Kashmir, scontri con i militari indiani, almeno 72 morti e oltre 7mila feriti

Kashmir. Il governo di Delhi usa i paramilitari e le letali «pellet gun»

Dopo quasi due mesi dalla morte di Burhan Muzaffar Wani, il giovane comandante del gruppo armato separatista kashmiri Hizbul Mujahideen ucciso dall’esercito indiano, la valle del Kashmir continua a bruciare. La normale e ordinaria vita dei cittadini si è interrotta e il bilancio è ormai tragico: 72 morti e 7.000 feriti causati dagli scontri con i militari indiani, percepiti a tutti gli effetti come le forze di un’occupazione straniera.

Le strade sono deserte, i soldati sono l’unica, ma costante, presenza e le serrande dei negozi chiusi accompagnano i passanti con graffiti che fungono da sottotitoli di quest’estate: «Burhan è il nostro eroe», «Indian dogs go back». Internet e la rete telefonica sono ancora bloccate. Il coprifuoco, per prevenire assembramenti cospicui, è rigido. I giovani aspettano le 18, quando le truppe cominciano a ritirarsi, oppure sfidano le restrizioni e fronteggiano le forze dell’ordine armati di pietre. Le scuole e i negozi sono chiusi da quando i leader separatisti hanno indetto l’hartal – sciopero in urdu.

La stagione dei matrimoni è stata rimandata, i beni di prima necessità cominciano a scarseggiare, i giovani rischiano di perdere un anno di scuola e l’economia dello stato è in picchiata libera, colpendo soprattutto quelli che hanno lavori più umili. Per non parlare dell’industria del turismo, probabilmente il settore più produttivo nella valle, che ha visto sfumare la stagione estiva. Ma la popolazione appare disposta a sopportare tali sacrifici, unita e determinata nel dimostrare il proprio dissenso nei confronti dell’amministrazione indiana.

L’insurrezione del 2016 verrà sicuramente ricordata per l’uso delle cosiddette «armi non letali» da parte dei paramilitari indiani e della polizia: i pellet gun. Introdotte in Kashmir dopo la sanguinosa estate del 2010, in cui 120 persone erano state uccise durante le proteste, si tratta di cartucce contenenti 500 sfere metalliche usate per sedare l’aggressività giovanile durante le sassaiole. Sparati molto spesso a distanza ravvicinata e ad altezza uomo, i pellet gun possono causare ferite molto gravi.

Nel reparto di oftalmologia dell’ospedale Shri Mahraja Hari Singh di Srinagar i medici raccontano di una situazione drammatica per via dei 2.000 pazienti che hanno riportato ferite agli occhi. Molti di questi, a causa dei pellet gun, sono destinati a una cecità irreversibile. Inoltre gli scanner per la risonanza magnetica generano un forte campo magnetico, causando il movimento delle sfere depositate nel corpo, particolarmente pericoloso se vicine ad organi vitali come cervello, cuore o spina dorsale.

Le dure e diffuse condanne per l’uso dei pellet gun hanno costretto il governo centrale di Delhi a intervenire. È stato quindi costituito un comitato, presieduto dal ministro degli interni indiano, che si è impegnato ad interrompere l’utilizzo dei pellet gun, sostituendole con il Pelargonic Acid Vanillyl Amide, delle granate al peperoncino in grado di stordire e immobilizzare l’obiettivo per qualche minuto. Tuttavia, i pellet gun rimarranno in dotazione delle forze dell’ordine dispiegate nella regione e verranno utilizzate sono in rari casi.

Fino a qualche giorno fa la gestione del governo indiano si era limitata a dichiarazioni che sottolineavano il ruolo di pochi nel fomentare le proteste e il ruolo del Pakistan nel provocare le violenze. Sulla stessa lunghezza d’onda, Mehbooba Mufti, chief minister dello stato del Jammu e Kashmir, aveva sostenuto come i responsabili dei disordini fossero solo una minima percentuale a fronte della maggioranza pacifica della popolazione. Qualcosa si è mosso quando Mufti, dopo aver incontrato il primo ministro Narendra Modi a Delhi, ha dichiarato che «[il primi ministro] è molto preoccupato per la situazione in Kashmir e rammaricato per le perdite umane».

Dopo l’incontro è stato inoltre deciso che una delegazione con esponenti di tutti i partiti del parlamento di Delhi visiterà la valle il 4 settembre per confrontarsi con varie personalità, organizzazioni e rappresentati della società per trovare una soluzione, sempre più urgente ormai. Il ministro degli interni Rajnath Singh si è rifiutato di rispondere riguardo alla possibilità di incontrare anche i leader separatisti kashmiri, che secondo molti dovrebbero essere considerati degli interlocutori fondamentali ad un ipotetico tavolo di confronto con India e Pakistan, in quanto rappresentanti della popolazione.

«Concedetemi la possibilità di risolvere la situazione, invece di incitare i giovani alla violenze», avrebbe chiesto Mehbooba Mufti alla Hurryat conference, principale organizzazione separatista, che non partecipa alle elezioni locali, rivendicando la natura di territorio conteso del Kashmir, battendosi invece per l’implementazione del referendum promesso nel 1948, lo strumento attraverso cui i kashmiri avrebbero dovuto decidere democraticamente del proprio futuro.

I tre principali esponenti – Yasin Malik, ex ribelle armato negli anni ’90, Mirwair Omar Farooq, capo predicatore della valle e considerato il più moderato e Syed Ali Shah Geelani, sebbene molto anziano, il più sostenuto dai kashmiri – hanno subìto forti restrizioni fin dall’inizio dell’insurrezione: i primi due sono in carcere e l’ultimo è agli arresti domiciliari da anni. Sebbene la popolazione stia seguendo le direttive della leadership riguardo lo sciopero e la calendarizzazione delle proteste, appare chiaro come le manifestazioni, gli assembramenti e le sassaiole siano tutt’altro che eterodirette; si tratta di gesti spontanei nati dal basso, senza nessuna organizzazione centrale del movimento anti-indiano. La voce dei kashmiri è più forte che mai e reclama con veemenza l’azadi – libertà, in urdu.

 

 

Fonte:

http://ilmanifesto.info/kashmir-scontri-con-i-militari-indiani-almeno-72-morti-e-oltre-7mila-feriti/

Attacco all’università di Bacha Khan in Pakistan

 

Fonte:

http://www.internazionale.it/video/2016/01/20/attacco-universita-pakistan

 

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Pakistan, l’attacco all’università Bacha Khan è un crimine di guerra

20 gennaio 2015

L’attacco della mattina del 20 gennaio contro l’università Bacha Khan di Charsadda, nel Pakistan nord-occidentale, ha violato il cuore del diritto internazionale umanitario colpendo deliberatamente civili e costituisce dunque un crimine di guerra.

L’attacco, che non è ancora chiaro quante vittime abbia provocato, sarebbe stato rivendicato da un comandante dei talebani pachistani (anche se in seguito un portavoce del gruppo armato ha condannato l’episodio), già responsabile del massacro alla scuola per cadetti militari di Peshawar che nel dicembre 2014 aveva causato 142 morti.

“Chiunque sia stato, ha mostrato assoluto disprezzo per la vita umana. I gruppi armati che agiscono in Pakistan devono porre fine a questi affronti all’umanità e impegnarsi pubblicamente a non attaccare ulteriori obiettivi civili” – ha dichiarato Champa Patel, direttrice ad interim per l’Asia meridionale di Amnesty International.

“Le autorità del Pakistan, a loro volta, devono fare il massimo per proteggere i civili e, nel farlo, devono rispettare i diritti umani. È terribile constatare che, dopo oltre 300 esecuzioni, la pena di morte – ripristinata dopo il massacro di Peshawar in nome della lotta al terrorismo – non è affatto servita a prevenire tragedie come quella di oggi” – ha sottolineato Patel.

Fonte:

Giovanni Lo Porto ucciso da un drone americano in gennaio

PAKISTAN: SEQUESTRATO COOPERANTE ITALIANO NEL PUNJAB

LO COMUNICA IL DIPARTIMENTO DI STATO USA. IL COOPERANTE ITALIANO ERA OSTAGGIO DI AL QAEDA DAL 2012, È STATO VITTIMA DI UN’OPERAZIONE COMPIUTA IN GENNAIO. LA SUA VICENDA ERA STATA AVVOLTA DAL SILENZIO, VIOLATO SOLO DA ALCUNI APPELLI DI ONG. OBAMA: “DOLORE ENORME”

Tratto da Redattore Sociale

Giovanni Lo Porto è stato ucciso da un drone americano. Lo ha annunciato lo stesso Dipartimento di Stato statunitense. “È con grande dolore che dichiariamo che nella recente missione antiterrorismo conclusa in gennaio dal Dipartimento di Stato sono stati uccisi due innocenti, ostaggi nelle mani di Al Qaeda”, scrive la Casa Bianca nel comunicato ufficiale. Insieme all’operatore umanitario italiano, a perdere la vita nel raid anche Warren Weinstein, cooperante americano. Obiettivo del raid il terrorista di Al Qaeda di origini americane Adam Gadahn, ucciso nell’operazione insieme ad un altro obiettivo, Ahmed Farouq.

Giovanni Lo Porto era stato rapito il 19 gennaio 2012 a Multan in Pakistan, insieme al collega tedesco Bernd Muehelnbeck. Si trovava nel Paese per conto della ong tedesca Welthungerhilfe, per un progetto di ricostruzione delle case distrutte nel terremoto che ha colpito l’area nel 2010.

Anni di silenzio a seguito del rapimento, smossi solo dagli appelli delle ong che erano arrivate a raccogliere una petizione con 48 mila firme on line.
“Sono qui per esprimere il dolore e le mie condoglianze alle famiglie di due cooperanti, uno americano Warren Weinstein e l’altro italiano, Giovanni Lo Porto che sono tragicamente rimasti uccisi in un’operazione antiterrorismo statunitense”, ha dichiarato il presidente degli Stati Uniti Barack Obama durante la conferenza stampa con la quale ha dato notizia dell’uccisione dei due cooperanti. Obama si prende “la piena responsabilità” per il tragico incidente che ha portato alla morte dei due cooperanti.

L’operazione è stata condotta dalla Cia, i servizi segreti americani. Weinstein è stato rapito nel 2011 e Obama ha detto “di aver fatto tutto il possibile per trovarlo e riportarlo a casa in sicurezza dalla sua famiglia”. “Abbiamo lavorato a stretto contatto con i nostri alleati italiani nello sforzo di salvare Giovanni, che è stato rapito nel 2012″.

Dal 2009, ha detto Obama, lo sforzo della presidenza americana è quello di garantire la sicurezza ai cittadini negli Stati Uniti e in tutto il mondo. Proprio per questo la morte dei due cooperanti “ci provoca un dolore enorme”, afferma il presidente americano. “Ieri ho parlato con la moglie di Warren e con il primo ministro Renzi in Italia – il presidente sospira un secondo –. Come marito e come padre non posso immaginare l’ansia che la famiglia Weinstein e la famiglia Lo Porto hanno dovuto sopportare. Mi rendo conto che non ci sono parole che possano compensare le loro perdite”. Weinstein, ebreo, 72 anni, padre e nonno, si trovava nella regione di confine tra Afghanistan e Pakistan con J.E. Austin Associates, ong contractor dell’agenzia di cooperazione americana Usaid. “Non sapevamo che in quel compound, tragicamente, Al Qaeda tenesse nascosti Giovanni e Warren. Gli errori, a volte mortali, ogni tanto accadono”, continua Obama.

Il presidente ha poi ricordato il lavoro di Lo Porto, cominciato in Repubblica Centrafricana ad Haiti fino al Pakistan, dove ha perso la vita, a 39 anni. “Il lavoro di Giovanni riflette l’impegno degli italiani nel mondo”, ha proseguito Obama. Da quanto risulta dalle prime dichiarazioni della Casa Bianca, l’operazione si è svolta in gennaio ma la notizia è stata fino ad oggi top secret per permettere lo svolgimento di un’indagine interna che spiegasse i motivi che hanno portato alla tragica morte di due cooperanti. I punti di domanda ci sono ancora. Pare che l’operazione che ha portato al raid sul compound dove si trovavano i due cooperanti abbia portato all’uccisione di Ahmed Farouq, terrorista di Al Qaeda con passaporto americano. L’altro obiettivo del bombardamento, Adam Gadhan, sarebbe stato ucciso in un’altra missione.

Come ricorda il Washington Post, non è la prima volta che l’amministrazione Obama incappa in “errori mortali”, come li ha definiti Obama. A dicembre 2014, toccò questa sorte a Luke Somers, americano nelle mani di Al Qaeda nello Yemen, ucciso durante la missione per tentare di salvarlo dalle mani dei rapitori.

Mahatma Gandhi

Mohandas Karamchard Gandhi, detto il Mahatma, la Grande Anima, nasce il 2 ottobre 1869 a Portbandar in India. Gandhi nasce in una famiglia privilegiata, il padre è Primo Ministro di Rajkot, nel Gujarat e Gandhi ha accesso ad un’istruzione di ottimo livello.

Si laurea in giurisprudenza a Londra, dove vive da occidentale, vestendosi alla moda e conducendo una vita da cittadino dell’Impero Britannico.

Svolge la professione di avvocato per un breve periodo, in Sudafrica, dove quasi subito, però, si scontra con una realtà fatta di discriminazione razziale verso gli indiani che lo porta ad una scelta di lotta politica molto determinata. La sua è una lotta politica, come dichiarato dallo stesso Gandhi nel famoso comizio il 1° settembre 1906, basata sulla non violenza, letteralmente il “satyagraha” (“fermezza nella verità”) grazie alla quale Gandhi ottiene in Sudafrica importanti riforme: l’eliminazione delle leggi discriminatorie, il riconoscimento della parità dei diritti e la validità dei matrimoni religiosi.

In Sudafrica rimane 21 anni e nel 1915 Gandhi torna in India dove trova un grande scontento verso il governo britannico in particolare a causa della riforma agraria che favorisce i proprietari terrieri a discapito dei piccoli contadini e degli artigiani.

Diventato leader del Partito del Congresso, nel 1919 dà il via alla prima grande rivolta non violenta basata sul boicottaggio delle merci inglesi e il non-pagamento delle imposte, a causa della quale Gandhi viene processato ed arrestato.

Una volta liberato, dopo qualche mese avvia una nuova protesta e viene di nuovo incarcerato. Rilasciato nuovamente, il Mahatma partecipa alla Conferenza di Londra dove chiede fermamente l’indipendenza dell’India.

Il 1930 è l’anno della svolta: Gandhi dà il via alla “marcia del sale”, una protesta di cui parleranno tutti i giornali del mondo: 380 km di marcia per chiedere il pubblico boicottaggio della tassa sul sale, considerata ingiusta. In questa occasione Gandhi, sua moglie e altre 50.000 persone vengono arrestati, ma dopo quasi un anno di prigione viene rilasciato e le leggi sul monopolio del sale vengono modificate. La protesta non-violenta riesce per la prima volta a scalfire l’immenso potere dell’Impero Britannico.

All’inizio della Seconda Guerra Mondiale Gandhi decide di non sostenere l’Inghilterra se questa non garantirà all’India l’indipendenza. Il governo britannico reagisce con l’arresto di oltre 60.000 oppositori e dello stesso Mahatma, che viene rilasciato dopo due anni.

Il 2 aprile 1947 alla Conferenza Interasiatica di New Delhi, di fronte a 20.000 visitatori, indiani e anglosassoni, Gandhi pronuncia quello che rimane il suo discorso più celebre in cui, ancora una volta proclama la non violenza e l’amore come gli strumenti più forti per vincere qualunque battaglia: “Se volete… dare un altro messaggio all’Occidente, deve essere un messaggio d’amore, un messaggio di verità” … “ Se lascerete i vostri cuori battere all’unisono con le mie parole, avrò compiuto il mio lavoro”.

Il 15 agosto 1947 l’India conquista l’indipendenza, ma a causa delle divergenze etniche e religiose tra musulmani e indù che provocano sanguinose rivolte, il Pakistan viene dichiarato stato indipendente.

Proprio per mano di un fanatico indù, il 30 gennaio 1948 Gandhi viene ucciso, mentre sta andando a pregare in giardino, come tutti i giorni, alle 5 del pomeriggio.

16 aprile 2012 (modifica il 17 aprile 2012)

Fonte:

http://www.corriere.it/cultura/leparole/biografie/gandhi_c0813b7e-87d0-11e1-99d7-92f741eee01c.shtml

Peshawar, strage di studenti

Pakistan. Commando di islamisti fa irruzione nella scuola militare di Peshawar. È il peggior attacco terroristico della storia pachistana: oltre 140 i morti, quasi tutti ragazzi. Tehrek-e-Taliban Pakistan (una sigla nata nel 2007) rivendica il massacro

Mamme in lacrime a Peshawar

Comin­cia nella tarda mat­ti­nata di un giorno di scuola appa­ren­te­mente nor­male il peg­gior attacco ter­ro­ri­stico della sto­ria del Paki­stan. Un attacco che pro­duce un bilan­cio di oltre 140 morti, in stra­grande mag­gio­ranza stu­denti. Maschi e fem­mine uccisi in una gior­nata con­vulsa che richiede almeno quat­tro ore per con­fi­nare i guer­ri­glieri isla­mi­sti del Tehreek-e-Taleban Paki­stan in una zona delle scuola dove sgo­mi­narli e ucci­derli.
Suc­cede a Pesha­war, la capi­tale della pro­vin­cia nor­doc­ci­den­tale — al con­fine con l’Afghanistan — nel col­lege mili­tare di War­sak Road che fa parte di una rete di 146 scuole che fanno capo all’esercito: liceo e secon­da­ria fre­quen­tate da quasi 500 ragazzi tra i 10 e i 18 anni d’età. Un mas­sa­cro pre­me­di­tato e senza alcun senso se non per il fatto che il col­lege è una scuola mili­tare. Una scuola con alunni che in mag­gio­ranza sono minorenni.

La furia omi­cida del com­mando — com­po­sto tra sei e dieci per­sone — si abbatte subito su inse­gnanti e ragazzi, gio­vani e gio­va­nis­simi stu­denti che l’istituto indi­rizza alla car­riera mili­tare. È giorno d’esami ma c’è anche in pro­gramma una festa che diventa pre­sto il peg­gior incubo quando irrompe il com­mando entrato da una porta late­rale: spa­rano all’impazzata non si capi­sce ancora come e con che logica. Hanno avuto solo un ordine dai loro capi, come pre­cisa la riven­di­ca­zione: spa­rare agli «adulti» e rispar­miare i «pic­coli». Mis­sione impos­si­bile in un para­pi­glia di cen­ti­naia di stu­denti e decine di inse­gnanti ostag­gio — oltre che delle armi — del ter­rore, il via­tico dell’ennesima cam­pa­gna dei tale­bani pachi­stani per spro­fon­dare le città e la gente nella paura. Gran parte dei più pic­coli, sostiene Al Jazeera, rie­sce a scap­pare alla spic­cio­lata. I più grandi sono meno for­tu­nati.
La dina­mica è per ora ancora fram­men­tata (la rico­stru­zione ora per ora sul sito del quo­ti­diano The Dawn) e non è chiaro né evi­dente come i guer­ri­glieri, tra­ve­stiti da mili­tari, abbiano orga­niz­zato la strage. Ma è chiaro che strage doveva essere: ven­detta per la mis­sione mili­tare Zarb-e-Azb del governo che da alcuni mesi mar­tella il Wazi­ri­stan, agen­zia tri­bale rifu­gio per tale­bani e sodali stranieri.

La riven­di­ca­zione del Ttp arriva poco dopo l’ingresso del com­mando e spiega che il tar­get sono pro­prio i più anziani, stu­denti com­presi. Non dun­que ostaggi da trat­te­nere per nego­ziare qual­cosa, ma obiet­tivi della vendetta.

I parenti dei ragazzi ini­ziano ad arri­vare fuori dalla scuola che è vicino a una caserma; le sirene delle ambu­lanze sono la cor­nice dello sce­na­rio più sini­stro che Pesha­war abbia mai visto.

Il primo mini­stro Nawaz Sha­rif, che defi­ni­sce l’attacco una «tra­ge­dia nazio­nale» — decre­terà poi tre giorni di lutto nazio­nale -, vola a Pesha­war dove con­verge anche il capo dell’esercito Raheel Sha­rif: i suoi sol­dati intanto stanno cer­cando di libe­rare la scuola aula per aula, men­tre il com­mando si va asser­ra­gliando nell’area ammi­ni­stra­tiva dell’edificio.

Si trova comun­que il tempo anche per la pole­mica poli­tica: Nawaz è ai ferri corti con Imran Khan, cri­ti­cis­simo capo del par­tito al potere nella pro­vin­cia del Khy­ber Pakh­tun­khwa. Ora la falla nella sicu­rezza mette in dif­fi­coltà anche il con­te­sta­tore. Tutti, com­presi i par­titi isla­mi­sti (legali), pren­dono le distanze dall’attacco e così i diversi respon­sa­bili poli­tici e reli­giosi. Il mondo guarda allibito.

Alle tre del pome­rig­gio la situa­zione comin­cia a essere sotto con­trollo: fonti rife­ri­scono che alcuni mili­ziani avreb­bero ten­tato la fuga rasan­dosi la barba. Ma le voci cor­rono incon­trol­late: il com­mando è ancora den­tro. Qual­cuno si è fatto già esplo­dere, altri tirano gra­nate, spa­rano con mitra­glie di ultima gene­ra­zione. Alle 15 e 35 radio Paki­stan lan­cia il primo duro bilan­cio dei morti: 126, un numero inim­ma­gi­na­bile solo qual­che ora prima. E desti­nato a cre­scere. È in quel momento che i mili­tari pachi­stani rie­scono intanto a rag­giun­gere il loro obiet­tivo e pochi minuti prima delle 16 fanno sapere che il com­mando è ormai con­fi­nato in un’area pre­cisa dell’enorme scuola militare.

Poco più tardi il mini­stro dell’Informazione della pro­vin­cia Mush­taq Ghani dice all’agenzia Afp che il bilan­cio è di 130 morti. Sono già 131 qual­che minuto dopo. Poi sal­gono a 140 e così avanti.

I mili­tanti del Ttp non pos­sono par­lare. Tutti morti. Non potranno spie­gare quale delle tante fazioni dell’ex ombrello jiha­di­sta — divi­sosi nel corso del 2014 in quasi una decina di rivoli — ha deciso la strage.

Muham­mad Kho­ra­sani, l’uomo che per primo riven­dica, non è un nome noto della galas­sia col cap­pello tale­bano. Il gruppo, che dal 2010 figura nella lista dei most wan­ted inter­na­zio­nali, ha man­te­nuto una certa unità sino alla morte nel 2009 di Bei­tul­lah Meshud — il fon­da­tore del Ttp con Wali-ur-Rehman (anche lui ucciso nel 2013) — e ancora sotto la guida di Haki­mul­lah Meshud, assas­si­nato da un drone alla fine del 2013. Da allora il gruppo si è diviso su que­stioni ideo­lo­gi­che e dia­tribe tri­bali (una parte per esem­pio ha ade­rito al pro­getto di Al Bagh­dadi, una fazione ha con­te­stato la lea­der­ship dei Meshud).

Quel che è certo è che la deriva stra­gi­sta nei con­fronti dei civili, già uti­liz­zata senza pro­blemi dal Ttp (a dif­fe­renza della mag­gior parte dei cugini afgani), ha preso velocità.

Il Ttp non è nuovo a bombe nei bazar e nelle moschee ma non era mai giunto a tanto. Un ten­ta­tivo nego­ziale con il governo alcuni mesi fa è fal­lito e a giu­gno l’esercito ha ini­ziato a ripu­lire il Nord Wazi­ri­stan con l’operativo Zarb-e Azb, tut­tora in corso, col­pendo i rifugi della guer­ri­glia pachi­stana e stra­niera dal cielo e da terra con 30mila uomini.

 

 

Fonte:

http://ilmanifesto.info/peshawar-strage-di-studenti/