma di un giogo da cui il quartiere non si sa e non si vuole emancipare.

Schiavo di silenzio ed omertà, per decenni durante i quali nelle sue strade senza nome si è consumata una guerra da ottocento morti ammazzati, schiavo di un degrado tutto uguale a se stesso, voluto e ricercato come condizione ideale per creare un esercito che ogni giorno necessita di carne da cannone, oggi il quartiere porge il collo a un nuovo giogo. E sempre schiavo rimane.

Quella di domenica ad Archi non è stata una manifestazione spontanea. C’è una mano nera dietro il gruppetto di leoni, riuniti per ore nei pressi del centro di accoglienza, per insultare trecento ragazzini sopravvissuti a stento al viaggio devastante che li ha portati in Italia. A svelarlo, è il simbolo che con arrogante noncuranza è stato tracciato a mo’ di firma sotto gli striscioni esposti nel corso della manifestazione. Si tratta di una Odal ed è da sempre uno dei più noti segni distintivi di Avanguardia Nazionale, di cui più di uno fra i manifestanti è un orgoglioso esponente.

 

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Sciolto più volte come movimento eversivo, Avanguardia si è ripresentato più volte sotto molti nomi e molte forme. Ma non ha mai cambiato natura. È lo stesso movimento che negli anni Settanta vedeva fra i propri entusiasti sostenitori Paolo e Giorgio De Stefano e quel Paolo Romeo, che oggi per missiva giura e spergiura la propria fede democratica, nonostante decine di pentiti, neri e di ‘ndrangheta, raccontino la sua storica vicinanza a Stefano “Er caccola” Delle Chiaie.
È lo stesso movimento che reclutava carne da cannone nelle periferie grazie ai danari versati da fin troppi nomi noti della grande borghesia reggina, che orfani di un golpe abortito, hanno giocato la propria partita tessendo le fila dei Moti di Reggio. È lo stesso movimento, che ha portato per mano la ‘ndrangheta nei grandi giochi della strategia della tensione, accompagnandola a fare il lavoro sporco nelle strade e nelle piazze, fra omicidi politici e bombe “dimenticate” nei cestini.

Oggi Avanguardia Nazionale si ripresenta ad Archi, con i propri simboli e i propri militanti. Ancora una volta, gioca con gli istinti più sordidi e malpancisti di un quartiere che alla propria condanna non si è mai saputo ribellare. Come negli anni Settanta, ancora una volta indica un nemico facile – e inerme – come responsabile del degrado cui i veri padroni di Archi hanno condannato il quartiere. Ancora una volta la rabbia sociale è stata convogliata contro un bersaglio facile, prima che si dirigesse contro il reale nemico. E se oggi come quarant’anni fa, ci fossero i clan dietro chi si veste di nero e urla “prima gli italiani”? Né Archi, né il resto della città si possono permettere il lusso di attendere di scoprirlo.

Per l’ennesima volta, il quartiere si è dimostrato uno schiavo, sciocco e felice. Per l’ennesima volta, si è fatto abbindolare da chi gli ha raccontato che le sue strade senza nome, i suoi servizi inesistenti, i suoi palazzoni dimenticati siano colpa di chi è arrivato per ultimo e solo per chiedere aiuto. Per l’ennesima volta, proprio quando i clan sono in ginocchio, quando le loro storiche menti sono confinate dietro le sbarre, qualcuno gioca a innescare una bomba sociale che non c’è. Per l’ennesima volta, ha avuto gioco facile, grazie ad amministrazioni che hanno cambiato nome e volto, ma allo stesso modo hanno continuato a servire il culto di una città che nasconde il degrado in periferia come polvere sotto il tappeto.
Per l’ennesima volta, Archi ha reso omaggio al culto dell’omertà che diventa connivenza, dell’indifferenza che diventa giustificazione. Ma in questo modo non ha perso solo Archi. Ieri, per l’ennesima volta, è stata sconfitta tutta la città.

 

 

 

Fonte:

http://www.corrieredellacalabria.it/index.php/l-altro-corriere/il-blog-della-redazione/item/50513-la-mano-nera-dietro-la-manifestazione-di-archi

Usa, Black lives matter. Che succede agli afroamericani?

Carnell Snell Jr, 18 anni, ucciso dalla polizia a Los Angeles. Nuova notte di proteste della comunità afroamericana. Una vera e propria mattanza perpetrata dalla polizia

di Antonello Zecca

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Ancora proteste negli Stati Uniti per l’uccisione di un altro afroamericano da parte della polizia la scorsa notte a Los Angeles. L’episodio è iniziato con l’inseguimento di un’auto che gli agenti ritenevano fosse stata rubata: il conducente non si è fermato e si è dato alla fuga. Ad un certo punto l’auto si è bloccata e un uomo ne è uscito fuggendo ed andandosi a nascondere sul retro di una casa. Lì è stato raggiunto dagli agenti che lo hanno ucciso. Pesante l’accusa di Black Lives Matter di Los Angeles: il 18enne Carnell Snell Jr è stato ucciso mentre teneva le mani in alto, ha denunciato con un tweet il movimento nato sui social media come hashtag dopo l’assoluzione del vigilante George Zimmerman, responsabile dell’uccisione di un altro ragazzo nero, Trayvon Martin.

Carnell Snell Jr, ricordiamocelo, questo nome. E poi Keith Lamont Scott, Ernest Satterwhite, Dontre Hamilton, Eric Garner, John Crawford III, Michael Brown, Levar Jones, Tamir Rice, Rumain Brisbon, Charly “Africa” Leundeu Keunang, Naeschylus Vinzant, Tony Robinson, Anthony Hill, Walter Scott.

È solo la punta dell’iceberg di una vera e propria mattanza perpetrata dalla polizia negli Stati Uniti, una mattanza che pare non avere fine, e anzi si intensifica ogni anno di più. Nel solo 2016 sono state uccise almeno 214 persone nere, seguendo la scia di un 2015 ancora più sanguinoso: 346 neri ammazzati. E ancora, il tasso di morti violente della popolazione nera per mano della polizia è più o meno costante dal 2013 (considerando solo gli ultimi tre anni), e tutte le statistiche mostrano dati inequivocabili: un nero ha tre volte la probabilità di essere ucciso dalla polizia che un bianco; il 30% delle vittime nere nel 2015 era disarmato rispetto al 19% delle vittime bianche; meno di un terzo dei neri assassinati dalla polizia nel 2016 era sospettato di un qualche tipo di crimine; nel 2014 in diciassette grandi città statunitensi la polizia ha ucciso cittadini neri ad un tasso superiore della percentuale generale di omicidi in quelle stesse città, e nel 97% dei casi nessun agente ha ricevuto alcun tipo di incriminazione.

Da questo schizzo pur disomogeneo emerge chiaramente la particolare “attenzione” di cui gode la popolazione nera (ma anche i bianchi poveri, come vedremo) presso tutti i dipartimenti di polizia del Paese, e che riflette una situazione di sostanziale subalternità politica, sociale ed economica strutturale degli afroamericani.

Mentre scriviamo, è il quinto giorno della rivolta di Charlotte, North Carolina, seguita all’omicidio di Scott, in cui centinaia e centinaia di manifestanti hanno invaso il centro città protestando contro la totale impunità della polizia. Una rivolta rabbiosa, che ha costretto il governatore dello Stato a decretare lo stato di emergenza nel tentativo di contenere la straripante indignazione per l’ennesimo omicidio di Stato. Nella seconda notte di scontri, un manifestante è stato colpito da un proiettile esploso dalla polizia, morendo poco dopo.  Al momento le manifestazioni proseguono e non è chiaro lo sviluppo che la situazione potrà prendere.

È tuttavia certo un fatto: il movimento Black Lives Matter (BLM), che qualcuno sperava potesse lentamente affievolirsi o arrendersi velocemente alla “ragionevolezza”, prosegue invece la sua marcia. Fondato da tre donne, Alicia Garza, Opal Tomezi e Patrisse Cullors, in seguito all’assassinio di Treyvor Martin nel 2012, il movimento è la prima risposta di massa della popolazione nera al razzismo e all’oppressione sistematica sofferti dagli afroamericani negli Stati Uniti dopo la fine dei grandi movimenti degli anni ’60, ’70 e gli inizi degli ’80.

Sebbene si ponga in ideale continuità con questi ultimi, BLM ha naturalmente caratteristiche peculiari al momento storico in cui è nato. A differenza dei suoi illustri predecessori, il contesto in cui si muove non può che essere profondamente influenzato da due fattori decisivi: la controrivoluzione neoliberista, di cui gli USA di Reagan furono capostipite insieme alla Gran Bretagna della Thatcher, e il consolidamento di un’ élite afroamericana assurta a ruoli di comando sia nella politica, che nella società e negli affari.

Questi due processi hanno segnato il passaggio da una fase di aperta discriminazione razziale e di segregazione, fondata prevalentemente su elementi naturalistici, ad una fase “post-razziale”, in cui l’inferiorità sociale degli afroamericani ha passato ad essere rappresentata ideologicamente con argomentazioni culturaliste e psicologistiche. Non che questi elementi fossero completamente assenti dalla prima fase ma sono assurti a motivazione dominante della discriminazione razziale in seguito all’emarginazione del razzismo tradizionale all’estrema periferia del discorso politico mainstream e all’affermazione ideologica del post-modernismo.

In maniera apparentemente paradossale, il razzismo di nuovo tipo è stato favorito dalla crescita del movimento per i diritti civili degli afroamericani che nel corso degli anni Sessanta e Settanta aveva consentito la crescita politica di leader neri che, principalmente nelle fila del Partito Democratico e grazie alle pressioni del movimento del tempo, cominciarono ad assurgere a cariche elettive a livello municipale e a ruoli di primo piano nella cosiddetta comunità degli affari.

Una volta consolidate queste acquisizioni, e in contemporanea con le controriforme liberiste all’opera sin dagli inizi degli anni Ottanta, cominciarono però ad essere visibili segnali di una tendenza che è ancora fortemente all’opera negli Stati Uniti: quanto più alle comunità afroamericane diventava necessario il rafforzamento dei servizi pubblici, la promozione dei diritti nei luoghi di lavoro, investimenti in scuola, cultura e formazione, tanto più le stesse amministrazioni locali governate dalla neonata élite nera si facevano custodi dello status quo e negavano nei fatti quegli stessi obiettivi per i quali i movimenti dei decenni precedenti avevano reso possibile la loro elezione, al fine di preservare la loro raggiunta posizione sociale.

È emblematico in tal senso il vergognoso comportamento di Barack Obama, che ha criticato in modo durissimo le rivolte e le proteste animate e sostenute dal BLM. Il primo presidente nero della storia degli Stati Uniti ha infatti a più riprese stigmatizzato il movimento e la sua “violenza”, ammonendo i manifestanti a “smetterla di urlare” e ricordando che gli Stati Uniti sono un “Paese di leggi” e che le soluzioni ai problemi posti dal movimento avrebbero dovuto essere affidate ai “rappresentati legittimamente eletti”.

Tutto questo è stato al tempo causa ed effetto della disgregazione politica e organizzativa di quei movimenti che avevano animato la scena del Paese nei vent’anni precedenti e, in contemporanea con lo spostamento a destra sempre più marcato del Partito Democratico, si è venuta via via a cristallizzare una situazione per cui gli afroamericani, orfani di un riferimento politico/organizzativo autonomo di movimento, si sono affidati costantemente a quello stesso partito che nei fatti ha contribuito in maniera determinante a perpetuare la loro condizione di subalternità.

Ci sono stati, certo, episodi di rivolta di sicuro rilievo, come la “battaglia di Los Angeles” nel 1992, ma sono state esplosioni di rabbia, più che giustificata, che però non sono riuscite a tradursi nella strutturazione di un movimento duraturo. Con l’elezione di Bill Clinton alla presidenza degli Stati Uniti, questa situazione era destinata a peggiorare, in concomitanza con l’approfondimento dell’offensiva neoliberista contro le condizioni del mondo del lavoro, i diritti sindacali e democratici, i servizi pubblici, la scuola e l’università pubbliche.

Questo è un aspetto decisivo, e non accessorio, della subalternità degli afroamericani nello Stato americano, e contribuisce a darne una motivazione non superficiale e impressionistica: in effetti, la condizioni della popolazione nera negli Stati Uniti non è comprensibile se non contemplando per intero la ineludibile dimensione di classe, di cui il razzismo (anche quello “post-moderno”) è in ultima analisi funzione.

Anche qui si comprende meglio il ruolo decisivo della polizia e, in generale, degli apparati armati dello Stato: poiché il loro compito fondamentale è proteggere e conservare l’attuale assetto della società dalle minacce esterne ed interne, è ovvia conseguenza che i quartieri poveri delle grandi città statunitensi, sia bianchi che neri, siano presi particolarmente di mira e soggetti ad un controllo asfissiante e a tratti parossistico. È questa una delle ragioni per cui la polizia è così aggressivamente restia a qualsiasi cambiamento o riforma che possa accrescerne la responsabilità nei confronti della pubblica opinione (accountability). Questi cambiamenti, se realmente applicati, ridurrebbero la capacità delle forze dell’ordine (capitalistico) di svolgere il proprio compito in modo efficiente ed efficace. È per questo che, al di là di parole di circostanza, i poteri costituiti non fanno nulla di concreto per cambiare la situazione.

Tuttavia tanto forte è la dimensione ideologica delle forme del razzismo contemporaneo, che la protesta contro l’oppressione quotidiana, anche nei confronti dell’élite nera, è spesso formulata dagli stessi afroamericani nell’accusa di agire “da bianchi”. La “bianchezza” (whiteness), contrapposta alla “negritudine” (blackness) è appunto espressione sul piano politico della persistenza ideologica del razzismo culturalista, che è sovente interiorizzato dagli afroamericani e a cui viene da essi data risposta rovesciandone il senso, ma in ultima analisi rafforzandone la presa, e puntellando l’ideologia dell’American Dream (peraltro sempre più in affanno a causa dei pesanti colpi ricevuti dalla crisi). Un effetto curioso di questo fenomeno è che nel discorso ufficiale i neri sono sovrarappresentati nella popolazione povera, sebbene in numeri assoluti la popolazione povera bianca sia di gran lunga superiore nel Paese. A sua volta ciò indebolisce la presa di coscienza che la propria oppressione non sia superabile se non in alleanza con il resto della classe lavoratrice bianca, povera o no, contro le élite bianche e nere, per cambiare radicalmente l’economia, la politica, la società intera. In altre parole, per rompere con il capitalismo.

L’unica speranza risiede nel rafforzamento del movimento, della sua capacità di cercare e trovare alleanze politiche e sociali, e, in ultima analisi, di disporre di strumenti politici indipendenti per affermare le proprie istanze di liberazione, che coincidono con quelle di tutti/e gli/le oppressi/e e gli/le sfruttati/e.

 

 

 

Fonte:

http://popoffquotidiano.it/2016/10/02/usa-black-lives-matter-che-succede-agli-afroamericani/

BLACK LIVES UNITED A RIO

Reportage. Davanti alla celebre chiesa della Candelaria nel giorno in cui si ricorda la strage di senza tetto avvenuta qui nel 1983. Nel paese che detiene il triste record di innocenti morti ammazzati dalla polizia, attivisti afroamericani e movimenti delle favelas hanno unito le loro voci per dire basta alla violenza razzista delle forze dell’ordine. Negli Usa come in Brasile, «è genocidio dei neri». Il 6 e il 7 agosto si replica, sfidando le Olimpiadi

La protesta che a Rio ha unito le associazioni che lottano nelle favelas contro le uccisioni della polizia e il movimento Usa «Black Lives Matter»

23 luglio, Chiesa de La Candelaria, Rio da Janeiro. Si è scelta non a caso questa data e questo luogo per sancire un nuovo percorso tra diverse associazioni brasiliane contro le uccisioni della polizia nelle favelas (Maes de Maio, Candelaria Nunca Mais e Brazil Police Watch tra le altre) e il movimento statunitense Black Lives Matter. Gli attivisti statunitensi sono da qualche giorno in città e ci resteranno fino a inizio dei Giochi quando, insieme ai brasiliani, il 6 e il 7 agosto, saranno per le strade di Rio contro quello che chiamano apertamente il genocidio dei neri. Sono previsti una serie di appuntamenti dal giorno successivo alla cerimonia d’apertura.

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foto Ivan Grozny Compasso

Una lotta unica

Dal nord al sud dell’America, un’unica voce. È significativo farlo in Brasile, durante i Giochi, nel Paese che detiene il triste record di morti ammazzati durante operazioni di polizia. Super militarizzato sempre, ancora di più in questi giorni. «Negli Stati uniti non crediate che sia così diverso. Come azione di monitoraggio abbiamo riscontrato, quest’anno, seicento afro americani colpiti da proiettili sparati dalla polizia», ricorda Daunasia Yancey, voce riconosciuta di Black Lives Matter. «Quello che sta accadendo negli Stati uniti e in Brasile è figlio di una politica razzista molto chiara», rincara la dose.

Elizabet Martin è una donna del Massachusetts, ha perso suo figlio che in Brasile c’era venuto in vacanza, anche lui ucciso dalla polizia di qui. Lei ha fondato il Brazil Police Watch: «Sono molto preoccupata per quello che può succedere con i Giochi. Ci sarà ancora più esercito, controllo del territorio, violenza. Se, per preparare e garantire una Olimpiade bisogna uccidere i propri cittadini, bisogna gridarlo al mondo che c’è qualcosa di molto sbagliato».

Nella Chiesa de La Candelaria, risalente al 1710, opera neo classica, grande orgoglio non solo della cultura carioca ma brasiliana, il 23 luglio 1983 più di quaranta senza dimora si trovavano proprio qui. Quattro agenti aprirono il fuoco contro di loro e otto morirono trucidati. Da allora casi come questo sono accaduti altre volte, con la differenza che si sono scelti luoghi più periferici vista l’eco addirittura internazionale che ebbe la vicenda.

L’impunità è garantita poiché di fronte all’insistenza di associazioni dei familiari delle vittime e altre organizzazioni come Amnesty International Brasil, le autorità di polizia replicano di essere stati costretti a rispondere al fuoco per legittima difesa. «Dal 2012, dal 5 al 20% dei casi sono stati indagati. L’impunità è garantita, in pratica. Il 77% dei morti, parliamo dunque di cifre molto significative, 5600 persone solo nel 2012, anno della Coppa del Mondo, erano neri abitanti delle favelas. Vere e proprie esecuzioni». E sono state davvero tante.

Quest’anomala messa, perché di questo si dovrebbe trattare, è celebrata da padre Renato Chiera, fondatore della Casa do Menor, che si scaglia contro il razzismo usato come incudine contro i più poveri. Accusa i politici, non risparmiando nessuno. Fa i conti dei Giochi scherzando amaramente sul fatto che il municipio è fallito per organizzarli e non ha pensato all’istruzione, ai servizi, a ciò di cui la gente ha maggiormente bisogno.

Centoundici colpi

Ogni tanto l’omelia si interrompe per ricordare non solo i caduti de La Candelaria ma anche quelli di molti altri episodi, non solo brasiliani. Quelli statunitensi, ad esempio. Tra gli altri Alton Sterling ucciso a Baton Rouge in Louisiana, Philando Castiglia nel Minnesota e Michael Brown a Ferguson. Si è ricordato poi il caso della favela di Costa Barros, qui a Rio de Janeiro, quando cinque ragazzi morirono sotto centoundici colpi sparati da poliziotti militari: Wesley Castro di 20 anni, Cleiton Correa del Souza di 18, Wilton Estevs Jr. di 20, Carlo Eduardo da Silva Souza e Roberto Souza Penha di soli sedici anni. Tornavano da un compleanno quando l’auto su cui viaggiavano è stata investita da una pioggia di colpi. Centoundici appunto. Tra i banchi anche le madri di questi ragazzi, alcune davvero giovanissime. Si fanno coraggio l’una con l’altra. Tra le organizzatrici c’è l’esperta Debora Silva Maria, fondatrice del Movimento Maes de Maio. Molto disponibile, dispensa una parola per tutti. Ha tempo pure di rilasciare qualche intervista. Ci sono televisioni tedesche e francesi oltre che brasiliane e l’inviato del New York Times. Lei risponde anche per quelle che hanno meno voglia di esporsi. Anche Debora ha perso un figlio di 29 anni, a São Paulo. Rimase celebre una sua frase pronunciata direttamente alla presidente Dilma Roussef, qualche mese dopo la sua prima elezione: «Non possiamo ancora festeggiare la fine della dittatura, perché vi siete dimenticati di avvertire le forze armate».

Anche di Patricia Olivera, la sorella di uno degli scampati alla tragedia del 23 luglio 1983, si ricordano duri attacchi verso chi fa di tutto per insabbiare cosa è accaduto da allora e cosa è successo dopo. Da anni lotta per vedere incriminati i veri mandanti, sa che i quattro sono solo degli esecutori, visto che quello non è rimasto affatto un caso isolato. Solo il più visibile.

C’è anche Fatinha, una delle storiche fondatrici del Movimento Candelaria Nunca Mais, fondato una settimana dopo il massacro. Con l’arcivescovo di allora, Dom Eugenio Sales, intimò di non smettere mai di ricordare «fino a che saranno uccisi bambini nelle strade di Rio». Dopo 27 anni non solo ci sono i brasiliani ma pure statunitensi uniti nella stessa convinzione. Fatinha è molto provata, non solo dal tempo, che evidentemente non ha cancellato quella notte. Ci sono molti ragazzini attorno a lei, indossano delle magliette azzurrine e fanno parte di uno dei progetti che queste donne hanno realizzato nella favelas.

«È un genocidio»

«È in atto, nelle Americhe, in diverse forme, un vero e proprio genocidio. Non è una questione che riguarda solo i neri – lo dice con impeto il reverendo e attivista John Selders – è una questione che riguarda tutti gli uomini, nessuno escluso. I poveri e la comunità nera sono le vittime, americane, ma negli altri continenti siamo sicuri che non stia avvenendo la stessa cosa contro altri popoli che si vogliono esclusi?». Un lungo applauso chiude il suo intervento. Un’attivista di Black Lives Matter, la cugina di un’altra vittima, Waltrina Middleton, fa partire un coro gospel. Lo seguono tutti e uno dopo l’altro alzano il pugno chiuso. Madri, fratelli, preti, brasiliani, statunitensi. Tutti. A pugno chiuso.

 

 

Fonte:

http://ilmanifesto.info/black-lives-united-a-rio/

ATTIVISTI DEL MOVIMENTO BLACK LIVES MATTER IN BRASILE

NEW YORK TIMES:
ATTIVISTI DEL MOVIMENTO BLACK LIVES MATTER IN BRASILE
articolo pubblicato sul New York Times il 20 luglio 2016*

I giochi olimpici de Janeiro Rio potrebbero rivelarsi mortali per i neri poveri della città. A lanciare l’allarme, giovedì (20.07), una delegazione di attivisti americani del movimento Black Lives Matter e gruppi di attivisti brasiliani.

Gli attivisti americani si trovano a Rio per una visita di quattro giorni volta ad evidenziare i rischi che il gigantesco apparato di sicurezza olimpica costituisce, in un paese in cui un rapporto delle Nazioni Unite ha indicato gli agenti delle forze dell’ordine come responsabili di una “parte significativa” delle quasi 60.000 morti violente all’anno.

Durante i giochi, ch si svolgeranno tra il 5 ed il 21 agosto, circa 85.000 tra soldati e poliziotti saranno di pattuglia nel tentativo di rendere sicura questa città notoriamente pericolosa per i 10.000 atleti e per gli spettatori stranieri, che si calcola saranno tra i 350.000 ed i 500.000. Si tratta di più del doppio del contingente di sicurezza ai Giochi Olimpici di Londra del 2012.

Ma mentre il gigantesco apparato di sicurezza può aiutare a proteggere i visitatori stranieri da scippi e rapine a mano armata, furti d’auto e sparatorie dei narcotrafficanti che fanno regolarmente parte della vita di Rio, gli attivisti degli Stati Uniti e le loro controparti locali hanno avvertito che la maggiore presenza di forze dell’ordine potrebbe causare un picco di omicidi da parte della polizia.

“Si parla dei costi per la costruzione delle strutture olimpiche, dell’acqua sporca, dello Zika e della criminalità, ma io voglio che il mondo conosca l’orrore della polizia che uccide i cittadini come parte della preparazione delle Olimpiadi”, ha detto Elizabeth Martin, una donna del Massachusetts il cui nipote Joseph è stato ucciso nel 2007 da un agente di polizia fuori servizio, mentre festeggiava il suo 30° compleanno a Rio.

Il Brazil Police Watch (Osservatorio sulla Polizia Brasiliana), gruppo fondato dalla Martin dopo la morte di Joseph, ha organizzato il viaggio.

I sei attivisti americani hanno iniziato la loro visita a Rio con un incontro carico di emozioni con le famiglie delle vittime della violenza della polizia locale, leader di comunità e attivisti anti-razzisti. I due gruppi hanno condiviso le loro storie personali e discusso sulle analogie tra la situazione dei neri in Brasile e negli Stati Uniti, denunciando il profilo razziale degli omicidi della polizia e la criminalizzazione delle comunità povere.

“È importante trovarsi e stare insieme, perché sappiamo che questa violenza è collegata”, ha detto Daunasia Yancey, attivista nera dei Black Lives Matter che arriva da Boston. “La violenza contro i neri è globale e la nostra resistenza è globale.”

Secondo la Yancey, sia negli Stati Uniti che in Brasile, le uccisioni di giovani neri da parte della polizia sono un problema sistemico. “Non si tratta solo di singoli casi di cattivi poliziotti. Si tratta del sistema di polizia, questo è il modo in cui la polizia lavora”, ha detto.

Monica Cunha, di Rio de Janeiro, il cui figlio Rafael è stato ucciso dalla polizia nel 2006, annuisce e dice: “Essere neri oggi in Brasile vuol dire essere marchiati per morire, spesso per mano della polizia”.

L’esatta misura della quantità degli omicidi commessi della polizia in Brasile rimane oscura e attivisti per i diritti umani e organizzazioni internazionali accusano da tempo la polizia della nazione sudamericana della pratica abituale di esecuzioni sommarie, normalmente giustificate come uccisioni a seguito di presunte “resistenze all’arresto” (ndt. i ben noti “autos de resistencia” ossia “atti di resistenza” detti anche “atti di resistenza seguiti da morte”. Si tratta di un sistema legale ereditato dalla dittatura militare ed ancor oggi in vigore, che, non prevedendo alcuna indagine nel caso in cui si certifichi che una morte è avvenuta in un confronto a fuoco, copre di fatto gli omicidi commessi dai poliziotti garantendo loro l’impunità)

Secondo le stime di Amnesty International, la polizia di Rio è responsabile di uno ogni cinque omicidi occorsi nel 2015 e che il numero degli omicidi per mano della polizia è aumentato nello stato di Rio di circa il 40 per cento durante la Coppa del di calcio del 2014.

Gli attivisti del Black Lives Matter hanno detto che più di 600 persone sono state uccise dalla polizia negli Stati Uniti finora nel corso di quest’anno.

Durante l’incontro, sono state ricordati alcuni dei più eclatanti omicidi commessi dalla polizia sia negli Stati Uniti che in Brasile: Alton Sterling a Baton Rouge, in Louisiana; Philando Castiglia nel Minnesota; Michael Brown a Ferguson, Missouri; il massacro nel 1993 di otto bambini di strada al di fuori della chiesa della Candelaria di Rio; l’uccisione nel dicembre dello scorso anno di cinque giovani nella periferia di Rio, con la polizia che aprì il fuoco contro di loro mentre si trovavano dentro la loro auto (ndt. il caso del quartiere Costa Barros, dove cinque ragazzi tra i 16 ed i 20 anni che tornavano a casa dopo aver festeggiato in un parco pubblico il primo stipendio di uno di loro, vennero massacrati senza alcun motivo da 111 colpi di fucile sparati da poliziotti militari. Per approfondire: http://carlinhoutopia.wix.com/carlinhonews…).

John Selders, un pastore di Hartford, Connecticut, ha detto che i punti in comune tra la situazione dei neri in Brasile e negli Stati Uniti creano un legame che trascende barriere linguistiche e culturali.

“Voi non siete soli qui in Brasile,” ha detto Selders, mentre l’interprete faceva eco alle sue parole in portoghese. “Noi siamo voi. Voi siete noi. Noi siamo un solo popolo.”

guarda anche il video:
https://www.facebook.com/RestoDelCarlinhoUtopia/videos/831491776950263/

*fonte: http://www.nytimes.com/…/ap-lt-brazil-black-lives-matter.ht…

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foto di Il Resto del Carlinho Utopia.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Minnesota, un altro afroamericano ucciso dalla polizia

Philando Castile è stato raggiunto da un colpo di pistola nella sua auto. Ancora proteste negli Usa.

La pistola puntata contro l'uomo

La pistola puntata contro l’uomo

globalist 7 luglio 2016

Sanguina e non si rimargina la ferita razziale in Usa. “Per favore Gesù, dimmi che il mio ragazzo non è morto”. Lo ripete come un mantra fino alla disperazione la ragazza che ha registrato il video dell’ennesimo omicidio di un afroamericano per mano della polizia americana. Si sente la voce della donna che, alla guida, ha visto il suo compagno morire. A bordo ci sarebbe anche un bambino.
Mentre sono ancora in corso le proteste per la morte di Alton Sterling, afroamericano ucciso mentre viene trattenuto a terra da due poliziotti a Baton Rouge in Louisiana, emerge un altro video che mostra un uomo di colore ucciso da un poliziotto in Minnesota, scrive la Bbc.

Philando Castile è stato ucciso nella sua auto dove si era avvicinato per prendere la patente, ha dichiarato la fidanzata.
Castile era stato fermato da un agente a cui aveva riferito di avere un porto d’armi per la pistola in suo possesso, ha raccontato sempre la fidanzata. Il video, girato dalla donna, mostra Castile coperto di sangue sul sedile al suo fianco e il poliziotto fuori dall’auto che punta una pistola contro di lui.

Sale a due il numero afroamericani uccisi nel giro di poche ore da poliziotti bianchi in Usa. Una mattanza. Uno al giorno.

La morte di Sterling ha provocato nuove proteste sulla violenze della polizia statunitense nei confronti delle minoranze. Anche in questo caso c’è un video fatto da un testimone con un cellulare che mostra come è andata la vicenda. Si vede che Sterling viene messo a terra da un agente, poi che, mentre è bloccato, è tenuto fermo da due agenti e uno gli punta la pistola al petto. E ancora, si sentono degli spari. Poco prima uno dei due agenti grida: “Attento, ha un’arma”. Secondo la ricostruzione di un testimone, dopo la morte dell’uomo, un poliziotto ha tolto una pistola dalla tasca del trentasettenne.

L’uomo è stato portato in un ospedale in condizioni gravissime ed è morto poco dopo. Ancora è al vaglio la dinamica dell’accaduto e comunque la donna e il bambino non risultano feriti. Ancora non è verificata l’ autenticità del video realizzato su Fblive.

Il dipartimento di Giustizia ha fatto sapere che ha aperto una indagine per chiarire le dinamiche della morte dell’uomo come ha confermato anche il governatore della Louisiana, John Bel Edwards.

“Questo è un linciaggio legale. La giustizia deve prevalere”, ha detto sul suo account Twitter il reverendo Jesse Jackson, icona del movimento per i diritti civili degli afroamericani tra gli anni ’50 e ’60 del secolo scorso.

Video. Le immagini sono forti e potrebbero turbare. Nel video ora in possesso degli inquirenti appare una donna seduta in una macchina con un uomo la cui camicia appare intrisa di sangue, mentre urla che un agente ha sparato il suo compagno.

Fonte:

Fermo, Emmanuel sta morendo. L’ha ucciso la violenza razzista

Coma irreversibile. E’ questa la condizione di Emmanuel, 36enne nigeriano ridotto in fin di vita dopo una violenta colluttazione con un italiano ieri a Fermo, nelle Marche.

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Nigeriano picchiato a sangue a Fermo da un giovane, che secondo le ricostruzioni avrebbe insultato pesantemente e strattonato la compagna. I due giovani sono accolti dalla Fondazione Caritas in veritate, guidata da don Vinicio Albanesi. Che afferma: “Ci costituiremo parte civile. Sono gli stessi che hanno messo le bombe davanti alle nostre chiese”

Coma irreversibile. E’ questa la condizione di Emmanuel, 36enne nigeriano ridotto in fin di vita dopo una violenta colluttazione con un italiano ieri a Fermo, nelle Marche. Emmanuel, insieme, alla compagna Chimiary, sono ospiti da otto mesi del seminario arcivescovile di Fermo, nel progetto gestito dalla Fondazione Caritas in veritate di don Vinicio Albanesi. Accolti dopo esser sfuggiti a Boko Haram, dopo aver attraversato il Niger, superato le terribili violenze della Libia e sbarcati nel nostro paese.
Nel gennaio scorso era stato lo stesso don Albanesi ad unirli informalmente in matrimonio, presso la Chiesa di San marco alle Paludi. Un sogno che si era avverato per i due giovani, visto che proprio per sfuggire alle violenze non erano riusciti a coronare il loro sogno di amore in Nigeria.

Scrive Massimo Rossi, ex presidente della Provincia di Ascoli, esponente molto conosciuto di Rifondazione comunista

Chimiary é stremata, distrutta, inconsolabile. Qui nel reparto rianimazione dell’ospedale, le stanno proponendo la donazione degli organi di Emanuel, per dare la vita, magari, a quattro nostri connazionali… Lui, Emanuel, che era scampato agli orrori di Boko Haram nella sua Nigeria; con lei, la sua amata compagna, era sopravvissuto alla traversata del deserto, alle indicibili violenze della Libia, alla tragica lotteria della traversata del mare. Da noi si aspettava finalmente umanità, protezione ed asilo. A Fermo, nella mia “tranquilla” provincia, ha invece incontrato la barbarie razzista che cresce nell’indifferenza, nell’indulgenza e nella compiacenza di larghi settori della comunità, della politica, delle istituzioni. L’hanno ammazzato di botte dopo averlo provocato, paragonandolo ad una scimmia, due picchiatori, figli della città, cresciuti nell’umus del fascistume infiltrato ampiamente nella tifoseria ultras. Loro, che paragonarli alle bestie offende l’intera specie animale. Le mie lacrime, le nostre lacrime e la nostra vergogna per questo orrore che si é nutrito della putrefazione della nostra insensibilità, del nostro egoismo e delle nostre paure non basta affatto. Cosa dobbiamo attendere ancora per mettere al bando con ogni mezzo, tutti noi, cittadini e Istituzioni, il razzismo e fascismo che si annida nella nostra vita sociale e politica?

Da sinistra: Letizia Astori, Don Vinicio Albanesi, Suor Rita Pimpinicchi. Foto Zeppilli
Conferenza stampa 06 luglio 2016 2

La vicenda. Era il primissimo pomeriggio di ieri quando Emmanuel e Chimiary stavano passeggiando in centro città, diretti verso la piazza principale per acquistare una crema. I due si sono imbattuti in due giovani italiani, già conosciuti per la loro appartenenza al tifo organizzato della locale squadra di calcio. Secondo la ricostruzione della compagna di Emanuel, uno dei due avrebbe iniziato a insultare con epiteti razzisti la giovane, cominciando a strattonarla, tanto da suscitare la reazione di Emmanuel. Ne sarebbe scaturita una rissa, con un paletto della segnaletica estratto dalla strada, violenti fendenti e un colpo probbailmente decisivo che ha raggiunto il giovane Nigeriano alla nuca. Una volta a terra, sempre secondo il racconto di Chimiary, il giovane sarebbe stato colpito ripetutamente. Soccorso dai vigili, dagli agenti di polizia e dai sanitari, dopo lunga attesa, le condizioni del giovane sono sembrate disperate. Alla ragazza, invece, sono stati concessi cinque giorni di prognosi.

Chimiary ed Emmanuel
Immigrazione. Sposi a San Marco Paludi

La Fondazione si costituisce parte civile. “Una provocazione gratuita, a freddo – ha ricostruito oggi in conferenza stampa don Vinicio Albanesi -. Ci costituiremo parte civile, nella veste di realtà a cui i due ragazzi sono stati affidati”. Sono 124 i profughi accolti nella struttura del seminario di Fermo, tra cui 19 nigeriani. Non solo: “Per questa sera abbiamo già organizzato una veglia di preghiera. Vogliamo pregare e chiedere perdono per non aver saputo proteggere e accogliere una giovane vita, sfuggita al terrore per trovare poi la morte in Italia”. Ora il pericolo da scongiurare è una escalation di nervosismo tra i profughi o in città: “Non accettiamo vendette. C’è un ragazzo in condizioni disperate e un altro che ha rovinato la sua vita e quella della sua famiglia”.
Di certo, la Comunità di Capodarco – di cui don Albanesi è presidente – accoglierà Emanuel per sempre. La volontà è quella di mettere a disposizione uno dei loculi che la comunità ha nel vicino cimitero.

Linciaggio e bombe: stessa mano? Nel corso della conferenza stampa, don Albanesi ha anche lasciato trapelare una indiscrezione importante: “Ci sono piccoli gruppi, di persone che si sentono di appartenere evidentemente alla razza ariana! Fanno capo anche alla tifoseria locale e secondo me si tratta dello stesso giro che ha posto le bombe davanti alle nostre chiese! E se lo dico, significa che non è una semplice impressione…”. Una dichiarazione che sembra imprimere una svolta importante anche alle indagini sui diversi attentati di cui sono stati fatte oggetto quattro chiese fermane nei primi mesi dell’anno.

Chimiary ed Emmanuel nel giorno del matrimonio
Immigrazione. Sposi a San Marco Paludi 2

Una storia d’amore finita tragicamente. Quella di Chimiary ed Emmanuel è una storia d’amore iniziata in Nigeria, che aveva superato le terribili violenze in Libia (per le botte ricevute, la giovane in stato di gravidanza si era sentita male durante il viaggio in mare, tanto da abortire al suo arrivo in Italia), le difficoltà nel nostro Paese. Emanuel aveva avuto problemi di salute, tanto che per lui la Commissione territoriale aveva chiesto un supplemento di istruttoria nella richiesta di permesso di soggiorno per motivi umanitari. “Ci sono ottime possibilità che il permesso venga concesso”, ha sottolineato l’avvocato Letizia Astorri. Lo scorso mese di gennaio, come ricordato, era stato lo stesso don Vinicio Albanesi a unirli in matrimonio, seppur in maniera “non regolare” vista la mancanza di documenti dei due giovani. La liturgia cristiana, celebrata da don Albanesi nella veste di parroco e di presidente della Fondazione che li ha accolti, è stato infatti un matrimonio privo di effetti civili poiche i due ragazzi non avevano i documenti necessari. Questo però non aveva impedito ai due di realizzare il sogno maturato nella terra di origine.

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Fonte:

http://popoffquotidiano.it/2016/07/06/fermo-emmanuel-sta-morendo-lha-ucciso-la-violenza-razzista/