"Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione." Articolo 21 della Costituzione Italiana. "Nel tempo dell’inganno universale dire la verità è un atto rivoluzionario." George Orwell – Blog antifascista e contro ogni forma di discriminazione.
La strage di Orlando apra il percorso per una moratoria internazionale contro l’omo/transfobia
Quanto successo ad Orlando, Stati Uniti, e quanto scongiurato al Gay Pride californiano è un campanello di allarme molto forte. 50 persone sono morte per mano di un esaltato e molte altre sarebbero potute morire se il progetto di attacco in California fosse andato a buon fine. Si tratta di un attacco terroristico? Si tratta di una strage figlia di un’inveterata omofobia? Si tratta di un eccidio teso a colpire l’”american way of life”? O si può identificare in un’efferata rappresaglia risultata dalla fusione tra queste componenti? Chi segue i risvolti della politica internazionale e i simboli della guerra del terrore tra un certo radicalismo di matrice islamica e l’Occidente, sa bene che da vari gruppi terroristici è giunto l’invito a colpire gli infedeli durante il mese sacro del Ramadan. Invito che può essere raccolto e portato a termine da qualsiasi esaltato si senta investito di questa missione.
Ma attenzione a derubricarlo come vile attacco terroristico. Perché qui si ha più l’impressione che quest’odio contro gli omosessuali sia un sentimento che mescola imprudentemente certi dettami religiosi presunti tali e fobie personali e che questa ultima componente giochi il ruolo maggiore nel trasformare un astio profondo e personale in un progetto di sangue. L’attacco di Orlando non è stato rivendicato dall’Isis, ma gli è stato dedicato dal suo autore che ha deciso di rendersi strumento solitario di un certo fondamentalismo che si fonde a paure e inadeguatezze tutte personali.
In questo contesto non possiamo non ricordarci che lo scorso Giugno 2015 la Corte Suprema degli USA aveva stabilito che il matrimonio omosessuale, quale diritto garantito dalla Costituzione, doveva essere sottratto alla discrezionalità dei singoli Stati confederati e riconosciuto in tutto il territorio statunitense. La decisione della Corte aveva visto 5 voti favorevoli e 4 contrari, palesando una spaccatura all’interno dell’Assise.
Lo scorso 27 maggio, durante l’incontro con Monica Cirinnà organizzato da Arcigay Calabria, tra i vari punti toccati, si è parlato anche di una forte recrudescenza di atti ed episodi di intolleranza omofobica – soprattutto nelle grandi città – subito dopo l’approvazione del DDL sulle Unioni Civili. Quasi a riaffermare il principio che a ogni azione corrisponda una reazione uguale e opposta. Uno scenario che negli Stati Uniti ha preso la forma più eclatante. Non a caso Obama, nelle sue dichiarazioni, ha sottolineato una volta di più quanto sia necessario rivedere l’allegro accesso alle armi che ogni americano ha.
La strage di Orlando è innanzitutto un attacco a una minoranza che in troppi pensano non debba avere alcuna tutela e alcun diritto. E’ un attacco ai principi costituzionali americani e occidentali, è un attacco alla Persona Umana quale sacra portatrice di diritti inalienabili e inviolabili sanciti dalla Dichiarazione dei Diritti fondamentali dell’Uomo, è un attacco alla tradizione del diritto positivo e al principio di laicità dello Stato. E’ un attacco ai più deboli come molti ne abbiamo visti, donne (come non ricordarsi degli stupri etnici), minoranze religiose (non dimentichiamo la strage di copti in Egitto), minoranze etniche (le lotte fatte contro al segregazione razziale in USA), minoranze culturali. E’ un attacco al cuore del principio democratico, quello del rispetto e della dialettica con la minoranza che scongiura il formarsi e il prevalere del pensiero unico, del “pensiero etico”, del principio secondo cui vi sia un detentore – primus inter pares – di un primato morale che gli da diritto di vita o di morte su chi gli sta intorno.
Dobbiamo batterci affinchè la paura non prevalga, dobbiamo mostrarci forti e coraggiosi contro chi fomenta l’odio, dobbiamo depotenziare immediatamente il tremendo impatto simbolico del sangue di Orlando, non solo sugli americani, ma sugli esaltati che potrebbero trarne ispirazione. Dobbiamo restare saldi nell’affermare con maggiore forza che i principi e gli architravi su cui abbiamo costruito la nostra storia e il nostro complesso di valore sono inviolabili e sono quelli che hanno permesso che fiorisse una libertà che agogna chi scappa da guerre, conflitti, persecuzioni di vario tipo e per la quale richiede di essere accolto in Europa o in America.
E’ doveroso essere in lutto, ma occorre lavorare con maggiore impegno per scongiurare rovinose e sconcertanti derive. Se è vero che il mondo arabo-musulmano è schiavo di una sessualità medievale che ha bisogno di essere liberata attraverso una battaglia culturale, è altrettanto vero che a livello nazionale e internazionale servono strumenti idonei a sostenere questo cambiamento.
Una legge contro l’omo/trans fobia è stata attesa per troppo tempo e non più essere rinviata. Al tempo stesso la politica internazionale, da cui la comunità LGBTI attende un segnale forte di solidarietà e vicinanza, è chiamata a disegnare strumenti vincolanti sul piano del diritto internazionale per prevenire e reprimere stragi come quella a cui siamo stati costretti ad assistere. Bisogna avviare il percorso per il riconoscimento di una moratoria internazionale contro fenomeni di omo/trans fobia, anche legata a strumentalizzazioni religiose, con la stessa convinzione con cui è stata promossa quella contro le mutilazioni genitali femminili. Ne va della nostra libera esistenza.
Silvio Nocera
Associazione culturale FIDEM – Festival delle Idee Euromediterranee
Lucio Dattola
Arcigay Calabria
Bologna, 12 giugno 2016 – “Leggiamo con orrore della strage che si è consumata la scorsa notte nella discoteca di Orlando”: lo dichiara Gabriele Piazzoni, segretario nazionale di Arcigay. Che prosegue: “Esprimiamo innanzitutto la nostra vicinanza alla comunità lgbt, colpita da questo attacco, ai familiari e alle persone vicine alle numerosissime vittime. Che si sia trattato di attacco terroristico o di crimine d’odio, la comunità lgbt ricorre come bersaglio esplicito di entrambi i fenomeni: essa viene colpita in quanto destinataria di un odio particolare o perché, come in altri fatti analoghi, rappresentativa dell’esercizio della libertà, in un luogo di divertimento. In questo senso, e in entrambi i casi, si colpisce al cuore una comunità che ha fatto della visibilità e del contrasto alla paura una battaglia quotidiana. Già stasera alle 22,30 assieme ad altre associazioni, Arcigay organizza un presidio nella Gay Street di Roma per ricordare le vittime della strage. Domani altri due presidi ricorderanno le vittime a Milano e a Napoli, dove si trovano due delle sedi diplomatiche degli Stati Uniti in Italia. In altre città si stanno organizzando iniziative analoghe, di cui saranno noti i dettagli nelle prossime ore”, conclude Piazzoni.
Una telefonata al 911 – il numero delle emergenze negli Usa – in cui ha giurato fedeltà all’Isis e al suo leader al Baghdadi. Poi l’ingresso in un night club di Orlando frequentato dalla comunità gay per perpetrare la strage più grave della storia d’America provocata da armi da fuoco. L’intero Paese è sotto shock. Alla fine si contano almeno 50 morti e 53 persone ferite, di cui molte versano in gravi condizioni. “Un atto di terrore e di odio”, ha tuonato Barack Obama parlando alla nazione in diretta tv, dalla Casa Bianca. Dal volto traspariva tutta la frustrazione per quello che considera un fallimento personale: non essere stato in grado di portare a termine una vera stretta sulla vendita di pistole e fucili, almeno 300 milioni quelle oggi in circolazione negli Stati Uniti.
Ma a scuotere l’America è soprattutto lo spettro del terrorismo. Con lo Stato islamico che attraverso l’Amaq, la sua agenzia di stampa, ha rivendicato l’attentato definendo l’autore “un combattente” del Califfato. Il killer, ucciso dalla polizia, si chiamaOmar Mateen, 29 anni, cittadino americano di origini afghane. Un profilo simile al killer di San Bernardino, originario del Pakistan, e ai fratelli autori dell’attentato alla maratona di Boston, le cui radici erano in Cecenia. E che sembra Omar abbia citato nella sua telefonata. Si tratta di giovani in tutto e per tutto integrati nella società americana. Almeno così sembrava.
Omar, nato a New York ed ex guardia giurata, viveva in una cittadina a quasi 200 chilometri dal luogo della mattanza, Fort Pierce. E in queste ore di febbrili indagini da parte dell’Fbi il confine tra l’atto di un folle che odiava i gay e quello di un ‘lupo solitario’ radicalizzatosi all’Islam è ancora labile.
Certo è che il killer era noto al Bureau: l’Fbi indagò due volte su di lui per terrorismo (e due volte fu interrogato, nel 2013 e nel 2014). Ma anche se fu inserito in una lista di presunti ‘simpatizzanti’ dell’Isis, le indagini non proseguirono, ha confermato stasera Ronald Hopper, un agente speciale dell’Fbi. “Il movente religioso non c’entra nulla, ha visto due gay che si baciavano a Miami un paio di mesi fa ed era molto arrabbiato”, ha giurato invece il padre del killer. Che poi però si è scoperto essere un sostenitore dei talebani afghani: “I nostri fratelli del Waziristan, i nostri guerrieri nel movimento e i talebani dell’Afghanistan stanno risollevandosi”, arringa Mir Seddique Mateen in un video su YouTube.
Tutte le piste vengono seguite. Mentre si cerca di ricostruire quei terribili minuti che hanno sconvolto la vita delle centinaia di persone che sabato sera affollavano il Pulse, il locale gay più famoso della Florida dove era in corso una serata di musica latinoamericana. Omar è entrato e ha cominciato a sparare all’impazzata. I testimoni raccontano di scene di terrore con la gente che urlava e il fuggi fuggi generale. Il killer impugnava un fucile d’assalto e una pistola, e portava con sé un ordigno. Un secondo congegno esplosivo sarebbe stato ritrovato nell’auto dell’uomo.
La sparatoria, iniziata all’interno del locale, sarebbe poi continuata fuori, quando una guardia che lavorava nel club ha tentato di affrontare l’aggressore. Quest’ultimo si è ritirato nel retro e ha ripreso a sparare prendendo degli ostaggi. La polizia ha quindi deciso di intervenire ricorrendo a delle ‘esplosioni controllate’ per farsi largo. Almeno nove agenti hanno preso parte all’operazione che è terminata con la morte del killer. Uno degli agenti è rimasto leggermente ferito, mentre un altro si è salvato da un proiettile alla testa grazie all’elmetto. In serata, a sostegno della pista dell’omofobia, è arrivata un’altra notizia da Los Angeles, dove un uomo armato fino ai denti con fucili stile militare ed esplosivi è stato arrestato a Santa Monica, mentre era diretto al Gay Pride. Per gli investigatori non ci sarebbe alcun legame con la strage di Orlando. Ma oggi è tutta la comunità Lgbt americana a piangere, come dopo la strage di Charleston fu quella afroamericana. E che si tratti di terrorismo islamico o di puro e semplice odio per chi viene ritenuto diverso, non c’è dubbio che oggi l’America si è svegliata più debole e vulnerabile che mai.
Elisei Marcello, di anni 19, muore alle tre di notte, solo come un cane alla catena in una casa abbandonata. Muore dopo un giorno e una notte di urla, suppliche, gemiti, lasciato senza cibo né acqua, legato per i polsi e le caviglie a un tavolaccio in una cella del carcere di Regina Coeli. Ha la broncopolmonite, è in stato di shock, la cella è gelida. I legacci bloccano la circolazione del sangue. Da una cella vicina un altro detenuto, il neofascista Paolo Signorelli, sente il ragazzo gridare a lungo, poi rantolare, invocare acqua, infine il silenzio. La mattina, chiede lumi su cosa sia accaduto. “Quel bastardo è morto”, taglia corto un agente di custodia. È il 29 novembre 1959.
Marcello Elisei stava scontando una condanna a quattro anni e sette mesi per aver rubato gomme d’automobile. Aveva dato segni di disagio psichico. Segni chiarissimi: aveva ingoiato chiodi, poi rimossi con una lavanda gastrica; il giorno prima aveva battuto più volte la testa contro un muro, cercando di uccidersi. I medici del carcere lo avevano accusato di “simulare”. Le guardie lo avevano trascinato via con la forza e legato al tavolaccio.
Il 15 dicembre si dimette il direttore del carcere Carmelo Scalia, ufficialmente per motivi di salute. A parte questo, per la morte di Elisei non pagherà nessuno. Inchieste e processi scagioneranno tutti gli indagati.
Leggendo della vicenda, Pier Paolo Pasolini rimane sconvolto. “Non so come avrei scritto un articolo su questa orribile morte”, dichiara alla rivista Noi donne del 27 dicembre 1959. “Ma certamente è un episodio che inserirò in uno dei racconti che ho in mente, o forse anche nel romanzo Il rio della grana”. Un romanzo rimasto incompiuto, poi incluso tra i materiali della raccolta Alì dagli occhi azzurri (1965). Se dovessi scrivere un’inchiesta, aggiunge, “sarei assolutamente spietato con i responsabili: dai secondini al direttore del carcere. E non mancherei di implicare le responsabilità dei governanti”.
Oggi è difficile, quasi impossibile cogliere la portata della persecuzione subita ogni giorno da Pasolini in 15 anni
L’agonia e la morte in solitudine di Marcello Elisei scaveranno a lungo dentro Pasolini, fino a ispirare il finale di Mamma Roma (1962). Ma nel 1959 Pasolini non è ancora un regista. Ha 37 anni, è autore di raccolte poetiche, sceneggiature e due romanzi che hanno fatto scalpore: Ragazzi di vita e Una vita violenta. Ha già subìto fermi di polizia, denunce, processi. Per censurare Ragazzi di vita si è mossa direttamente la presidenza del consiglio dei ministri. Eppure, a paragone dello stalking fascista, del mobbing poliziesco-giudiziario e del linciaggio mediatico che l’uomo sta per subire, questa è ancora poca roba.
Nel libro collettaneo Pasolini: cronaca giudiziaria, persecuzione, morte (Garzanti 1977) Stefano Rodotà riassume la questione in una frase: “Pasolini rimane ininterrottamente nelle mani dei giudici dal 1960 al 1975”. E anche oltre, va precisato. Post mortem. Rodotà parla di “un solo processo”, lunga catena di istruttorie e udienze che trascinò Pasolini decine e decine di volte nelle aule di tribunale, perfino più volte al giorno, tra umiliazioni e vessazioni, mentre fuori la stampa lo insultava, lo irrideva, lo linciava.
2. Il giornalismo libero
“Siamo ovviamente d’accordo contro l’istituzione della polizia”.
L’uomo che nel giugno 1968 scrive questo verso ha già sulle spalle quattro fermi di polizia, 16 denunce e undici processi come imputato, oltre a tre aggressioni da parte di neofascisti (tutte archiviate dalla magistratura) e una perquisizione del proprio appartamento da parte della polizia in cerca di armi da fuoco. “Appena avrò un po’ di tempo”, scrive in un appunto inedito, “pubblicherò un libro bianco di una dozzina di sentenze pronunciate contro di me: senza commento. Sarà uno dei libri più comici della pubblicistica italiana. Ma ora le cose non sono più comiche. Sono tragiche, perché non riguardano più la persecuzione di un capro espiatorio […]: ora si tratta di una vasta, profonda calcolata opera di repressione, a cui la parte più retriva della Magistratura si è dedicata con zelo…”. E ancora: “Ho speso circa quindici milioni in avvocati, per difendermi in processi assurdi e puramente politici”.
Oggi è difficile, quasi impossibile cogliere la portata della persecuzione subita ogni giorno da Pasolini in 15 anni. La mostra Una strategia del linciaggio e delle mistificazioni, inaugurata nel 2005 e da poco riallestita alla sala Borsa di Bologna, restituisce appena tenui riverberi. Non può che essere così, per capire bisognerebbe calarsi nell’abisso – come ha fatto Franco Grattarola, autore di Pasolini. Una vita violentata (Coniglio 2005) – e ripercorrere la sfilza dei pestaggi a mezzo stampa. Toccare con le dita un’omofobia da sporcarsi solo a immaginarla. Soppesare l’intero corpus fradicio di articoli, denso come un grande bolo di sterco e vermi.
Tra i quotidiani si fa notare soprattutto Il Tempo, ma è la stampa periodica di destra a tormentare Pasolini in maniera teppistica e ininterrotta. Rotocalchi come Lo Specchio e Il Borghese si dedicano alla missione con entusiasmo, con reporter e corsivisti distaccati a tallonare la vittima, a provocarla, a colpirla in ogni occasione, con titoli come “Il c..o batte a sinistra” e lo stile inconfondibile oggi ereditato da Libero – per citare una sola testata.
Sulle pagine del Borghese si distinguono nel killeraggio il critico musicale Piero Buscaroli e il futuro autore e regista televisivo Pier Francesco Pingitore, fondatore del Bagaglino. Altre invettive giungono dallo scrittore Giovannino Guareschi e, in un’occasione, dal critico cinematografico Gian Luigi Rondi, ma la regina dell’antipasolinismo è senza dubbio Gianna Preda, pseudonimo di Maria Giovanna Pazzagli Predassi (1922-1981), poi cofondatrice – indovinate – del Bagaglino.
Celebrata ancora oggi su un blog di destra come “la signora del giornalismo libero”, “fuori dal coro”, “mai moralista né oscurantista” e via ritinteggiando, Preda coltiva nei confronti di Pasolini un’autentica ossessione omofobica, sessuofobica e – ça va sans dire – ideologica. Sovente si riferisce allo scrittore/regista chiamandolo “la Pasolina”. Per gli omosessuali, descritti come artefici di loschi complotti, conia il termine “pasolinidi”. Va avanti per anni – proseguendo anche dopo la morte di PPP – a scrivere cose del genere:
[Pasolini] ha potuto, con immutata disinvoltura, continuare a confondere le questioni del bassoschiena con quelle dell’antifascismo […] Una segreta alleanza […] fa dei ‘capovolti’ il partito più numeroso e saldo d’Italia; un partito che, attraverso i suoi illustri esponenti, finisce sempre col far capo o col rendere servizi al Pci […] Il ‘capovolto’ sente, a naso, quel che gli conviene e dove deve appoggiarsi, se non vuole rendere conto all’opinione pubblica di quello che essa giudica ancora un vizio […] Così nasce un nuovo mito… [A celebrarlo] pensano poi i giornali di sinistra, che riescono a camuffare da eroismo la paura segreta di questo o quel ‘capovolto’ clandestino. Luminose saranno le sorti dei pasolinidi d’Italia. Già si avvertono i segni delle fortune di coloro che hanno scoperto troppo tardi il vantaggio d’esser pasolinidi […] Se avremo, dunque, nuovi scontri con i marxisti […] prima di pensare a coprirci il petto, preoccupiamoci di coprirci le terga…
Il “metodo Boffo” giunge da lontano. E anche i complottismi sulla malvagia “teoria del gender”.
L’equivalente di Gianna Preda sullo Specchio è lo scrittore ex repubblichino Giose Rimanelli, celato dietro il nom de plume A. G. Solari. Com’è ovvio, attacchi forsennati a Pasolini giungono anche dal Secolo d’Italia, ma un lavorìo più subdolo e influente di character assassination ha luogo sulla stampa popolare nazionalconservatrice, quella di riviste come Oggi e Gente.
Si va molto più in là, purtroppo. Pasolini sembra essere la cartina di tornasole del peggio. Nel 1968 il regista Sergio Leone, interpellato dal Borghese, sente l’urgenza di commentare così le polemiche sul film Teorema: “Sono convinto che tanti film sull’omosessualità hanno fatto diventare del tutto normale e legittima questa forma di rapporto anormale”. Perfino su Il manifesto si trovano battute omofobe: “La tesi [di Pasolini] ridotta all’osso (sacro) è molto chiara…” (21 gennaio 1975). Come ha scritto Tullio De Mauro:
I fiotti neri finiscono con l’inquinare anche acque relativamente lontane. Il linguaggio verbale non è fatto solo di ciò che diciamo e udiamo. È fatto anche di ciò che, nella memoria comune, circonda e alona il detto e l’udito. Il non-detto pesa accanto al detto, ne orienta l’apprezzamento e intendimento. Chi legge nell’Espresso del 18 febbraio 1968 il pezzo Pasolini benedice i nudisti con foto di giovanotto ciociaro nudo a cavallo di violoncello, è coinvolto dagli effetti del fiotto nero d’origine fascista, gli piaccia o no e lo volessero o no i redattori del settimanale radical-socialista.
È una vasta campagna a favorire, o meglio, istigare non solo le azioni poliziesche e giudiziarie, ma anche le aggressioni fisiche da parte di fascisti. Fascisti mai toccati dalla magistratura, che poi finiranno in diverse inchieste sulla strategia della tensione, come Serafino Di Luia, Flavio Campo e Paolo Pecoriello.
Il 13 febbraio 1964, davanti alla Casa dello studente di Roma, una Fiat 600 cerca di investire un gruppo di amici di Pasolini che difendevano quest’ultimo da un agguato fascista. A guidare l’auto è Adriano Romualdi, discepolo di Julius Evola e figlio di Pino, deputato e presidente del Movimento sociale italiano (Msi). L’episodio è riportato con dettagli e fonti in tutte le biografie di Pasolini, mentre è assente dalla voce che Wikipedia dedica a Romualdi.
Pasolini non querela, né per le diffamazioni a mezzo stampa né per le aggressioni fisiche. È una scelta meditata: non vuole abbassarsi al livello dei suoi persecutori. Inoltre, se querelasse non farebbe che aumentare la già enorme quantità di tempo che trascorre in tribunale.
3. Come mai?
Come mai una simile persecuzione? Perché era omosessuale? Tra gli artisti e gli scrittori non era certo l’unico. Perché era omosessuale e comunista? Sì, ma nemmeno questo basta. Perché era omosessuale, comunista e si esprimeva senza alcuna reticenza contro la borghesia, il governo, la Democrazia cristiana, i fascisti, la magistratura e la polizia? Sì, questo basta. Sarebbe bastato ovunque, figurarsi in Italia e in quell’Italia.
Pasolini, ha scritto Alberto Moravia, scandalizzava quella “borghesia italiana che in quattro secoli ha creato i due più importanti movimenti conservatori d’Europa, cioè la controriforma e il fascismo”.
La borghesia italiana si è vendicata e, in modi più obliqui, continua a vendicarsi. La fandonia di “Pasolini che stava con la polizia”, ripetuta dai fascisti, dai perbenisti e dai falsi anticonformisti di oggi, prosegue la révanche dei fascisti, dei perbenisti e dei falsi anticonformisti di ieri.
Anche l’apologia postuma di un Pasolini semplificato, appiattito, lucidato e ridotto a santino fa parte della révanche.
4. “Non potranno mentire in eterno”
Nel marzo 1960 Fernando Tambroni, già ministro dell’interno e poi del bilancio, diventa capo di un governo monocolore Dc. L’esecutivo si forma grazie ai voti dei parlamentari missini. Appena quindici anni dopo la liberazione, una forza neofascista si avvicina all’area di governo. Proteste e disordini esplodono in tutto il paese. Il 30 giugno, decine di migliaia di manifestanti si scontrano con la polizia a Genova, città operaia e partigiana scelta dall’Msi per il suo congresso. Il 7 luglio, a Reggio Emilia, polizia e carabinieri sparano su una manifestazione sindacale uccidendo cinque persone. Il 19 luglio, Tambroni si dimette.
La rivista Vie nuove – su cui Pasolini tiene una rubrica dove dialoga con i lettori – produce all’istante un disco sull’eccidio di Reggio Emilia. Si tratta della registrazione della sparatoria. Su Vie nuove, anno XV, numero 33, del 20 agosto 1960, Pasolini commenta: “Quello che colpisce […] è la freddezza organizzata e meccanica con cui la polizia ha sparato: i colpi si succedono ai colpi, le raffiche alle raffiche, senza che niente le possa arrestare, come un gioco, quasi con la voluttà distratta di un divertimento”.
Sono i giorni del processo al criminale nazista Eichmann, e Pasolini collega le due storie:
Egli uccideva così, con questo distacco freddo e preveduto, con questa dissociazione folle. È da prevedere che le giustificazioni dei poliziotti […] saranno del tutto simili a quelle già ben note… Anch’essi parleranno di ordini, di dovere ecc. […] La polizia italiana… si configura quasi come l’esercito di una potenza straniera, installata nel cuore dell’Italia. Come combattere contro questa potenza e questo suo esercito? […] Noi abbiamo un potente mezzo di lotta: la forza della ragione, con la coerenza e la resistenza fisica e morale che essa dà. È con essa che dobbiamo lottare, senza perdere un colpo, senza desistere mai. I nostri avversari sono, criticamente e razionalmente, tanto deboli quanto sono poliziescamente forti: non potranno mentire in eterno.
Nel 1961 Pasolini gira il suo primo film, Accattone. In un paese dove si legge pochissimo, il cinema è potenzialmente più pericoloso della letteratura.
La riprovazione borghese, la censura e la repressione scatenate dai film di Pasolini (tutti, nessuno escluso) saranno incommensurabilmente maggiori di quelle scatenate dai libri e dagli articoli. Se poi in un film riemerge la storia di come morì Marcello Elisei…
Nel 1962, il finale di Mamma Roma – film che scatena violenze fasciste ed è subito proibito dalla censura – mostra il giovane Ettore che muore in prigione, gemente, febbricitante e invocante la mamma, legato in mutande e canottiera a un letto di contenzione. “Aiuto, aiuto, perché mi avete messo qua?… Non lo faccio più, lo giuro, non lo faccio più… So’ bono, adesso… Mamma, sto a mori’ de freddo… Sto male… Mamma!… Mamma, sto a mori’… È tutta notte che sto qua… Nun je ‘a faccio più…”.
Il 31 agosto 1962 il tenente colonnello Giulio Fabi, comandante del gruppo carabinieri di Venezia, denuncia Mamma Roma per oscenità e si premura di aggiungere: “Si fa presente che l’autore e regista Pasolini e uno degli interpreti, il Citti, dovrebbero avere precedenti penali presso il tribunale di Roma”. Tra coloro che seguono e apprezzano Pasolini circola l’ipotesi che a irritare l’arma sia stato il finale del film.
Da qui in avanti, Pasolini è investito da un’onda d’urto censoria e repressiva che non ha corrispettivi nella carriera di altri artisti italiani.
5. “Distruggere il Potere”
Ecco il senso dell’avverbio “ovviamente”, usato da Pasolini per rafforzare una premessa che ritiene importante. È del tutto ovvio che PPP sia contro l’istituzione della polizia.
Ancora più ovvio il verso che segue: “Ma provate a prendervela con la magistratura, e vedrete!”. Quella magistratura che tanto ha perseguitato, continua e continuerà a perseguitare Pasolini, anche dopo la morte.
È a partire da questa posizione che l’autore della poesia Il Pci ai giovani affida a un mucchio di “brutti versi” – definizione sua – una riflessione confusa, che deraglia subito e diventa uno sfogo, un’invettiva antiborghese. Come scriverà poco dopo: “Sono troppo traumatizzato dalla borghesia, e il mio odio verso di lei è ormai patologico”.
Ma per quanto l’invettiva possa essere brutta sul piano formale e carente di focus nei contenuti, dopo averla letta tutta (tutta intera, non solo i 4-5 versi estrapolati e branditi come randelli da questo o quello scagnozzo) è difficile concludere che “Pasolini stava con la polizia”.
Pasolini descrive i poliziotti che si sono scontrati con gli studenti a Valle Giulia come “umiliati dalla perdita della qualità di uomini / per quella di poliziotti”. L’istituzione della polizia disumanizza. Per questo gli studenti – “quei mille o duemila giovani miei fratelli / che operano a Trento o a Torino, / a Pavia o a Pisa, / a Firenze e un po’ anche a Roma” – sono comunque “dalla parte della ragione” e la polizia “dalla parte del torto”. Se non si capisce questo, non si coglie l’intento paradossale di Pasolini. Il paradosso gli serve a precisare che la vera rivoluzione non la faranno mai gli studenti, perché sono figli di borghesi. Al massimo potranno fare una “guerra civile”, in questo caso generazionale, in seno alla borghesia. La rivoluzione, dice Pasolini, possono farla solo gli operai, ai quali la grande stampa borghese non leccherà mai il culo, come invece – nell’iperbole pasoliniana – sta facendo con gli studenti. Sono gli operai il vero pericolo per il potere capitalistico, dunque saranno loro a subire la repressione poliziesca più pesante: “La polizia si limiterà a prendere un po’ di botte dentro una fabbrica occupata?”, si chiede retoricamente l’autore. Quindi, è proprio là che dovranno trovarsi gli studenti, se vogliono essere rivoluzionari: tra gli operai. “I Maestri si fanno occupando le Fabbriche / non le università”. Ma soprattutto, gli studenti devono riprendere in mano “l’unico strumento davvero pericoloso / per combattere contro i [loro] padri: / ossia il comunismo”. Pasolini li invita a impadronirsi del Pci, partito che ha “l’obiettivo teorico” di “distruggere il Potere” (quell’estinzione dello stato che Marx pone a obiettivo finale della lotta di classe e del socialismo) ma è finito in indegne mani, le mani di “signori in modesto doppiopetto”, “borghesi coetanei dei vostri stupidi padri”. Occupare le federazioni del Pci, dice Pasolini, aiuterebbe il partito a “distruggere, intanto, ciò che di borghese ha in sé”.
Questa esortazione occupa tutta la seconda metà del testo, ma – guarda caso – non viene mai citata.
Lo so, ti gira la testa. Ti avevano detto che Il Pci ai giovani parlava bene della repressione poliziesca. Hai sentito versi di questa poesia citati da pubblici ministeri mentre chiedevano pene pesantissime per i No Tav. Li hai uditi dalle labbra di Belpietro. Li hai letti nei comunicati del Sap e del Coisp…
6. Un infame mantra
Il Pci ai giovani fu attaccata subito, e non solo dagli studenti che criticava. Franco Fortini riempì Pasolini di insulti. Sotto il cumulo di quegli insulti, le critiche erano giuste. Pasolini provò a spiegarsi, cercando di non rimangiarsi il paradosso. Quei versi erano “brutti” perché non erano bastati “da soli a esprimere ciò che l’autore [voleva] esprimere”. Erano versi “’sdoppiati’, cioè ironici, autoironici. Tutto è detto tra virgolette”. Parlò di “boutade”, di “captatio malevolantiae”, ma non arretrò mai dal punto che aveva scelto e deciso di difendere: l’invito agli studenti a “operare l’ultima scelta ancora possibile […] in favore di ciò che non è borghese”.
Ma ormai la frittata era fatta e sarebbe rimasta a fumigare in padella per i quarant’anni e passa a venire, per la gioia di “postfascisti”, ciellini, sindacati gialli, teste da talk-show, scrittori tuttologi esternazionisti, commentatori pavloviani.
Ogni volta che si manifesta il conflitto sociale e la polizia interviene a reprimerlo riparte, come lo ha chiamato un cattivo maestro, “l’infame mantra” su Pasolini che stava con la polizia e i manganelli. Con quel mantra si è giustificato ogni ricorso alla violenza da parte delle forze dell’ordine. Bastonate, candelotti sparati in faccia, gas tossici, l’uccisione di Carlo Giuliani, l’irruzione alla scuola Diaz di Genova, la solidarietà di corpo agli assassini di Federico Aldrovandi eccetera. Periodicamente, frasi decontestualizzate sui manifestanti “figli di papà” e i poliziotti proletari sono usate contro precari, sfrattati o popolazioni che si oppongono alla devastazione del proprio territorio.
Ho però il sospetto che il mantra si sia imposto solo a partire dagli anni novanta, insieme a certe “appropriazioni” del pensiero di Pasolini. Sicuramente, nel periodo 1968-75 nessun detentore del potere, nessun membro del blocco d’ordine lesse quei versi come davvero apologetici della repressione. Basti vedere come proseguirono i rapporti tra Pasolini, la polizia e la magistratura, e come si evolsero quelli tra Pasolini, il movimento studentesco e le sinistre extraparlamentari.
7. “Propaganda antinazionale”
Nell’agosto 1968, due mesi dopo la polemica su Il Pci ai giovani, Pasolini partecipa alla contestazione contro la Mostra d’arte cinematografica di Venezia, occupa il palazzo del cinema al Lido, subisce lo sgombero poliziesco e si prende l’ennesima denuncia. Sarà processato insieme ad altri registi, con l’accusa di aver “turbato l’altrui pacifico possesso di cose immobili”. Verrà assolto nell’ottobre 1969.
Sulla rivista Tempo, anno XXX, numero 39, del 21 settembre 1968, la rubrica Il Caos tenuta da Pasolini contiene una “Lettera al Presidente del Consiglio”, che in quei giorni è Giovanni Leone, non ancora “quirinato” né impeached. Lo scrittore accusa il capo del governo per la repressione a Venezia. Quanti credono che Pasolini fosse contro il ‘68 e i contestatori trasecolerebbero leggendo questo passaggio (corsivo mio):
Nel ’44-’45 e nel ’68, sia pure parzialmente, il popolo italiano ha saputo cosa vuol dire – magari solo a livello pragmatico – cosa siano autogestione e decentramento, e ha vissuto, con violenza, una pretesa, sia pure indefinita, di democrazia reale. La Resistenza e il Movimento Studentesco sono le due uniche esperienze democratiche-rivoluzionarie del popolo italiano. Intorno c’è silenzio e deserto: il qualunquismo, la degenerazione statalistica, le orrende tradizioni sabaude, borboniche, papaline.
Leone risponde arzigogolando, Pasolini continua a mirare diritto e sul numero 41 del 5 ottobre 1968 ribadisce: “Io ero presente, quella notte. E ho visto coi miei occhi le violenze della polizia”.
Per chiedere – e il più delle volte ottenere – il sequestro delle opere di Pasolini agiscono in prima persona membri delle forze dell’ordine
Due mesi dopo, sul numero 52 del 21 dicembre 1968, Pasolini commenta l’ennesimo eccidio per mano poliziesca – due braccianti crivellati di colpi ad Avola, in Sicilia – e sostiene la proposta, fatta da un Pci ancora lontano dall’appoggio alle leggi speciali, di disarmare la polizia:
Disarmare la polizia significa infatti creare le condizioni oggettive per un immediato cambiamento della psicologia del poliziotto. Un poliziotto disarmato è un altro poliziotto. Crollerebbe di colpo, in lui, il fondamento della ‘falsa idea di sé’ che il Potere gli ha dato, addestrandolo come un automa.
In una puntata della rubrica rimasta inedita e ritrovata da Gian Carlo Ferretti, Pasolini risponde a una lettrice di destra, tale Romana Grandi, che gli ha inviato un volantino dell’Msi-Dn pieno di ingiurie nei confronti suoi e di altri intellettuali: “Un piccolo sforzo potrebbe pur farlo, visto che scrive e riscrive di essere una lavoratrice: non si è accorta che coloro che sono colpiti dalla polizia sono i lavoratori (e gli studenti che lottano accanto ai lavoratori)?”.
L’autunno del ’69 – il cosiddetto autunno caldo – è una stagione di grandi lotte e vittorie operaie. Il 12 dicembre, per tutta risposta, esplode la bomba in piazza Fontana. A ruota, parte la montatura per colpire gli anarchici, le sinistre e il movimento operaio. Il 15 dicembre muore Giuseppe Pinelli. Il 16 dicembre, l’inviato del Tg1 Bruno Vespa comunica a milioni di persone che “Pietro Valpreda è il colpevole, uno dei responsabili della strage di Milano”. L’anarchico Valpreda diventa il mostro.
Pasolini, Moravia, Maraini, Asor Rosa e altri intellettuali firmano un appello “contro l’ondata repressiva”. Sul Borghese del 28 dicembre 1969, Alberto Giovannini coglie la palla al balzo e scrive:
Tra gli arrestati, oltre al Valpreda, uso a voltare la schiena non solo all’odiata borghesia ma anche agli amati giovinetti, vi sono molti ‘travestiti’ e ‘checche’; e il fatto non può lasciare indifferente P. P. Pasolini, che dei capovolti di tutta Italia è, di certo, il padre spirituale, visto che la natura ingrata […] non gli ha consentito di esserne la madre.
Sul numero 2, anno XXXII, di Tempo, del 10 gennaio 1970, Pasolini si rivolge al deputato socialdemocratico Mauro Ferri e scrive:
L’estremismo dei gruppi minoritari ed extraparlamentari di sinistra non ha portato in nessun modo (è infame solo pensarlo) alla strage di Piazza Fontana: esso ha portato alla grande vittoria dei metalmeccanici. Prima che Potere Operaio e gli altri gruppi minoritari extra-partitici agissero, i sindacati dormivano.
Dal 1 marzo 1971, per due mesi, Pasolini si presta a fare il direttore responsabile del giornale Lotta Continua, accettando il rischio di essere inquisito, rinviato a giudizio e processato per i contenuti del giornale. Cosa che succede il 18 ottobre dello stesso anno, per avere “istigato militari a disobbedire le leggi […], svolto propaganda antinazionale e per il sovvertimento degli ordinamenti economici e sociali costituiti dallo Stato [e] pubblicamente istigato a commettere delitti”. Pena massima prevista dal codice: 15 anni di reclusione. Testimoni per l’accusa: ufficiali, sottufficiali e agenti della pubblica sicurezza e dei carabinieri.
Dopo questo rinvio a giudizio, in spregio a qualsivoglia presunzione d’innocenza, la Rai blocca la messa in onda del programma di Enzo Biagi Terza B: facciamo l’appello. Oggi è una delle più famose apparizioni televisive di Pasolini, ma molti non sanno che fu censurata e andò in onda solo dopo la sua morte, cinque anni dopo essere stata registrata.
Nel frattempo, per chiedere – e il più delle volte ottenere – il sequestro delle opere di Pasolini agiscono in prima persona membri delle forze dell’ordine. A Bari, l’ispettrice di polizia Santoro segnala l’oscenità “orripilante” del film Decameron. Ad Ancona, contro la medesima pellicola sporge denuncia l’ispettore forestale Lorenzo Mannozzi Torini, secondo Wikipedia un “pioniere della tartuficoltura”.
Certamente provato ma per nulla intimidito, Pasolini finanzia e gira insieme al collettivo cinematografico di Lotta continua (Lc) un documentario-inchiesta su piazza Fontana e sullo stato delle lotte in Italia. Sceneggiato da Giovanni Bonfanti e Goffredo Fofi, il documentario esce nel 1972 con il titolo 12 dicembre e la dicitura “Da un’idea di Pier Paolo Pasolini”.
Ancora nel novembre 1973, quando il rapporto con Lc è teso e sull’orlo della rottura, Pasolini dichiara: “I ragazzi di Lotta continua sono degli estremisti, d’accordo, magari fanatici e protervamente rozzi dal punto di vista culturale, ma tirano la corda e mi pare che, proprio per questo, meritino di essere appoggiati. Bisogna volere il troppo per ottenere il poco”.
8. “Le nostre vecchie conoscenze”
L’ultima stagione, quella “corsara” e “luterana”, è segnata dalla reiterata, implacabile richiesta di un grande processo alla Democrazia cristiana, ai suoi dirigenti e notabili, ai complici delle sue politiche.
Dopo Il Pci ai giovani, sono alcune formule-shock del Pasolini 1974-75 a detenere il primato delle decontestualizzazioni e delle letture strumentali.
Per esempio, si estrapolano paradossi come “il fascismo degli antifascisti” per difendere le adunate di estrema destra, guardandosi bene dal dire che Pasolini usava l’espressione per attaccare l’ipocrisia del cosiddetto arco costituzionale, l’insieme dei partiti al potere, quelli che – dice in un’intervista del giugno 1975 – “continueranno a organizzare altri assassinii e altre stragi, e dunque a inventare i sicari fascisti; creando così una tensione antifascista per rifarsi una verginità antifascista, e per rubare ai ladri i loro voti; ma, nel tempo stesso, mantenendo l’impunità delle bande fasciste che essi, se volessero, liquiderebbero in un giorno”.
Senza il contesto cosa rimane? Una manciata di immagini – le lucciole, la fine del mondo contadino, i corpi omologati dei capelloni – ridotte a cliché e rese innocue. Rimane il “mito tecnicizzato” di uno pseudoPasolini light e lactose-free, propinato dalla stessa cultura dominante che perseguitò Pasolini, dagli eredi giornalistici dei suoi diffamatori e dagli eredi politici di chi lo aggrediva per strada.
L’8 ottobre 1975, sul Corriere della Sera, Pasolini commenta la messa in onda di Accattone da parte della Rai. Nel suo film d’esordio, scrive, metteva in scena due fenomeni di continuità tra regime fascista e regime democristiano: “Primo, la segregazione del sottoproletariato in una marginalità dove tutto era diverso; secondo, la spietata, criminaloide, insindacabile violenza della polizia”.
Nella polizia fascista di Madrid e Barcellona, scrive Pasolini, rivediamo la nostra polizia
Riguardo al primo fenomeno, scrive Pasolini, la società dei consumi ha “integrato” e omologato anche i sottoproletari, le loro abitudini, i loro corpi. Ergo, il mondo rappresentato in Accattone è finito per sempre.
È trascorso poco tempo, ma quelle parti di Roma sono cambiate. Pasolini le attraversa e dietro ogni incrocio, dietro ogni edificio, dietro ogni capannello di giovani vede – in una sovrapposizione lievemente sfasata – com’erano l’incrocio, l’edificio e quei giovani solo poco tempo prima. Tutto è in apparenza simile, ma la tonalità emotiva è alterata, la nota di fondo è irriconoscibile. Per un potente resoconto psicogeografico su tale “doppiezza” rimando alla passeggiata del Merda in Petrolio, Appunti 71-74a.
Ma cosa dice Pasolini del secondo fenomeno di continuità tra regime fascista e regime democristiano? “Su questo punto c’intendiamo subito tutti”, scrive, e sa di essere provocatorio. Sta parlando ai lettori del Corsera, è implausibile che tutti siano d’accordo nel ritenere “spietata” e “criminaloide” la violenza della polizia.
Ma l’autore è adamantino: “È inutile spendere parole. Parte della polizia è ancora così”. Segue un riferimento alla polizia spagnola, la guardia civil del regime franchista. Riferimento oggi incomprensibile, se non si sa cosa accadeva in Spagna in quei giorni. Ecco un titolo da l’Unità del 5 ottobre 1975: “Tortura a Madrid. / È stata usata dalla polizia franchista in modo sistematico contro non meno di 250 baschi. – Le conclusioni di un’inchiesta di Amnesty International – Testimonianze agghiaccianti”.
Il passaggio è rapido, ma non superficiale. Ci mostra un altro “doppio mondo” sfasato. Nella polizia fascista di Madrid e Barcellona, scrive Pasolini, rivediamo la nostra polizia, “le nostre vecchie conoscenze in tutto il loro squallido splendore”.
9. L’uomo che sorride
Tre settimane dopo, la notte tra il 1 e il 2 novembre, il corpo di Pasolini giace nel fango di Ostia, massacrato, ridotto a un unico cencio intriso di sangue.
Ora, per chiudere, prendo in prestito le parole di Roberto Chiesi:
Se guardate tra le terribili foto del ritrovamento del cadavere di Pasolini, ce n’è una, forse la più terribile, che mostra il corpo rovesciato e martoriato, con intorno alcuni inquirenti e poliziotti seduti sulle ginocchia. In particolare c’è un poliziotto seduto accanto al cadavere di Pasolini, che sorride. La foto lo mostra in maniera inequivocabile: è un sorriso di scherno, di disprezzo. Questa immagine può essere presa a campione di tutta un’Italia deteriore, da rifiutare, condensata in quell’immagine in bianco e nero, apparsa sulle prime pagine di tanti giornali dell’epoca.
Pasolini continuava a essere contro la polizia, la polizia continuava a essere contro Pasolini.
Cronaca – «Ti va a finire male, non sai chi sono io, stai attento!». Sarebbe solo una delle frasi, a cui sarebbe seguita un’aggressione, che un militare avrebbe rivolto a due giovani che passeggiavano per le vie del centro di un Comune in provincia di Catania. Dopo la querela, però, le indagini sarebbero condotte dai colleghi dell’accusato.
Prima avrebbe urlato «froci, finocchi» dagli scalini del bar di un paese del Calatino. Poi si sarebbe avvicinato e avrebbe gridato: «Froci di merda, chi cazzo pensate di essere. A ‘sti froci di merda gli rompo il culo». Era quasi l’alba quando un carabiniere fuori servizio avrebbe aggredito prima verbalmente e poi con uno schiaffo e un pugno due giovani che passeggiavano per le vie centrali del piccolo Comune, lo scorso 7 settembre. A rendere noto l’accaduto è l’avvocato Goffredo D’Antona che, incaricato di difendere le vittime, ha inviato una lettera al procuratore di Caltagirone. Perché le indagini sul presunto episodio di omofobia sarebbero condotte dalla stessa stazione dei carabinieri in cui presta servizio l’accusato.
Erano passate da poco le 4.30 del mattino quando un 23enne e un suo amico, a passeggio per le vie di un centro in provincia di Catania, avrebbero attirato l’attenzione di un militare dell’Arma fuori servizio, seduto fuori da un locale con bicchieri e bottiglie in mano. «Froci, finocchi», avrebbe urlato il carabiniere. I due giovani, in base al loro racconto, si sono allontanati senza replicare. E si sono diretti verso un panificio aperto a quell’ora. Quando il carabiniere sarebbe andato loro incontro. «Buonaseeera», avrebbe detto l’uomo che, secondo i ragazzi, emanava un forte odore di vino. Quando uno dei due giovani ha risposto chenon lo conoscevano, il carabiniere avrebbe iniziato a urlare: «Froci di merda, chi cazzo pensate di essere. A ‘sti froci di merda gli rompo il culo».
La lite si sarebbe quindi spostata all’interno dell’esercizio commerciale e si sarebbe trasformata in un botta e risposta tra il militare e uno dei due ragazzi. «Ti va a finire male, tu non sai chi sono io, stai attento!», avrebbe detto ancora il carabiniere. Il giovane, a quel punto, avrebbe tentato di allontanarlo. Ricevendo in cambio uno schiaffo in faccia. A separare i due sarebbe intervenuto il titolare del panificio. Il 23enne, prosegue il suo racconto, ha chiamato il fratello maggiore. Il quale, arrivato sul posto, ha chiesto spiegazioni al carabiniere ancora in piazza. «Ma che, ce l’hai con me? Non sai chi sono io?», avrebbe replicato l’uomo, si legge nella denuncia. «Perché non la smetti? Ti metti contro i più deboli. Ora vattene a casa ché sei ubriaco», ha risposto il ragazzo. I momenti seguenti sarebbero stati concitati. Fino all’arrivo di una pattuglia dei carabinieri in servizio. Alla vista dei colleghi, l’uomo avrebbe detto: «Identificati, figlio di puttana, ora ti arresto». E mentre il ragazzo e il fratello si allontanavano, il militare avrebbe colpito il secondo con un pugno alla nuca, facendolo cadere per terra.
La questione, a quel punto, si sposta nella caserma dei carabinieri. Dove arriva anche il padre dei due fratelli. Alla richiesta di avere le generalità esatte del carabiniere, il comandante della stazione avrebbe opposto un rifiuto. «Perché qui comando io e si fa come dico io», avrebbe risposto il dirigente. «Se le indagini su questa denuncia sono state delegate alla stazione dei carabinieri coinvolta – scrive l’avvocato D’Antona in un documento inoltrato alla procura calatina – sono costretto a osservare che forse tale scelta non è molto opportuna. Se non c’è stata delega d’indagini, a maggior ragione dovevo rappresentare quanto sin qui scritto». Per evitare un eventuale conflitto d’interessi.
Riparte l’anno scolastico: i bambini si preparano, i libri sono già stati acquistati, le merendine sono già pronte.
Ma quest’anno, più dei precedenti, per molte famiglie italiane è del tutto particolare: perchè nelle teste di molte mamme pronte a mandare il loro figlio a scuola c’è una nuova pericolosissima preoccupazione che aleggia.
Non stiamo parlando di maestre poco capaci o di baby-spacciatori, o ancora di quella direttrice scolastica che si impunta a non far riparare i bagni o dell’inefficiente sistema di trasporto scolastico del proprio Comune. No: in molte parti d’Italia, dal Veneto alla Sicilia, si sta diffondendo una preoccupazione del tutto nuova: il GENDER.
Vediamo quindi cosa sta succedendo nelle scuole italiane e nelle famiglie che si apprestano a consegnare per molte ore della loro giornata i loro figli al mondo dell’istruzione italiana.
Tutto nasce con la nuova legge voluta dal premier Matteo Renzi sulla “Buona scuola” e cioè l’attesissima riforma del sistema nazionale di istruzione e formazione.
All’articolo 16 il testo recita: “16. Il piano triennale dell’offerta formativa assicura l’attuazione dei principi di pari opportunità promuovendo nelle scuole di ogni ordine e grado l’educazione alla parità tra i sessi, la prevenzione della violenza di genere e di tutte le discriminazioni, al fine di informare e di sensibilizzare gli studenti, i docenti e i genitori sulle tematiche indicate dall’articolo 5, comma 2, del decreto-legge 14 agosto 2013, n. 93” (violenza sulle donne).
Come potete leggere anche voi, l’articolo della legge è assolutamente innocuo: parla di pari opportunità, di educazione alla parità tra i sessi (niente più maschietti bulli nelle aule, ladri delle merendine delle ragazze indifese!), contro la violenza di genere per l’appunto.
Ma è la parola “discriminazioni” che sta dando manforte agli ultrà cattolici per urlare contro quella che, in altri paesi europei, sarebbe sicuramente considerata una norma debole, poco chiara e quindi poco efficace per orientare l’istruzione su principi assolutamente condivisi e condivisibili come quelli della non discriminazione verso donne e soggetti più deboli, giovani lgbt compresi.
Nel blando articolo, non si parla infatti né di educazione sessuale (purtroppo, aggiungiamo noi), né esplicitamente di formare il personale della scuola per accogliere i bambini di famiglie omogenitoriali, né di prevenire il bullismo nei confronti degli adolescenti lgbt, che, si sa, sono più spesso oggetto delle attenzioni poco simpatiche dei loro coetanei.
E così, da Trento ad Agrigento, si sta diffondendo il panico tra le mamme italiane. Complici una manciata di attivissime associazioni di ultrà cattolici, che stampano volantini, organizzano iniziative con presunti esponenti “anti-gender”, si mobilitano via whatsapp diffondendo il panico alle altre mamme. Per dare una idea di quanto questa vera e propria psicosi collettiva si stia diffondendo in Italia, basti vedere le ricerche della parola “gender” negli ultimi tre anni sul principale motore di ricerca di Internet, Google.
Il grafico, infatti, mostra chiaramente quanto sia solo dal giugno 2015 – mese in cui è entrato nel vivo il ddl sulla Buona Scuola – che venga cercata su Google la parola “gender”, che invece prima veniva completamente ignorata.
Educazione sessuale esplicita, che annulla ogni differenza tra uomo e donna, che invita alla masturbazione, spiega come avviene la penetrazione sessuale e illustra come organizzare rapporti sessuali a sei: questo il terrorismo che sta dilagando nelle scuole e preoccupa molte mamme italiane.
Non credete ancora che tutto ciò sia possibile? Date un’occhiata a questo link.
E’ di stamani una esclusiva de L’Espresso che riporta una allucinante telefonata che sta impazzando sui whatsapp delle mamme di Brindisi. Questo audiomessaggio sta infatti girando in queste ore nei gruppi classe di alcune madri con i propri figli iscritti alle elementrari della provincia di Brindisi. Una voce preoccupata mette in guardia i genitori: «Andate a firmare al vostro Comune contro la legge gender».
Annunci catastrofici di lezioni improntate alle masturbazione, penetrazione, matrimoni tra gay. Tutto somministrato ai bambini dell’asilo e delle elementari.
Una clamorosa controffensiva contro la Buona scuola che ha introdotto la prevenzione contro la violenza di genere e le discriminazioni. Così con tono colloquiale si chiede di bloccare ogni passo verso la modernità: «Noi possiamo fermare tutto questo, un vero guaio, con una petizione. Non possiamo nemmeno dire “Io mio figlio non lo mando più a scuola” perché c’è l’arresto. Già dall’asilo parlano ai bambini di sesso, di gay, dei trans come se fosse tutto normale. A settembre quando porteremo i bambini a scuola ci daranno un foglio: non firmatelo. Mandate questo messaggio a più persone possibile. A me l’ha detto il mio pastore già l’anno scorso e pensavo fosse una cosa così.. E invece no.. Sta andando veramente avanti. Un bacio a tutti e una santa giornata».
Il tutto è partito un po’ in sordina nel giugno scorso. Noi ne avevamo dato notizia con questo articolo : era una vera e propria campagna di terrorismo psicologico diretta tutta alle famiglie con bambini in età scolare, quella attuata nelle ultime settimane da chi, celandosi dietro profili personali e senza che la cosa abbia carattere di ufficialità, puntava intanto a riempire la piazza del Family Day del 20 giugno.
Nei messaggi che circolavano in quei giorni via Facebook e Whatsapp, si faceva riferimento ad una legge che stava per essere approvata per entrare in vigore da settembre prossimo e che avrebbe obbligato le scuole ad attivare “corsi gender” nei quali insegnare ai bambini di quattro anni la masturbazione e i rapporti sessuali a sei. Nulla di vero, insomma, come abbiamo visto.
Ad agosto arriva la notizia che alcuni cittadini stiano mobilitandosi per raccogliere le firme per un referendum abrogativo del famigerato e pericolosissimo articolo 16 del ddl sulla Buona Scuola.
Ma è il 4 settembre che la battaglia prende una svolta. Fa infatti il giro d’Italia la notizia che il Sindaco di Prevalle, in provincia di Brescia, ha utilizzato il cartellone luminoso destinato alle comunicazioni pubbliche del comune per mandare un messaggio tanto chiaro quanto terroristico alle famiglie: “L’Amministrazione Comunale è contraria all’ideologia gender”. L’idea del primo cittadini di Prevalle è così buona… che viene subito ripresa da altri Sindaci.
Qualche giorno fa una notizia tristissima che arriva da Trento e che la dice lunga sul livello di preparazione culturale di queste persone.
Ricordate la terribile storia di Leelah Alcorn, la ragazza diciassettenne dell’Ohio, negli Stati Uniti, che si tolse la vita perché i genitori non accettavano il fatto che lei, nata nel corpo di un uomo, si sentisse donna e la sottoposero a terapie riparative? Rose Morelli è una fotografa britannica e le dedicò una bella foto. Subito rubata dagli intelligenti ragazzi di “Fratelli d’Italia” di Trento per dimostrare quali pericoli stanno per distruggere la scuola italiana. Ennesima gaffe, ma che la dice lunga sul terrorismo.
Una delle ultime notizie arriva dalla civilissima Toscana. Ad Arezzo da giugno c’è una nuova amministrazione di centro-destra, in cui esponenti ultrà cattolici siedono in Giunta Comunale. E così prima viene dato il patrocinio ad uno dei tanti convegni terroristici sul gender organizzati in giro per l’Italia da un avvocato che sulle persone lgbt ne ha dette di cotte e di crude, Gianfranco Amato, poi viene decisa l’uscita del Comune di Arezzo da READY , la rete delle Amministrazioni Pubbliche contro le Discriminazioni per Orientamento Sessuale e Identità di Genere il cui obiettivo era «stabilire un confronto con le Associazioni Lgbt locali, favorire l’emersione dei bisogni della popolazione Lgbt e operare affinché questi siano presi in considerazione anche nella pianificazione strategica degli enti».
E non basta che Davide Faraone, sottosegretario all’Istruzione, dica chiaro e tondo su Facebook che la ‘teoria gender’ non esista, che la campagna lanciata da alcune associazioni e frange più retrive della chiesa contro l’inesistente “teoria gender” sia “terrorismo psicologico ed infine annunci un documento ufficiale del MIUR che spieghi l’intento del contestato articolo della riforma della scuola, ovvero educare al rispetto delle differenze e combattere le forme di discriminazione e di violenza di genere.
Non basta, perchè come la pagina di Facebook “Il Gender” ci ha simpaticamente spiegato , il gender cambierà a breve il sesso di tutti i bambini italiani… non solo dei testimonial dell’ovetto Kinder.
“Ora le sue lotte sono le mie. Al Pride di Reggio avevo la sua maglietta. Volevo che ci fosse, che vedesse e gioisse dei piccoli passi in avanti che la nostra città compie. Avrei voluto che avesse capito che anche qui era possibile, solo ci voleva più tempo…”. Il suo Sanz si è suicidato per omofobia. Adesso Rita gli fa rivivere ogni anno il Gay pride di Reggio Calabria indossando la sua maglietta, accompagnata dai suoi figli e sostenuta dal compagno. LGBT News Italia l’ha intervistata.
È stata l’immagine più tenera del Gay pride di Reggio Calabra 2015: una mamma bellissima con una corona di fiori colorati e il suo bambino in braccio. Abbiamo cercato di saperne di più e abbiamo scoperto, dietro quel sorriso raggiante, una storia struggente che vogliamo raccontarvi. Un amico, che chiamava fratello, distrutto e ridotto pelle e ossa dal cancro dell’omofobia e della vergogna che non lascia scampo alle famiglie e alla società. Il verme della depressione stroncato con un colpo di pistola. Lei adesso non perde un solo Pride, proprio in uno dei territori d’Italia più ostili all’amore in tutte le sue forme. Così, come a far rivivere la presenza di lui in quella piazza e dimostrare pubblicamente che la lotta per i diritti LGBT appartiene a tutti gli eterosessuali; nell’amara consolazione che il ricordo di quel sacrificio possa salvare qualche altra povera vita persa nel pozzo della disperazione familiare, perché le famiglie capiscano che non esiste alcun giudizio della gente che conti più di un abbraccio a tuo figlio quando ha più bisogno di te e vorrebbe sentirsi dire: “Ti ho messo al mondo e ti amo, perché non può esserci nulla di esterno fra noi e te che possa impedirci di amarti comunque tu sia e ovunque tu sia”.
Come mai un impegno così forte per i diritti LGBT?
L’impegno per la causa LGBT non ha una storia particolare, è un sentimento di partecipazione alla lotta per l’uguaglianza che ho anche nei confronti di altre minoranze e che ricordo di aver provato già da piccolissima. Empatia verso chi era vittima di soprusi o ingiustizie di varia natura ed entità, dal gruppo di bulletti alle violenze sugli animali. Dovevo intervenire in qualche modo e credo che tutto questo sia solo cresciuto con me.
Cosa è successo al tuo amico?
La storia del mio amico è una storia di ordinaria tristezza…come lui tanti ragazzi sono stati minati nel profondo dalla discriminazione, dalla mancanza di accettazione, dall’esclusione, dall’allontanamento, tutte cose che spingono chiunque sia dotato di una sensibilità fuori dal comune e una fragilità interiore a sgretolarsi lentamente. Questo è accaduto: trauma dopo trauma perdeva un po’ di se stesso, colpo dopo colpo un po’ della sua gioia di vivere (e vi assicuro che ne aveva da vendere). Era lui l’anima della festa, il burlone, il compagnone, sorriso e battuta sempre pronti. Si parlava di mentalità, era arrabbiato e ferito da ignoranza e tentativi di omologazione, voleva distinguersi, esprimersi in tutte le sfaccettature della sua complessa personalità. Il non venire compreso però lo alienava ogni volta. Ho assistito a scontri di idee e battaglie per il rispetto, non si tirava indietro mai, poi però partiva per Paesi lontani e più tolleranti alla ricerca della sua libertà, ma quello spazio avrebbe voluto averlo qui nella sua terra, a casa sua. Tornava sempre ma le sue ‘fughe’ non cancellavano i problemi che lo stancavano sempre più, la ribellione veniva sostituita dalla rassegnazione nelle continue discussioni. Era demoralizzato e sfiduciato. Ci si consolava confidandoci, aveva sollievo a sentirsi capito. Io in realtà non faticavo a capire lui, ma le persone con cui aveva a che fare che lo ferivano di continuo. Venne ad abitare con la mia famiglia e diceva di sentirsi bene con noi. Si usciva, giocava con la mia bimba, ma arrivarono altri duri colpi. Poi l’ennesima partenza, stava per nascere la mia secondogenita e lui partiva per la Spagna con la promessa di ritrovarci tutti dopo un paio di mesi. Non andò bene, l’ennesimo trauma e smise di mangiare e parlare. Ricoverato in una clinica del luogo, l’hanno riportato qui che era l’ombra di sé stesso. Depressione e schizofrenia, dicevano i dottori, e lo imbottivano di farmaci che facevano peggio. Tutti abbiamo provato di tutto. Tutto inutile. Due anni di tristezza, di speranze, di tentativi. In due anni c’ha provato due volte a farla finita. Poi il 12 luglio 2012 un colpo di pistola ha segnato la fine della sua vita, della sua sofferenza e l’inizio della mia. Era fragile come il cristallo ma è stato provato come la roccia dalla vita..troppo duramente. Come il cristallo è andato in pezzi e io ancora non posso accettarlo. Ora le sue lotte sono le mie. Al Pride di Reggio avevo la sua maglietta. Volevo che ci fosse, che vedesse e gioisse dei piccoli passi in avanti che la nostra città compie. Avrei voluto che avesse capito che anche qui era possibile, solo ci voleva più tempo…
Come ha fatto a procurarsi una pistola?
Come ha fatto non è stato accertato ufficialmente, le indagini sono state sommarie e frettolose.
Abbiamo parlato con tante persone, in Calabria emerge un quadro di omofobia davvero spaventoso e a nostro avviso peggiore di quello di qualsiasi altra regione. È davvero così? Dove rintracceresti le cause?
È così purtroppo, ma la situazione sembra migliorare. Le cause vanno cercate all’interno delle famiglie e dei gruppi religiosi (che, bisogna dirlo, con Dio non hanno niente a che fare). I padri qui sono molto inquadrati nella figura di uomo-macho, anche piuttosto duro, anziché in quella di padre affettuoso e amorevole. A loro volta sono stati educati così. Poi ho sentito con le mie orecchie fanatici religiosi affermare che le persone omosessuali sono contro Dio e che finiscono per ammalarsi di depressione proprio per questo. Non puoi immaginare come queste parole siano devastanti per una psiche giovane o fragile ed è allora che diventa fondamentale il sostegno della famiglia.
Pensi che siano molte le persone eterosessuali che portano avanti un impegno e un interesse forte come il tuo?
Non so quante persone ‘esterne’ si impegnino nella causa, sono a conoscenza di qualcun altro che lo fa come il mio compagno e alcuni amici. E spero che ce ne siano più di quanti immagini e che le campagne di sensibilizzazione le faccia aumentare sempre di più.
Cosa diresti alle persone non direttamente interessate alla questione dei diritti LGBT per far capire quanto sia fondamentale che ci diano il loro sostegno?
Credo che sia molto importante che chiunque, di qualsiasi orientamento sessuale, scenda in piazza, si esponga e prenda parte alla causa, semplicemente perché è giusta, non perché è la propria. Queste storie dovrebbero indignare e offendere chiunque poi pretende di essere definito essere umano. Chiunque dovrebbe voler vedere finire questo capitolo di sofferenza gratuita e inutile e iniziare a rispettare le differenze fra individui che non fanno altro che arricchire invece di spingere questi ragazzi al disprezzo di sé e all’autodistruzione. La morte per suicidio di uno di noi è il nostro fallimento come società. Come comunità.
Continuo ad avere la speranza che il mondo possa diventare un mondo migliore. Ho tre figli e il mio impegno è soprattutto rivolto nell’educare loro al rispetto e all’amore, cosicché la catena continui…
Se qualcuno dei tuoi figli da grande ti confidasse di essere omosessuale. Come reagiresti?
Se uno dei miei figli mi dicesse di essere omosessuale gli starei più vicina, accertandomi che sia sicura o sicuro di avere il sostegno, la comprensione e l’amore di sua madre in ogni scelta e in ogni difficoltà. Gli direi solo di cercare la sua felicità ovunque la trovi, di difendere l’amore in ogni sua forma e di non cercare per forza comprensione o rispetto dove non può trovarlo, ma di pretendere la libertà di essere ciò che vuole essere. Sempre!
La pietà non è selettiva. E’ un concetto che non mi stancherò mai di ripetere. Ma per molta parte del mondo ci sono vittime più importanti di altre. Ho appena letto la triste notizia della morte di una ragazza di 17 anni, Shira Banki, accoltellata al Gay Pride di Gerusalemme da un fanatico appena uscito di prigione per un’aggressione simile. Il premier israeliano, Netanyahu, ha espresso il suo “cordoglio” per questo assassinio parlando dei diritti di ogni persona e dei valori fondamentali della società israeliana ( fonte: http://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/Israele-morta-la-ragazza-pugnalata-al-Gay-Pride-Shira-Banki-7e947b94-8c7b-4992-a750-6d1b4b5fe1ef.html)
Siamo al trionfo dell’ipocrisia! Un stato che occupa illegalmente un altro territorio, rubando terra, risorse e massacrando il popolo palestinese, tenta di nascondere i suoi crimini sotto il sottile velo del pinkwashing. Shira Banki non è solo una vittima di omofobia ma è una delle tante persone la cui immagine è sfruttata dal loro stesso stato che finge di riconoscere loro i diritti umani che continuamente calpesta.
Il piccolo Ali sarebbe per Netanyahu vittima di un attacco terroristico. E tutti gli altri palestinesi uccisi continuamente dai soldati israeliani ( gli ultimi due nella stessa giornata in cui è stato ucciso Ali: leggi qui http://www.infopal.it/ramallah-adolescente-ucciso-da-soldati-israeliani/ e qui http://www.infopal.it/giovane-palestinese-ucciso-dalle-forze-israeliane-nella-striscia-di-gaza/) solo perchè palestinesi? Non sono crimini anche questi? E all’omicidio di Mohammed Abu Khdeir, anch’egli bruciato vivo da coloni israeliani nel luglio dell’anno scorso (fonte: http://nena-news.it/palestina-omicidio-abu-khdeir-fermati-sei-estremisti-israeliani/), perchè Netanyahu non ha parlato di terrorismo? Forse perchè era troppo impegnato a preparare l’ennesima operazione militare, l’Operazione Bordo Protettivo, durante la quale (con la scusa di difendersi dal “terrorismo” palestinese) sono stati uccisi più di 2000 palestinesi.
Questi sono solo alcuni esempi che si possono fare sull’ipocrisia di quella che è chiamata “l’unica democrazia in Medioriente”.
D. Q.
STESSO AMORE, STESSI DIRITTI17 maggio 2015Il 17 maggio del 1990 l’Organizzazione mondiale della sanità rimuoveva finalmente l’omosessualità dalla lista delle patologie mentali nella classificazione internazionale delle malattie. In ricordo di quella storica decisione, l’Unione Europea nel 2007 ha indetto per il 17 maggio di ogni anno la Giornata internazionale contro l’omofobia e la transfobia per creare uno spazio di riflessioni e azioni per denunciare e lottare contro ogni violenza fisica, psicologica o simbolica legata all’orientamento sessuale e alla identità di genere.
La Giornata Internazionale contro l’omofobia costituisce un momento importante per porre al centro del dibattito pubblico il tema del diritto di tutti i cittadini a vedersi garantita l’uguaglianza e la parità di trattamento, indipendentemente dal proprio orientamento sessuale o identità di genere.
Purtroppo ancora oggi le persone LGBT sono vittime di gravi violenze e discriminazioni dovute principalmente all’ignoranza e al pregiudizio.
Siamo convinti che la lotta ad ogni forma di violenza e discriminazione nei confronti delle persone LGBT richieda un intervento sia sul piano culturale, per scardinare gli stereotipi e i pregiudizi che stanno alla base degli atti e dei comportamenti omofobici e transfobici, sia sul piano giuridico. Per questo motivo, quest’anno abbiamo deciso di mettere a fuoco come tema centrale quello degli UGUALI DIRITTI come fonte positiva per il contrasto ad ogni forma di discriminazione.
Lo slogan “STESSO AMORE, STESSI DIRITTI” vuole richiamare l’attenzione sull’obiettivo della piena uguaglianza e pari opportunità ribadendo il concetto che un Paese realmente civile e laico non può lasciare che alcuni cittadini abbiamo meno tutele di altri. Riteniamo che sia molto importante dare visibilità al tema dell’omofobia, per stimolare quel cambiamento culturale che porterà anche nel nostro Paese una piena uguaglianza.
Vi aspettiamo Domenica 17 maggio alle h 17,30 per la manifestazione “STESSO AMORE STESSI DIRITTI” sulla scalinata del teatro Cilea: l’evento si concluderà con un’azione collegata alla campagna “No Hate Speech Movement”, promossa dall’associazione APICE e patrocinata dal Consiglio d’Europa.
Il Primo Maggio non sarà la giornata di inaugurazione di un Grande Evento.
Il Primo Maggio va in scena il teatrino che presenta come eccezionale un paradigma, paradigma che in realtà si sta già affermando sul territorio lombardo e su quello nazionale.
Expo non è limitato a un periodo di tempo, non è circoscritto ad una determinata regione, Expo è l’emblema di un sistema di gestione dei territori che travalica la territorialità del qui ed ora, che sfrutta la logica del grande evento, dello stato di eccezione, per mettere i suoi tentacoli in ogni angolo della metropoli e della società: dall’alimentazione al lavoro, passando agli umilianti discorsi rispetto al ruolo della donna, alla consegna della città alla speculazione edilizia e alla corruzione. Expo non inventa nulla, raccoglie e istituzionalizza percorsi d’attacco ai diritti, alla vita, al futuro che da anni subiamo. Expo è un modello di governance, uno strumento del capitale, quindi è un acceleratore di processi neoliberali che vanno dal superamento dello stato nazione e delle sue rappresentazioni sotto forma di democrazia rappresentativa, alla speculazione e all’esproprio di ricchezza dal territorio e di sfruttamento delle vite, passando per l’imposizione della logica del “privato”. Expo, assieme a “grandi eventi” (Mondiali di calcio ed Olimpiadi), Grandi Opere e gestione dei grandi disastri ambientali ha, quindi, un ruolo centrale in questa fase del capitalismo.
Partendo dalla speculazione sui terreni agricoli, il “governo Expo” accelera i processi di svendita del patrimonio pubblico e di “privatizzazione all’italiana”: si fondano aziende di diritto privato che in realtà sono costituite da enti pubblici (vedi Expo spa); vengono drenate risorse a settori di supporto sociale, come l’abitare, la mobilità accessibile, la cultura; si attivano ingenti processi di cementificazione di aree urbane ed extraurbane (centinaia di km di asfalto tra Teem, BreBeMi, Pedemontana e la distruzione dei parchi a sud-ovest di Milano per realizzare la Via d’acqua) che stravolgono l’assetto urbanistico e la vivibilità dei quartieri.
Negli oltre sette anni di re-esistenza, come rete NoExpo abbiamo più volte descritto e semplificato questi processi, ascrivibili al modello Expo, secondo lo schema debito, cemento, precarietà, mafie, spartizione, poteri speciali, nocività, mercificazione di acqua e cibo e anche corruzione culturale, sociale, politica, ideologica. A queste parole sono corrisposte vicende, fatti e inchieste che Expo ha generato e che hanno confermato quanto affermiamo da tempo: Expo non è un’opportunità ma un problema e una minaccia non solo per Milano ma per l’intero Paese. Con l’apertura dei cancelli di Expo, queste parole d’ordine saranno il filo conduttore delle analisi e delle mobilitazioni che porteremo avanti nei prossimi mesi.
GREENWASHING
Attraverso la mistificazione delle idee di ecologia e di sostenibilità e dell’importanza di un’alimentazione sana, Expo si tinge di verde, con la green economy e il greenwashing, per mascherare l’ipocrisia di un approccio al tema tutto interno al modello economico neoliberista, in continuità con esso nel promuovere le politiche legate agli investimenti di multinazionali dell’alimentazione, del biologico a spot e dell’agricoltura intensiva ed industriale. Un evento, a sentire la propaganda, così dedito alla natura e all’ecologia che dovrebbe favorire i piccoli contadini ed un rapporto diretto con la terra, che si basi sull’acquisto solidale, la vendita diretta, il chilometro zero, la diffusione del biologico all’intera popolazione, in definitiva l’accesso per tutti al cibo.
Tuttavia, basta un’occhiata a sponsor e aziende partner di Expo per comprendere l’ipocrisia dei discorsi ufficiali. La partecipazione delle principali multinazionali dell’industria alimentare (basti pensare a McDonald’s) e della grande distribuzione; l’investimento sull’evento da parte di colossi dell’agroindustria che detengono il monopolio sulla mercificazione delle sementi e la gestione di quelle geneticamente modificate (e che moltiplicano in questo modo rapporti di dipendenza dei paesi economicamente più indigenti verso quelli più ricchi); il supporto alle politiche di sfruttamento intensivo dei terreni e il sostegno ad un’agricoltura di tipo industriale, che segue le regole del mercato schiacciando l’attività agricola rurale, sono tutti elementi che raccontano un modello che nulla ha a che fare con il “ritorno alla terra”. Un concetto, sia chiaro, emerso in funzione della cattura, all’interno della ragnatela di Expo, dei soggetti socialmente attivi sul tema, attirati da un immaginario, frutto di una banalizzazione e d’un appiattimento, utile più a vendere un prodotto che a risolvere problemi o presentare alternative.
Coca-Cola, McDonald’s, Nestlé, Eni, Enel, Pioneer-Dupont, Selex-Es, e altre aziende sponsor dei padiglioni nazionali, rappresentano alcune delle aziende responsabili dell’inquinamento di terre e mari, di deforestazioni, di nocività e morti sul lavoro, di allevamenti come campi di concentramento, di armi da guerra e di nuove tecnologie di controllo utilizzate sia in ambito militare che civile, non certo modelli da imitare. Allo stesso modo la presenza di stati come Israele o di altri regimi dittatoriali, per quanto occultata dietro la retorica del cibo strappato al deserto o altre amenità, non può far scordare le politiche genocide o autoritarie di certi Paesi. Ricordiamo che Israele coltiva sì nel deserto, ma grazie all’acqua rubata al popolo palestinese.
E la propaganda di Expo non può nascondere le reali conseguenze di questo grande evento: enormi colate cemento sui campi agricoli inglobati dalle aree espositive col contentino di seminare qualche mq in città, decine di chilometri di nuovi percorsi autostradali su aree agricole o parchi, con il taglio di migliaia di piante e la distruzione di habitat, opere tanto edonistiche quanto nocive per l’ambiente e inutili per la società.
CIBO
L’alimentazione è il tema principale di Expo, ma il modo in cui è affrontata distorce volontariamente alcuni concetti chiave in materia agroalimentare. Expo è un evento-ponte per modellare il vestito nuovo del neo-capitalismo, la green economy che usa concetti come “benessere animale” o “sovranità alimentare” per darsi credibilità.
È evidente quanto il modello Expo sia lontano dal concetto di sovranità alimentare, visto il supermarket del futuro proposto da Coop e M.I.T. e basato sul “consumatore integrato”, cioè un individuo con un conto corrente e la disponibilità di tecnologia di ultima generazione per poter scegliere il cibo, informarsi sull’intera filiera produttiva e riceverlo a casa con i droni. Da buon magnate democratico Expo ha pensato anche a chi non potrà permettersi questo prospero futuro e ha aperto i suoi spazi a McDonald’s, probabilmente il colosso alimentare più cancerogeno e schiavista al mondo.
La formula “benessere animale”, recuperata della propaganda Expo e ripetuta come un mantra dai suoi partners alimentari, è un mal celato tentativo linguistico di edulcorare i drammatici processi dell’allevamento. Sappiamo bene che è un concetto inventato per rendere più accettabile la catena di smontaggio da individui a cibo, in modo da confortare i consumatori, oggi apparentemente consapevoli e attenti all’intero processo dell’alimentazione. Riteniamo che non è importante quanto gli animali da reddito vivano bene, come crede di insegnare Slow Food, ma è importante che ognuno di loro possa autodeterminare la propria esistenza e il proprio habitat e lo si sganci dal considerarlo come merce produttiva all’interno di un modello alimentare antropocentrico.
FREE JOBS
“Nutrire il Pianeta, Energia per la vita” quindi, uno slogan che in superficie tratta nella maniera appena descritta il tema dell’alimentazione, ma nel profondo funge da alibi dietro cui si nascondono il cemento dei piani di gestione del territorio nazionale e in cui si sostanzia una precarietà lavorativa, che oltrepassa la dimensione della crisi e diventa dispositivo strutturale per giustificare le politiche di austerity che sottendono al sistema capitalista e alla sua sopravvivenza.
Expo si fa quindi laboratorio di sperimentazione di nuove politiche sul lavoro che hanno, da una parte lo scopo di anticipare le legislazioni che riguarderanno tutto il paese, e che in gran parte il Jobs Act ha già realizzato, dall’altra quello di garantire un evento in cui la redistribuzione della ricchezza è assente o riservata solo a chi sta in cima alla piramide. Attraverso deroghe al patto di stabilità e accordi con i sindacati confederali, viene sancito, con Expo, lo stravolgimento del lavoro a tempo determinato. Permettendone la somministrazione incontrollata e il rinnovo del 100% del personale utilizzabile tra un contratto e l’altro, si abbassa la percentuale di assunzione dopo il periodo di apprendistato, si determinano condizioni di stage che poco hanno a che fare con l’ambito formativo e che invece riguardano direttamente lo sfruttamento lavorativo.
Ciliegina sulla torta di Expo è l’esercito di volontari ottenuto grazie ai suddetti accordi che permettono ad aziende e datori di lavoro di servirsi del lavoro gratuito. All’inizio 18500 persone solo sul sito, poi fermi a 7000 per carenza di candidature, poi cifre di cui diventa difficile comprendere il fondamento. Quel che è certo è che i volontari saranno la tipologia prevalente di manodopera per Expo. È la ramificazione nella ramificazione: per Expo si cercano lavoratori disoccupati da inserire nei processi di perenne occupabilità, per Expo lavoreranno gratuitamente i Neet e gli studenti medi e universitari, cui vengono imposti progetti e lavori con il ricatto del voto finale, della maturità, della promozione o del “fare curriculum”.
Con Expo viene quindi esplicitato l’obiettivo delle politiche lavorative delle ultime due decadi: da lavoratori a tempo indeterminato si è costretti ad accettare qualsiasi forma di tempo determinato; politiche che hanno portato a una crescente precarietà culminante, ora, nello sfruttamento tout court. Con Expo continua l’economia della speranza rivolta al lavoro, per cui la condizione di sognare un futuro prima o poi stabile parte già dal mondo della formazione e si materializza nel tempo sempre più come un miraggio irraggiungibile, mentre si alimenta il sistema di liberalizzazione del mercato del lavoro attraverso l’impiego di agenzie interinali come Manpower, macchine di precarizzazione che agiscono sui territori da tempo. Una speranza che, in fondo al percorso, diviene ricatto e minaccia d’esclusione sociale, agito per rimpolpare un esercito di riserva mai così numeroso.
SOCIAL?
Expo è al contempo, quindi, l’emblema di una fabbrica di sogni e di immaginari, e una farsa. Le promesse di un futuro migliore, la “pulizia” e l’eticità attraverso la categoria del “biologico&tradizionale”, “buono, sano e giusto”, dice Expo dopo aver fagocitato Slow Food e con esso l’operazione “Expo dei Popoli”. Questo contenitore di oltre 40 ONG, associazioni e reti contadine vuole cavalcare “l’occasione” del grande evento, ma attraverso le sue rappresentanze non esprime una critica alla squallida speculazione sul vivente messa in campo dal grande evento, giustificando e legittimando così tutte le logiche di cui Expo si fa vetrina. Non ci si può dire contro, dichiararsi per la sostenibilità ed essere complici di Expo 2015.
Non contento di aver fagocitato senza particolari resistenze questa fetta di mondo associativo e di società civile, che si dice attenta alle “compatibilità”, Expo rilancia con il tentativo di creare una piattaforma sensibile alle questioni di genere. In un primo momento il carattere “gay friendly” di Expo, con la volontà di creare una gay street in via Sammartini e di presentare uno scenario attento al mondo della diversità di genere, ha fatto ben sperare tutto quel giro di locali e affini che speculano sulle identità, e tutti i sinceri democratici che han creduto in un’apertura sociale del grande evento. Ma le carte in tavola si sono scoperte velocemente: la denuncia del processo di ghettizzazione alla base della creazione di luoghi “per gay” e il patrocinio di Expo ad un evento omofobo nel gennaio 2015, hanno svelato la vera natura di Expo rispetto alle questioni di genere e l’uso strumentale delle stesse. Tale natura viene confermata anche dalla creazione di un portale “Women for Expo” che diffonde una rappresentazione della donna come nutrice, cuoca e madre, parametri funzionali alla conferma di immaginari che vedono la donna relegata ad un unico ruolo e subalterna ai meccanismi di governo della società e dei territori.
IL PARADIGMA
Milano è diventata il laboratorio di un paradigma che vuole imporre un modello di sviluppo e governance che trasforma irreversibilmente e in modo lesivo la società e i territori. Vediamo la nostra città trasformata, modellata per farla diventare una bomboniera da vetrina, facendo tabula rasa della memoria dei quartieri popolari e del verde cittadino. Un modello che prevede l’accumulo di ricchezza a favore di quei pochi che regolano il gioco del settore edilizio o che gestiscono in generale le eccedenze di profitto; ci sottraggono territorio, beni comuni, servizi, reddito per darli in pasto ai grandi squali dell’edilizia o della finanza, mentre le aziende appaltanti intascano mazzette. Lo scenario dell’Expo era allestito per far da copertura a queste operazioni e mettere in moto un nuovo dispositivo predatorio.
Questa è la crescita tanto decantata dalla Troika. Questo il tipo di progresso che si sta promuovendo: un avanzare effimero che serve a rigenerare la finanziarizzazione di beni e servizi e la sottomissione di regole e priorità alle esigenze del mercato, applicate in tutti i settori, perfino nell’immaginario, per darsi autogiustificazione. Il paradigma Expo vorrebbe continuare a costruire un mondo che si è già dimostrato superato, protagonista della crisi iniziata nel 2007, e che cerca di rialzarsi calpestando le sue stesse macerie.
L’ATTITUDINE NOEXPO
Il rifiuto di questo modello e il suo superamento nella propulsione di altre logiche sta alla base dei nostri ragionamenti e porta la rete dell’Attitudine NoExpo a individuare le seguenti priorità:
• Fermare l’estrazione di risorse e lo smantellamento dei servizi e dello stato sociale per promuovere la tutela del bene comune e del bene pubblico.
• Riaffermare la sostenibilità della vita attraverso l’abbattimento della precarietà, l’attenzione all’utilità del lavoro e alla sua retribuzione. Combattere la precarietà come dato acquisito e destinare, ad esempio, le risorse finanziarie dedicate a questi eventi ai settori lavorativi messi in ginocchio dalle nuove legislazioni.
• Trovare nella lotta ad Expo la possibilità di un fronte sociale comune, bloccando immediatamente la logica del lavoro gratuito in favore di quella del reddito garantito.
• Promuovere la cura dell’educazione e della formazione che devono tornare a focalizzarsi sullo scambio di saperi e non sulla compravendita di energie da impiegare nel mercato seguendo bisogni determinati unicamente da logiche di consumo. Ripartire dalla scuola, contestando con forza tutte le forme di aziendalizzazione della formazione pubblica e i meccanismi di falsa meritocrazia che sviliscono la qualità dell’insegnamento trasformato in una competizione senza fine.
• Ripartire dal sostegno ai piccoli agricoltori e al biologico per tutti e non solo per la ricca élite che si può permettere Eataly.
• Ripensare ad un rapporto equiparato tra le specie che popolano terre, acque, cielo, in prospettiva del superamento della prevaricazione di una popolazione sull’altra e della specie umana su tutte le altre.
• Affermare immaginari che ribaltino quelli di una società machista, maschilista e patriarcale, che svelino la ricchezza e la pluralità dei generi oltre il binarismo della categorizzazione imposta.
• Tutelare il diritto alla città, salvaguardando in primo luogo i parchi di Trenno e delle Cave che potrebbero subire, a causa di Expo, trasformazioni strutturali che porterebbero alla parziale distruzione di uno dei polmoni più importanti di Milano e metterebbero a repentaglio la vivibilità della zona.
• Riappropriarsi della città, della memoria dei sui luoghi, della ricchezza dei suoi parchi, della possibilità di vivere liberamente il territorio urbano.
• Il carattere estemporaneo di Expo rivela la necessità di una battaglia che non si esaurisce né inizia con il primo maggio, il primo maggio viene assunto come momento centrale di un percorso che si è articolato prima e si articolerà dopo la chiusura del megaevento.
Questa è l’Attitudine No Expo: un approccio a questo modello che sappia rispondere tentacolo per tentacolo e crei iniziativa, azione, (ri)creazione oltre alla mera contrapposizione.
COSA VOGLIAMO
Il Primo Maggio deve essere una giornata in cui le vertenze sollevate all’interno del territorio milanese e in tutto il Paese trovino spazio di elaborazione, espressione ed azione condivisa. Dalle politiche dell’abitare alla tutela dei beni comuni; le lotte popolari territoriali e i blocchi sociali metropolitani che resistono ai processi di saccheggio e precarizzazione; dall’analisi sul debito e sullo SbloccaItalia al dibattito su lavoro, lavoro gratuito, Neet e Garanzia giovani; dalle politiche sull’alimentazione al ragionamento sulle metropoli e i processi di gentrification; dalla questione di genere a quella animale
In questo periodo contraddistinto da una liquidità sociale senza precedenti, Expo è emblema “del nemico”, di tutte le lotte che ci accomunano. La nostra forza sta nella capacità di riconoscerci soggettività, inseribili in una globalità che modelleremo solo se sapremo metterci in discussione per tessere nuove reti di espressione, di crescita e sviluppo di lotte, saperi, percorsi e pratiche.
Il superamento di Expo è una scommessa, e in questi sei mesi vogliamo creare un’agenda politica che ci permetta di intrecciare le lotte territoriali, nazionali e internazionali e sviluppare quelle connessioni tangibili, che non si esauriranno in una manciata d’ore nei giorni della “grande” inaugurazione, e che sono condizione necessaria per dare gambe e respiro a una lunga stagione di lotta
La sfida lanciata da Renzi, quella di non rovinare la festa alla vetrina di Expo, è una scommessa che raccogliamo e rilanciamo, e che ci chiama all’azione il Primo Maggio. Ci andremo, ma con lo sguardo volto oltre la data.
LE CINQUE GIORNATE DI MILANO (29APRILE-3MAGGIO)
Contro l’inaugurazione di Expo2015 lanciamo una catena di appuntamenti, che per noi inizia il giorno prima, 30 aprile, con l’attraversamento della città da parte di un corteo studentesco di respiro nazionale che parlerà di lavoro gratuito, di riappropriazione degli spazi giovanili, di apertura di nuovi fronti di dibattito metropolitano a livello studentesco.
Seguirà il Primo Maggio, erigendosi a simbolo di un modello di sviluppo lontano dal regime dell’austerity e attento al benessere sociale della popolazione. Una giornata di iniziativa ed azione, un Primo Maggio in grado di raccogliere la radicalità festosa della Mayday milanese e di farne patrimonio per caratterizzare una protesta determinata e incisiva, legittimata dal consenso di coloro che subiscono giorno per giorno lo smantellamento dello stato sociale, capace di comunicare ad ampi strati della popolazione. Il Primo Maggio deve essere lo scenario della capacità di mobilitazione e della convinzione che senza conflitto non c’è cambiamento, ma che non c’è conflitto senza consenso. Una giornata in cui il conflitto si traduce anche in campeggio per garantire l’ospitalità a chi viene da fuori. Il campeggio si aprirà il 30 aprile. Un tempo e un luogo in cui riappropriarsi del verde della nostra città, perché l’alternativa ad Expo per vivere i nostri parchi è possibile e non per forza passa per lo sfruttamento e lo stravolgimento del territorio (vedi vie d’acqua). Un campeggio che sarà animato da dibattiti, workshop e assemblee, proprio sui temi che Expo ha deciso di usare come copertina per nascondere la sua vera natura attraverso operazioni di green-washing e pink-washing.
Il 2 maggio, abbiamo scelto di continuare la mobilitazione, non abbassando il livello del conflitto, ma diffondendo in tutta la città, su più livelli e su più pratiche e tematiche, l’opposizione diretta all’evento Expo. Nei quartieri e nei territori, dal centro storico alla provincia, attraverso l’hinterland e le periferie, mostreremo, in un’ampia varietà di azioni, quanto siamo contrari al circo di Expo.
Il 3 maggio, infine, costruiremo una grande assemblea conclusiva, capace di raccogliere il portato delle tre giornate di cortei e azioni e mettere a valore le opinioni, le proposte, le riflessioni e anche le critiche di tutti e in cui presenteremo AlterExpo, non una fiera alternativa, ma sei mesi di azioni, iniziative, alternative, percorsi, oltre il grande evento e contro il modello delle grandi opere e dei megaeventi. Un momento che sappia rilanciare lo spirito, l’attitudine dell’opposizione a Expo nei sei mesi che seguiranno, ma anche e soprattutto oltre i sei mesi dell’esposizione.
Expo è un modello di gestione del territorio, del lavoro, dell’istruzione, dei rapporti sociali, del cibo e dell’acqua, che presto o tardi ci verrà imposto senza più alcuna grande opera o grande evento a fare da paravento e giustificazione.
Noi ci opponiamo a questo modello ora, il Primo Maggio, nei sei mesi di Expo e oltre.
Expo fa male, facciamo male a Expo. Il Primo Maggio comincia la nostra festa.
See you at the party!
LE COMPAGNE E I COMPAGNI DELLA RETE ATTITUDINE NO EXPO
Il Forum neofascista svoltosi a San Pietroburgo sotto l’ala protettrice di una forza politica legata al Cremlino non ha ottenuto il successo sperato, ma rimane un fatto di grande gravità. Intanto in Italia anche Casa Pound gravita verso il fronte filorusso con il varo del nuovo soggetto politico Sovranità, una cui promotrice spiega come e perché fascismo e “antifascismo” non sono poi così lontani nel mondo russo.
Il 22 marzo a San Pietroburgo si è tenuto il Forum Internazionale Conservatore Russo. Si tratta di un evento che era già stato programmato per il mese di ottobre dell’anno scorso, ma era stato rinviato senza darne motivazione. Al di là del nome teso a dare l’immagine di un evento “ragionevole”, si è trattato di un evento che ha raccolto nella ex capitale russa un’accozzaglia di neonazisti, razzisti, omofobi e antisemiti provenienti da tutta Europa, e non solo. Obiettivo dichiarato dell’iniziativa
era quello di trovare in Europa degli alleati del regime di Mosca che “difendano i valori tradizionali, promuovano gli interessi della Russia e ottengano una revoca delle sanzioni”. Il Forum non è un evento isolato, e va messo in collegamento sia con precedenti analoghe iniziative, come per esempio le due “conferenze di Yalta” dell’estate scorsa tese a raccogliere intorno al Cremlino il neofascismo europeo insieme a militanti di sinistra disposti a un’alleanza “rosso-bruna”, sia con i sempre intensi rapporti tra le autorità di Mosca e l’estrema destra del continente. Un particolare poi da non trascurare è che l’evento è stato organizzato mentre in Russia fervono i preparativi per celebrare in grande stile il 70° anniversario della vittoria nella guerra contro i nazisti. Ma come vedremo più sotto, nel mondo politico russo la vittoria militare di Stalin contro la Germania e le simpatie per il neofascismo non sono assolutamente in contraddizione. Contro le iniziative hanno protestato alcune decine di attivisti di sinistra e del partito liberale Yabloko. Quando hanno cercato di entrare nella sala in cui si svolgeva il forum sono stati caricati dalla polizia, che ha fermato alcuni di loro.
Volantino dei neofascisti contro il Forum
Il Forum è stato organizzato dal partito di estrema destra russo Rodina, una forza che non è ancora entrata in parlamento, ma è comunque direttamente legata al Cremlino. Il suo fondatore, Aleksey Zhuravlev, è infatti allo stesso tempo un noto deputato del partito “presidenziale” Russia Unita, ed è tra l’altro “autore di un progetto di legge per togliere le facoltà genitoriali alle persone con un orientamento sessuale non tradizionale e sottrarre i figli ai migranti che non dimostrano di avere pagato le tasse”. Ma soprattutto attuale leader di Rodina è Dmitriy Rogozin, vicepremier russo responsabile del potente complesso militare-industriale. Al forum ha preso parte tutta una serie di forze ed esponenti del neofascismo europeo. C’erano il leader di Forza Nuova, Roberto Fiore e, come conferma “Il Foglio”, anche Luca Bertoni dell’associazione Lombardia-Russa curata da Gianluca Savoini, braccio destro di Salvini. Bertoni era insieme alla sua fidanzata Irina Osipova, dell’associazione italo-russa Rim, che sta collaborando al lancio di Sovranità, la forza politica di cui è promotrice Casa Pound nell’ambito della sua alleanza con la Lega Nord (si vedano più sotto maggiori particolari). Tra l’altro, due giorni prima del congresso Salvini partecipava a Milano al convegno “Russia e Crimea, due grandi opportunità per le nostre imprese” organizzato da Lombardia-Russa. Secondo alcune fonti per l’Italia era presente anche Orazio Maria Gnerre, dell’organizzazione “rosso-bruna” Millenium. Tra gli altri ha preso parte al convegno anche Udo Voigt, eurodeputato del neofascista Partito Nazional-Democratico tedesco, nonché noto antisemita. C’erano poi due europarlamentari del partito neonazista greco Alba Dorata, Elefterios Sinadinos e Georgios Epitidios, entrambi ex militari. Per la Svezia c’era Stefan Jacobsen, del neonazista Partito degli Svedesi, per la Gran Bretagna Nick Griffin del National Party e per la Bulgaria il leader del partito razzista di estrema destra Ataka. Tra i presenti, il più corteggiato dai partecipanti al forum era Aleksej Milchakov, membro del gruppo neonazista Rusich e comandante delle forze speciali della Repubblica Popolare di Lugansk. Era stata annunciata la partecipazione al forum anche di Aleksandr Kofman, ministro degli esteri della Repubblica Popolare di Donetsk, che però non ha preso parte all’evento e avrebbe dichiarato in privato al giornalista Ilya Azar di non volere prendere parte a un forum zeppo di fascisti. Ci sembra una scusa che non regge, visto che per due settimane il suo nome è comparso insieme a quello degli altri neofascisti nell’elenco ufficiale degli invitati largamente ripreso dai media russi e il separatista non ha mai avuto da ridire. Inoltre, come ministro della RPD Kofman lavora quotidianamente a fianco di neofascisti ed estremisti di destra di ogni sorta. Alla fine del Forum è stato firmato un memorandum per la formazione di un consiglio di coordinazione delle “forze conservatrici”.
Roberto Fiore di Forza Nuova al Forum
Sono state comunque numerose le assenze, sia quelle dell’ultimo minuto che quelle già note prima dello svolgimento del Forum. Il fatto che non vi abbia preso parte alcun rappresentante del Front National francese non meraviglia più di tanto, viste le recenti polemiche sui finanziamenti russi al partito e la coincidenza con le importanti elezioni amministrative in Francia. Marine Le Pen continua a coltivare i rapporti amichevoli con il Cremlino, ma al di fuori di eventi poco presentabili come quello di San Pietroburgo. Meraviglia di più invece l’assenza di rappresentanti del partito neofascista ungherese Jobbik, che finora non aveva mancato nessun appuntamento dell’estrema destra promosso da soggetti russi. La Lega Nord, tra le più accese sostenitrici del regime di Putin e dei separatisti del Donbass a livello europeo, è stata presente in maniera solo non ufficiale e indiretta, come abbiamo visto sopra. Il Partito della Libertà Austriaco, anch’esso regolare partecipante alle iniziative dell’estrema destra europea sotto l’egida russa, ha prima confermato ufficialmente la propria partecipazione, poi all’ultimo ha cambiato idea. In compenso, è la prima volta che un partito rilevante e apertamente neonazista come Alba Dorata viene accolto ufficialmente in Russia, un salto di qualità non da poco. I due neonazisti greci però si sono limitati a parlare di economia in toni moderati, a quanto pare su preghiera degli organizzatori. Assenti invece per ovvi motivi i neofascisti ucraini, che dopo Maidan sono rimasti completamente isolati nell’ambito dell’estrema destra europea, fatta eccezione per i legami con alcuni gruppi marginali russi e finlandesi. Il Forum avrebbe dovuto essere inaugurato dal già menzionato leader di Rodina e deputato di Russia Unita Aleksej Zhuravlev, che però all’ultimo momento ha rinunciato “per impegni urgenti nel Donbass”. Come ha commentato Aleksandr Verchovskij, direttore del centro Sova, sulle pagine del quotidiano “Vedomosti”, “è dagli anni novanta che la Russia accoglie estremisti di destra, ma è la prima volta che si svolge una riunione alla quale prendono parte contemporaneamente tante organizzazioni neofasciste, e per di più organizzata da un partito come Rodina. […] Con Marine Le Pen tengono i rapporti persone che occupano posizioni più alte. I neofascisti sono di competenza di Aleksandr Dugin, ma ora a lui si è unito il partito Rodina che cerca di crearsi maggiori spazi”. Infine, il portavoce di Putin, Dmitrij Peskov, alla domanda di quale sia la posizione del presidente russo di fronte al fatto che nella sua città natale si è svolto un forum di neonazisti ha risposto con un secco “non commentiamo questi fatti”.
Vignetta degli antifascisti: “E non preoccupatevi se non riuscite a prendere Leningrado. Tra 70 anni saranno loro stessi a invitarci”
Alla fine si può senz’altro concludere che il Forum non è riuscito come era nelle speranze dei suoi organizzatori, e non si può che felicitarsene. Ma nonostante questo la sua gravità non va affatto sottovalutata. Il suo svolgimento senza alcun ostacolo da parte delle autorità (anzi, sotto l’egida di un partito cremliniano come Rodina), e oltretutto nella ex Leningrado alla vigilia dell’anniversario della vittoria nella Seconda guerra mondiale, dice chiaramente che in Russia i neofascisti sono sempre di casa. Il parziale insuccesso non è da addebitarsi a una marcia indietro dei vertici politici russi nei rapporti finora molto intensi con l’estrema destra europea, né a un minore entusiasmo di quest’ultima per il regime di Putin, che rimane sempre la sua stella polare. Mosca continua infatti come prima a mantenere rapporti in altre sedi con il Front National e Jobbik, ora in più è uscita allo scoperto anche con una forza apertamente neonazista e di rilevante portata come Alba Dorata. Il Donbass da parte sua continua a pullulare di neofascisti e ultrareazionari al soldo di Mosca. Il Forum è stato solo il primo passo di Rodina, un partito per il quale molti prevedono un fortunato futuro politico, nella gestione russa dell’estrema destra europea: è normale che il successo non sia stato pieno. Inoltre, la destra radicale europea è comunque attraversata da tensioni interne che non sempre è facile appianare. Il motivo principale del parziale insuccesso è tuttavia a parere di chi scrive l’attuale situazione confusa a Mosca, dove dietro le quinte sono evidentemente in corso forti lotte intestine, di cui sono un sintomo il pantano nella politica relativa all’Ucraina orientale, l’omicidio di Nemtsov e la strana scomparsa di Putin per dieci giorni. E’ possibile che una delle fazioni in lotta abbia convinto svariati soggetti dell’estrema destra europea a non prendere parte al Forum allo scopo di fare uno sgambetto a Rodina, il cui leader Rogozin gestisce il complesso militare-industriale ed è quindi espressione diretta dei siloviki, cioè gli apparati militari e di sicurezza. Che questi ultimi, in una potenza nucleare come la Russia, prendano sotto la loro ala protettrice i neofascisti europei rimane comunque un fatto estremamente inquietante.
Alcune perle dal Forum
Riportiamo qui di seguito le dichiarazioni più folcloristiche pronunciate durante l’evento, tratte dalle fonti russe già citate sopra e da un articolo del sito “Snob”:
Yuriy Lyubomirskiy del partito Rodina apre il forum con parole tragiche: “Disgregazione culturale. Immigrazione incontrollata. Declino economico. Ecco cosa sta accadendo in Europa!”.
Interviene Roberto Fiore, di Forza Nuova: “Cosa è la libertà? Se per esempio in Italia pronunci una parola contro i gay, ti sbattono in prigione. Ti mettono in prigione anche se dici che la famiglia tradizionale è l’unica possibile! Io sono di Roma. Ma fin da bambino ho imparato che ci sono tre Rome. Una è quella in cui sono nato. L’altra è Costantinopoli, che ha lottato contro il mondo musulmano. E la terza è Mosca, la Russia. Il ruolo dei russi è particolare. La rinascita dell’Europa, un’Europa cristiana. Non sono io a dirlo, è Dio che lo dice. I liberali distruggono le nostre tradizioni. L’Islam distrugge la civiltà europea. Ci salvano i rapporti politici e spirituali tra la Russia e l’Europa. Oggi qui comincia una nuova rivoluzione”.
Chris Roman del centro “Euro-Russia”, afferma che nel suo paese, il Belgio, “chi si dichiara contrario all’omosessualità finisce in prigione” e, dopo avere ricoperto di lodi il regime di Putin condannando l’opposizione liberale, spiega che “Politkovskaja, Nemtsov e Berezovskij ora sono tutti all’inferno. La Russia non potrà mai essere più piccola, ma solo più grande. La Crimea è russa, l’Alaska è russa, solo il Kosovo è della Serbia”. Infine, dopo essersi pronunciato contro i matrimoni gay, annuncia che “in Occidente presto sarà possibile sposarsi con un cane o con un pinguino”.
Jared Taylor, razzista Usa, autore del libro “L’identità bianca”: “se nessuno si deciderà a bombardare il nostro paese, gli Stati Uniti insegneranno a tutto il mondo quanto è sano essere omosessuali”. Poi cita (del tutto opportunamente, bisogna ammetterlo) una frase di Churchill: “I fascisti del futuro si chiameranno antifascisti”.
Nick Griffin, del National Party britannico, evidentemente si è dimenticato di portare con sé gli occhiali: “se volete vedere dei nazisti andate a Washington e a Kiev!”
Olivier Wyssa, deputato regionale ed ex membro del Fronte Nazionale francese, fa ‘rivelazioni compromettenti’ sulla sua ex collega di partito: “La maggior parte degli amici di Le Pen sono omosessuali, molti sono anche giudeomassoni”
Aleksej Zhivov, del movimento di estrema destra “Lotta per il Donbass”, rivolgendosi ai colleghi neofascisti in platea esclama: “Siamo noi i veri antifascisti!”
Kontantin Krylov, direttore della rivista “Questioni del nazionalismo” afferma da parte sua impassibile: “Al Forum non prende parte nessun fascista. Non mi interessa dove si riuniscono. Di sicuro in qualche sporca cantina, cioè nel posto che si meritano”.
Jim Dowson, della “Lega per la vita” britannica, infiamma il pubblico mostrando sullo schermo una foto di Putin a petto nudo e spiegando che “Putin è un vero uomo, mentre Obama è una femminuccia”. Poi aggiunge: “Lenin è morto, Thatcher è morta, Buddha è morto, Maometto è morto, ma Cristo è vivo! Dio salverà la Russia! Dio salverà il popolo russo! Dio salverà Vladimir Putin!”.
Infine Udo Voigt, europarlamentare del Partito Nazional-Democratico tedesco, dice anche lui la sua sul tema più gettonato al Forum: “Al centro della nostra politica non ci sono certo i problemi dei froci e delle lesbiche. Al centro della nostra politica ci sono le nostre famiglie, i nostri figli”.
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Casa Pound si schiera con la Russia / Fascismo e “antifascismo” in salsa italo-russa
Un po’ in ritardo rispetto agli altri gruppi neofascisti italiani, ma anche Casa Pound alla fine si è schierata con la Russia e i separatisti del Donbass. L’organizzazione, che in passato aveva rapporti con l’estrema destra ucraina, dopo Maidan aveva assunto progressivamente un profilo sempre più defilato sulla questione, evitando di assumere una posizione. Nella primavera del 2014 un suo militante, Francesco Saverio Fontana, è entrato a fare parte come volontario del battaglione Azov, formato principalmente da neofascisti, ma la sua è stata evidentemente più che altro un’iniziativa individuale. Casa Pound si preparava infatti all’alleanza con la nuova Lega di Matteo Salvini e alla fine il 18 ottobre scorso ha partecipato alla manifestazione di Milano insieme al resto del popolo della “nuova destra radicale” sotto le bandiere della Repubblica Popolare di Donetsk, quelle russe e i ritratti di Putin. Oggi questa linea viene palesemente confermata. Casa Pound sta lanciando Sovranità, una forza politica organizzata e non più solo un soggetto “a rete”, destinata a rientrare sotto l’ombrello di Salvini. Nell’ambito delle iniziative il sostegno alla Russia di Putin (e indirettamente ai separatisti del Donbass) si sta profilando con chiarezza. Il promotore di Sovranità, Alberto Arrighi, si è premurato di sottolineare fin dall’inizio in un’intervista al Secolo d’Italia che “io non ho nulla a che spartire con chi vuole stare all’interno della Nato, dell’Ue, chi vuole privilegiare i rapporti con gli Usa rispetto a quelli con la Russia di Putin”.
Ma il segno più chiaro delle spostamento verso la Russia di Casa Pound è il coinvolgimento di Irina Osipova nel lancio di Sovranità, come è avvenuto per esempio il 15 marzo all’Aquila in una presentazione del nuovo progetto “a sostegno di Matteo Salvini” a fianco del vicepresidente di Casa Pound, Simone Di Stefano. Osipova è presidente dell’associazione dei giovani russi e italiani RIM e, come ha scritto Giovanni Savino su MicroMega, “si è attivata molto nel corso dell’ultimo anno, a partire dagli eventi del Maidan, e ha stretto contatti con gli ambienti della destra italiana, organizzando un convegno al Campidoglio l’11 luglio con esponenti di Fratelli d’Italia, Forza Italia e altre associazioni, il viaggio di Lombardia-Russia a Mosca a fine settembre e la spedizione di Salvini nella capitale russa e in Crimea. Osipova è stata presente come traduttrice alla trasmissione del popolare conduttore Pyotr Tolstoy e alla conferenza di Salvini all’agenzia di stampa Itar-Tass. La presidentessa di RIM è stata presente anche a una conferenza promossa dal Fronte Europeo per la Siria (cartello che raggruppa diverse organizzazioni di estrema destra) e ospitata da l’atelier ‘L’Universale’ a Roma il 3 luglio”. Osipova è molto attiva anche nel sostegno ai separatisti delle “repubbliche popolari” del Donbass, come testimonia tra le altre cose il fatto che si sia fatta promotrice della manifestazione del 28 febbraio scorso a Roma a loro supporto e contro le sanzioni che colpiscono la Russia, insieme alla leghista Lombardia Russa e sotto lo slogan “Noi con Salvini”. Irina Osipova inoltre aveva ospitato nel sito della sua associazione una sua intervista ad Andrea Palmeri, il militante di Forza Nuova che milita come volontario nelle fila dei separatisti del Donbass. E così, tra Lega Nord, Fratelli d’Italia, Casa Pound e Forza Nuova il cerchio si chiude. (Segnalo a chi è interessato un buon articolo aggiornato sul “fascioleghismo”).
Osipova in un suo post su Facebook ci aiuta a suo modo a comprendere meglio le apparenti contraddizioni a cui assistiamo da tempo nel “mondo russo” riguardo al tema fascismo/antifascismo. Dalla primavera scorsa infatti nel Donbass si può assistere allo spettacolo di una banda di incalliti neofascisti che si presenta al pubblico affermando di lottare contro il fascismo (che naturalmente è sempre e solo quello di Kiev) e dicendosi portatrice della tradizione della vittoria contro il nazismo (ma solo nei termini della vittoria militare dell’amato Stalin contro i tedeschi “bravi fino al 1939, ma che poi hanno sbagliato attaccando la Russia”). E come abbiamo visto sopra, una banda di noti neonazisti si riunisce a San Pietroburgo affermando di non avere nulla a che fare con il fascismo, anzi, definendosi addirittura “i veri antifascisti”, ricordando però sardonicamente come a suo tempo Churchill avesse detto che i fascisti del futuro si sarebbero presentati come antifascisti. A completare il quadro, nel Donbass un comandante ultrareazionario e promotore di idee fasciste come Mozgovoy riesce nel giro di poco tempo a farsi ritrarre abbracciato con una nota neonazista di San Pietroburgo e ad annunciare la formazione sotto il suo comando di un reparto “comunista” http://colonelcassad.livejournal.com/2098864.html (in realtà un reparto che di comunista non ha nulla se non la bandiera sovietica, che rientra nell’armamentario di molti rosso-bruni russi, per i quali significa solo oppressione nazionale contro gli ucraini). Osipova scrive a proposito della Russia durante la seconda mondiale che “l’antifascismo era di fatto diventato simbolicamente un raggruppamento del popolo che ha impugnato le armi per proteggersi dallo straniero. Paradossalmente, un concetto analogo a ciò che il Fascismo ha tentato di realizzare in Italia”. Poi spiega che in Russia “esser antifascista significa difendere la Patria dallo straniero che vuole corromperla (anche attraverso l’influenza culturale, come l’imposizione al resto del mondo dell’ideologia LGBT), e preservarla dalla distruzione della società, tutelando la sovranità nazionale”, cioè un antifascismo che non ha nulla a che vedere con una lotta contro il fascismo e la sua ideologia, di cui accoglie invece i postulati principali. Osipova critica anche l’incoerenza degli “antifascisti” italiani che sostengono i separatisti, quando parla della “strumentalizzazione antifascista italiana, che si intende sostenere l’antifascismo nel Donbass, ma chiudendo gli occhi sulle evidentissime differenze ideologiche, non condividendo i concetti di base delle repubbliche di Donetsk e Lugansk assecondando davanti al proprio antifascismo l’attaccamento dei filo-russi alla figura di Putin e ai concetti come ‘Patria, famiglia naturale, tradizione, ordine, sovranità nazionale, legislazione sociale’” – frase scritta in maniera sgrammaticata, ma chiara nei suoi contenuti: la sinistra italiana che sostiene i separatisti chiude sistematicamente gli occhi sulla natura ultrareazionaria (e secondo noi neofascista) delle “repubbliche popolari”. E su questo non si può che dare ragione a Osipova.
Coppie e famiglie – Non è questione di natura. In realtà, basterebbe guardare la copertina del libro ormai ben noto (uscito tre anni fa per i prestigiosi tipi di Feltrinelli) di Chiara Saraceno, forse la più celebrata sociologa italiana, illustre editorialista per quotidiani come Il Sole 24 Ore e Repubblica, per avere ben chiari i termini della questione…
La “famiglia naturale” non è, no, la classica mela.
Perché, vedete, già a caldo, quando è esplosa la questione della “famiglia naturale” e della mozione approvata quasi a voti unanimi nel Consiglio comunale di Reggio Calabria,diventata (ovviamente) un “caso nazionale” contribuendo a bollare la città con un’antipaticissima patente oscurantista, a questo blogger è venuto spontaneo il parallelo con la mela…
Al di là del suo nome, inteso come sostantivo di quattro lettere che inizia con una consonante e termina con una vocale, una mela “è una mela”. E non ci sta niente da fare: quella, è. Hai voglia a discutere di lana caprina… sempre mela è.
Ma proprio per questo, se alla fine tiri fuori una norma, un codicillo, una delibera, un ordine del giorno per dire che da ora in avanti la mela si chiamerà “mela”, e la mela è fatta così e cosà, e per meglio tutelarla verrà pure istituita una Festa della Mela, e allora scatta automatica un’equazione: qui si vuol fare una cosa sciocca, cioè definire cosa sia una “mela” che è cosa che tutti ma proprio tutti già sanno, esclusivamente per mettere “paletti” forse neanche necessari e soprattutto per definire a suon di carte bollate ciò che “mela” non è.
Tentiamo di dirlo in altre parole…
Al di là del proprio pensiero, occorrerà fotografare l’esistente. Questo click ci dice che esistono numerosissime situazioni in cui vivono insieme un uomo e una donna che si amano, uniti in matrimonio, e (se ci sono) i figli della coppia; ma anche che nel 2015, da parecchi anni ormai esistono pure parecchie coppie (magari numericamente inferiori) composte in maniera diversa, per esempio da due donne che si amano, o da due uomini che si amano. Ma, anche: da un uomo e da una donna che si amano però non sono uniti in matrimonio e, chissà!, magari neppure in futuro contrarranno questo vincolo. O da un uomo e una donna che non si sono mai amati, epperò stanno insieme per vincoli di mutua assistenza, queste ultime coppie del tutto affini a quelle composte da due uomini o da due donne che per le medesime ragioni non d’amore, ma sicuramente di cura e assistenza e supporto, e magari anche affettive, compongono nei fatti una coppia.
Da decenni esiste un quesito: se tutte queste coppie di tipo “B” – amore o meno – possano definirsi “famiglia”. Per mille motivi, la risposta è sicuramente positiva: non si può infatti ritenere, quantomeno sotto i profili sociali (quanto ai profili giuridici, il discorso è differente e complesso…), che esista un unico modello di famiglia, o che per formarne una – nel 2015 – sia indispensabile il matrimonio o la sua composizione esclusivamente da parte di due soggetti eterosessuali, un maschio e una donna dunque.
A questo punto, sorge “la” domanda: e allora “queste” famiglie (siamo sempre nel “gruppo B”…), “che” famiglie sono?
In teoria questo sarebbe un quesito inutile. Perché, se “famiglia” è solo quella composta da un uomo e una donna uniti in matrimonio, beh…. insomma, signori: una mela “è una mela”.
Invece i tempi, e la famigerata “fotografia” sociale, ci dicono che la famiglia e la mela sono ben differenti: perché oggi da tempo “la” famiglia ha ceduto il posto ai vari tipi possibili di nucleo familiare (e non necessariamente per ragioni di tipo sessuale).
Avere una risposta pronta, quindi, aiuta: queste famiglie (“gruppo B”…) sono famiglie “non naturali”.
O no?
Cioè, il vero punctum dolens dell’intera vicenda è
che aver definito la “mela”, la presunta “famiglia naturale”, serve più che altro a una cosa sola: a discriminare tutti gli altri modelli, che incarnerebbero una non meno presunta “famiglia innaturale”.
La risposta della Saraceno – già autorevolissima docente di Sociologia della famiglia all’Università di Torino – in un’intervista rilasciata alla Stampa nel 2013 è limpida quanto severa: «Nel discorso pubblico italiano, in particolare della gerarchia della Chiesa cattolica ma non solo – penso per esempio ai nostri politici – si scambia la causa con l’effetto, cioè si dice: questi sono irresponsabili, non hanno un progetto e quindi non li riconosciamo. Invece, l’irresponsabilità deriva dalla mancanza di riconoscimento di tali rapporti».
Ma c’è una risposta una meno conosciuta, di quello che è probabilmente il maggior giurista italiano di tutti i tempi…
Va infatti chiarito che quando si trattò di formulare e poi approvare l’articolo 29 della Costituzione, i nostri Padri Costituenti si scontrarono in maniera micidiale, per poi licenziare un testo che riconosce la famiglia come società naturale fondata sul matrimonio. Dunque non la famiglia come tale, ma come “società” naturale; e, in ogni caso, fondata sul matrimonio. In quelle stesse ore, drastica la stroncatura dell’autore forse più noto della nostra Carta fondamentale, il celebratissimo Piero Calamandrei (foto a destra): «Dal punto di vista logico ritengo che sia un gravissimo errore, che rimarrà nel testo della nostra Costituzione come un’ingenuità, quello di congiungere l’idea di società naturale – che richiama al diritto naturale – colla frase successiva “fondata sul matrimonio”, che è un istituto di diritto positivo. Parlare di una società naturale che sorge dal matrimonio, cioè, in sostanza, da un negozio giuridico, è per me una contraddizione in termini».
Ma se la Saraceno e l’immenso Calamandrei non bastano, potrà forse essere d’aiuto a rappresentarsi la situazione con maggiore oggettività una coppia di dati statistici.
Il primo: l’Italia (di cui la Città del Vaticano è notoriamente un’enclave) è il Paese europeo in cui è più diffusa la pratica del matrimonio “diretto”, cioè non preceduto da convivenza. Il secondo: benché il nostro Paese abbia il primato continentale appena citato, il 12,8% delle coppie sposate è convolato a nozze dopo un periodo breve o lungo di convivenza. Questo cosa significa? La coppia dapprima “innaturale” è poi diventata “naturale” grazie a un contratto (perché giuridicamente questo il matrimonio è)? Di più: l’incedere delle convivenze (anche, soprattutto a matrice eterosessuale) è a dir poco impetuoso. Nel 2007 erano circa 500mila; stando a una specifica ricerca dell’Istat, l’Istituto nazionale di statistica, le convivenze erano ormai quasi un milione (972mila: dati 2011) e un bambino su quattro (dunque il 25% del totale) nel 2011 risultava nato da genitori non coniugati.
Nel frattempo, il numero delle coppie di conviventi mai sposati è cresciuto a 578mila.
Tutte famiglie innaturali?
…Un’altra convincente risposta sta non in opinabili norme sull’ “educazione sentimentale” dei più piccoli (varate però dall’Oms: e bisognerà prima o poi decidersi a chiarire se l’Organizzazione mondiale della sanità, quando propala standard scomodi per qualcuno, improvvisamente diventi inattendibile, quando per tutto il pianeta è serio e attendibile per tutte le altre attività….), ma proprio dalla documentazione ufficiale dell’Istat. Nel questionario ufficiale del Censimento 2011, la famiglia – a 67 anni dall’approvazione della Costituzione… e anche questo conta! – è inequivocabilmente definita così: «Un insieme di persone legate da vincoli di matrimonio, parentela, affinità, adozione, tutela o vincoli affettivi, coabitanti e aventi dimora abituale nello stesso Comune». E per la prima volta quel Censimento, ormai quattro anni fa!, ha dato la possibilità alle coppie d’indicarsi, in forma anonima o meno, quali coppie conviventi omosessuali.
E non è finita qui: stando alle risposte ai questionari, ha avuto modo di chiarire direttamente l’Istituto di statistica, «la maggioranza dei rispondenti (62,8%) è d’accordo con l’affermazione “è giusto che una coppia di omosessuali che convive possa avere per legge gli stessi diritti di una coppia sposata”. Il 43,9% con l’affermazione “è giusto che una coppia omosessuale si sposi se lo desidera». Stiamo parlando, ripetiamo, non di un’idea, ma delle risposte ufficiali al Censimento 2011 da parte dei 24 milioni e mezzo (24.512.012, per l’esattezza) di nuclei familiari censiti in cui quattro anni fa risultavano organizzati i 59 milioni e mezzo d’italiani. Nel 2011, cioè due anni prima che si dimettesse papa Benedetto XVI, evento che ha poi portato all’avvento dell’attuale Pontefice, papa Francesco…
A Reggio Calabria, Italia, però, si discute ancòra di famiglia naturale.