17 febbraio 1977: Lama cacciato dalla Sapienza

Martedì 17 Febbraio 2015 07:37

E’ il 17 febbraio 1977, il giorno scelto da Pci e sindacato per dare una sferzata che lasci il segno a quel movimento di estremisti che ha occupato la Sapienza di Roma.

altHanno deciso che il segretario della CGIL, Luciano Lama, andrà a parlare in università. Dalle 6 del mattino tra servizi d’ordine di fgci, Pci e vari funzionari sono quasi in duemila; tutti in permesso sindacale per andare a difendere il loro segretario. Bloccano le entrate per non far passare nessuno, e cominciano a cancellare le scritte dai muri. Lama, protetto dai poliziotti di partito, inizia a parlare da un furgone, amplificato da un impianto a 20.000 watt. Assordante, e che non permette replica.

Perché questa scelta? Perché gridare in università che il movimento è composto di fascisti, e sbandierare il vessillo “della politica dei sacrifici” nella casa del “tutto e subito”? Diverse sono le interpretazioni. Chi del Pci ricorda quell’evento, parla di una leggerezza politica, di un errore di analisi, di non aver compreso che in università non c’erano piccoli gruppi autonomi, ma un movimento che già allora avrebbe salvato ben poco dell’esperienza pcista. Ma forse è più saggio pensare che all’interno della dirigenza si volesse cauterizzare quella ferita che il movimento aveva aperto nella base sociale del partito, sospingendo “quelli del ’77” su posizioni radicali che ne limitassero il contagio.

Ben prima di quel giorno si era cercato ghettizzare, isolare e rinchiudere il movimento in università; poi di presentare il Pci come il solo portatore reale dell’interesse di classe, e quindi l’unico legittimato a rappresentarla; dopo la cacciata di Lama si decide che nel movimento ci sono i buoni e gli autonomi.

La mattina del 17 febbraio, studenti e lavoratori dei collettivi fronteggiano il servizio d’ordine di Lama. L’aria è tesa, scandita dal coro “sa-cri-fi-ci!” degli indiani metropolitani, che hanno issato un fantoccio del segretario della CGIL con scritto “nessuno lama”. E poi succede, anche se nessuno nell’assemblea del giorno prima se lo sarebbe potuto aspettare.
Ci fu uno sciocco servitore del servizio d’ordine del Pci […] che brandiva un estintore enorme e stupidamente cominciò a scaricarlo sugli studenti… Quello fu il segnale per mandarli affanculo definitivamente.” (V. Miliucci in un’intervista a C. Del Bello).
Succede che Lama è costretto a correre giù dal furgone e darsela a gambe, incalzato dall’attacco dei compagni. C’è chi se lo ricorda sconvolto e sudato, preoccupato di venire catturato dagli autonomi.
Il capo delle “giubbe blu”, del legittimo e regolare esercito di classe, messo in fuga dagli “indiani”, dai dissidenti, dalla classe.

 

Ed ero già vecchio quando vicino a Roma a Little Big Horn,
Capelli Corti generale ci parlò all’università,
dei fratelli “tute blu” che seppellirono le asce.
Ma non fumammo con lui, non era venuto in pace.
E a un dio “fatti il culo” non credere mai.

Coda di lupo _ F. De Andrè

 

 

Fonte:

http://www.infoaut.org/index.php/blog/storia-di-classe/item/475-17-febbraio-1977-lama-cacciato-dalla-sapienza

 

1 febbraio 1977 – Roma

bellachioma

Alla facoltà di Lettere della Sapienza durante un’assemblea del Comitato di lotta contro la circolare Malfatti, un gruppo di fascisti del FUAN, l’organizzazione studentesca del Msi, entra nella città universitaria assaltando la facoltà di Lettere. I fascisti, capeggiati da Alessandro Alibrandi, noto squadrista romano, sono armati di spranghe, molotov e pistole. Due studenti, Paolo Mangone e Guido Bellachioma, vengono colpiti da colpi d’arma da fuoco. Il più grave, Bellachioma, colpito alla nuca, viene ricoverato in fin di vita al Policlinico.

 

Fonte:

http://www.osservatoriorepressione.info/1-febbraio-1977-roma/

Roberto Franceschi

alt“Era un compagno, era un combattente
per il Socialismo e per la Libertà:
per questo il governo un plotone mandò
e un sicario alle spalle sparò.”

E’ la prima strofa della canzone che la commissione musicale del Movimento Studentesco scrisse nel 1973 per ricordare il sacrificio di Roberto Franceschi. Una canzone che negli anni ’70 a Milano era diventata un po’ quel che 10 anni prima era stata “Per i morti di Reggio Emilia” dedicata ai cinque operai uccisi dalla polizia il 7 luglio 1960: l’espressione popolare d’affetto e denuncia per un compagno di lotta assassinato e la trasmissione orale del ricordo del suo sacrificio.
Fu così che anche grazie a “Compagno Franceschi” nell’arco di quasi un decennio molte migliaia di giovani e meno giovani conobbero la figura di Roberto e le circostanze in cui perse la vita.
Oggi però quella canzone non la canta più nessuno e anche il ricordo di Franceschi, nonostante la mole del monumento alla sua memoria – un mastodontico maglio posto davanti all’università Bocconi -, anno dopo anno rischia di affievolirsi nella coscienza collettiva della Milano democratica. Per questo oltre che invitare a leggere la storia di Roberto nelle pagine del sito Fondazione Roberto Franceschi, vogliamo ricordarla brevemente qui anche noi.

Roberto Franceschi nel 1973 aveva 21 anni, studiava economia politica all’università Bocconi ed era un militante del Movimento Studentesco.
La sera del 23 gennaio di quell’anno il collettivo M.S. Bocconi, di cui Roberto era un dirigente, aveva indetto un’assemblea tra lavoratori e studenti presso l’aula magna dell’università; il rettore Gaetano dell’Amore contrariamente ad una prassi ormai acquisita aveva vietato l’ingresso nell’ateneo ai non iscritti, cioè di fatto aveva vietato l’assemblea; per imporre quella decisione un reparto di polizia (che allora si chiamava “celere”) era schierato davanti all’ingresso dell’università.
Non appena gli studenti e i lavoratori giunti per partecipare all’assemblea accennarono una protesta i “celerini” non esitarono a caricarli: ci fu un breve scontro e quando già i manifestanti si stavano allontanando agenti e funzionari di polizia aprirono ripetutamente il fuoco contro di loro con le rivoltelle d’ordinanza.
Due giovani furono copiti alle spalle: Roberto Franceschi al capo e Roberto Piacentini, un operaio della Cinemeccanica di Milano, alla clavicola.
Piacentini nonostante la gravità della ferita si salvò, Franceschi morì il 30 gennaio dopo sette giorni d’agonia.

 

 

Fonte:

http://www.pernondimenticare.net/chi-siamo/318-roberto-franceschi

In ricordo di Saverio Saltarelli. 12 dicembre 1970.

Di Paola Staccioli:

 

Originario di Pescasseroli, Saverio Saltarelli era iscritto al terzo anno di giurisprudenza a Milano quando la sua vita fu fermata, a ventitré anni, da un candelotto lacrimogeno che lo colpì in pieno petto. Il 12 dicembre 1970 ricorreva il primo anniversario della strage di piazza Fontana, drammatico esordio di quel sanguinoso disegno, poi definito “strategia della tensione”, volto a bloccare la trasformazione sociale e politica del paese. Era inoltre in corso a Burgos un processo nel quale il regime franchista si apprestava a condannare a morte alcuni militanti di Eta, organizzazione armata basca di liberazione nazionale. Le forti mobilitazioni popolari interne e internazionali fermarono le esecuzioni.

 

Delle quattro manifestazioni in programma per quel pomeriggio a Milano, il questore Ferruccio Allitto Bonanno autorizzò solo quella promossa dall’Anpi e da altre forze della sinistra istituzionale contro il processo di Burgos, vietando il corteo dei circoli anarchici per ricordare l’uccisione di Pinelli e denunciare l’estraneità di Valpreda e compagni nella “strage di Stato”, così come il presidio del Movimento studentesco in piazza Fontana, indetto per impedire un’adunata, anch’essa vietata, annunciata da gruppi neofascisti. Al termine del comizio gli anarchici danno vita a un corteo che viene caricato alle spalle dalla polizia agli ordini del vicequestore Vittoria e sospinto verso l’Università Statale presidiata dal Movimento studentesco. Nel frattempo alcuni squadristi lanciano molotov contro la sede dell’associazione Italia-Cina e da piazza San Babila numerosi fascisti si muovono in direzione dell’Ateneo. Proseguono le cariche. Gli studenti difendono la loro postazione mentre la polizia cerca di rompere i cordoni di protezione. Durante gli scontri, un lacrimogeno sparato ad altezza d’uomo uccide Saverio Saltarelli, militante di Rivoluzione comunista, mentre il pubblicista Giuseppe Carpi riporta ferite da armi da fuoco.

 

Le prime versioni ufficiali parlarono di “malore” e poi di “collasso cardiocircolatorio”. Dopo l’autopsia, di fronte all’evidenza dei fatti, si ammise che il cuore di Saltarelli fu spaccato da un “artificio lacrimogeno”. Nonostante l’«ostruzionismo continuo e il sottile bizantinismo fondato su manipolazioni procedurali» da parte di organi giudiziari e di polizia, come si legge nell’ordinanza istruttoria, grazie all’impegno del movimento, insieme ad avvocati e giornalisti democratici, l’inchiesta si chiuse con l’emissione di sei avvisi di reato. Nel 1976 il capitano di ps Alberto Antonetto, comandante del reparto da cui partì il candelotto mortale, fu condannato per omicidio colposo a 9 mesi con la concessione delle attenuanti generiche, la sospensione condizionale e la non menzione. Il capitano dei carabinieri Antonio Chirivì (divenuto poi comandante dei Vigili Urbani di Milano dal 1997 al 2006) e un sottufficiale furono indiziati di reato per il ferimento del pubblicista.

 

 

 

 

Fonte:

https://www.facebook.com/notes/paola-staccioli/promemoria-in-ricordo-di-saverio-saltarelli-12-dicembre-1970/10151902189628264

 

 

17 novembre 1973: lo sgombero del Politecnico occupato ad Atene

Lunedì 17 Novembre 2014 08:02

 

altIl 14 novembre del 1973 gli studenti del politecnico di Atene entrarono in sciopero e occuparono contro il regime fascista dei colonnelli sostenuto dagli americani.

L’occupazione seguiva di alcuni mesi (febbraio 1973) lo sciopero degli studenti di legge che avevano occupato la loro facoltà ed erano stati brutalmente sgomberati dalla polizia e dall’esercito.

L’occupazione colse impreparato l’apparato repressivo del regime che non riuscì ad intervenire immediatamente anche grazie, e soprattutto, alla solidarietà che gli studenti ottennero; infatti, da subito, migliaia di lavoratori, studenti medi e universitari di altre facoltà accorsero al politecnico occupato.

Durante le giornate del 14 del 15 e del 16 continuarono a susseguirsi assemblee, iniziative, venne attivata una stazione radio che trasmetteva in tutta la zona di Atene, vennero barricati gli ingressi dell’università.

Contemporaneamente il governo impose la legge marziale e sospese la fornitura di energia elettrica a tutta la città (eccetto il politecnico che era dotato di generatori di emergenza subito messi in funzione dalgli studenti). Queste prime risposte non riuscirono tuttavia a spegnere la protesta che anzi crebbe di intensità e partecipazione tanto da spingere il governo a far circondare dall’esercito Exarchia e il Politecnico in modo da fermare l’afflusso di gente.

Alle 3 del mattino del 17 novembre un carro armato sfondò l’ingresso principale del politecnico facendo entrare i soldati nel cortile che trovarono gli studenti determinati a non cedere in alcun modo. All’interno dell’università la repressione fu brutale, arrivando fino a giustiziare con un colpo di pistola alla nuca uno studente, Michael Mirogiannis, di 19 anni,  dopo che era stato arrestato.

Contemporaneamente allo sgombero, trasmesso in diretta dalla radio del politecnico, gli studenti e gli operai attacarono l’esercito nel resto della città, le barricate si moltiplicarono, in molti zone della città le forze repressive furono messe in seria difficoltà.

La risposta del governo fu anche in questo caso estremamente brutale, furono 42 i morti durante lo sgombero e i successivi scontri (tra cui anche un bambino di 5 anni ucciso da un colpo di fucile di un soldato durante i rastrellamenti di un quartiere popolare di Atene) e centinaia i feriti.

 

 

Fonte:

http://www.infoaut.org/index.php/blog/storia-di-classe/item/3205-17-novembre-1973-lo-sgombero-del-politecnico-occupato-ad-atene

 

14N #SocialStrike!

Dal blog di Bob Fabiani:
Nov 13
Ci siamo la giornata del 14N domani intende porre alcune tematiche che il governo Renzi ha sistematicamente ignorato. Si comincerà alla mezzanotte di oggi 13N quando gli attivisti dello #scioperosociale si recheranno nei locali della movida romana con l’obiettivo di parlare con i lavoratori dei locali del centro, a Roma come in tutta Italia.
Le ragioni della giornata di sciopero sono state dichiarate con chiarezza: si va dalla netta contrapposizione al jobsact, alla legge 30, dal “patto per la scuola” a rivendicazioni precise sul salario minimo europeo al reddito di cittadinanza.
È una prova importante perché pone al governo precise domande alle quali non si potrà rispondere con la solita arroganza del premier-abusivo. Sarà una prova di maturità del governo che dovrà capire che non è sempre possibile attestarsi su posizioni reazionarie quelle degli imprenditori o, di Confindustria. Chissà se il premier capirà che il paese potrà diventare moderno se, al suo interno, il governo, è in grado di mettere in campo politiche “per” i lavoratori e “non” contro.
Sarà interessante vedere se Renzi sia in grado di mettere da parte autoritarismo e quel modo un pò goffo di liquidare (con una malcelata cattiveria) le istanze della cittadinanza.
L’ampia coalizione di attivisti sociali che ha reso possibile il 14N non è ancora un movimento ma, forse, lo potrà diventare se saprà andare oltre il 14N in modo da poter prendere spunto dallo sciopero che seppero costruire i precari dei fast food USA in America e in tutto il mondo.
Questa piattaforma allargata di studenti, precari, disoccupati e attivisti si riflette anche nella giornata di sciopero che mira a rivendicare il salario minimo orario, il reddito base, l’estensione degli ammortizzatori sociali, la redistribuzione ai beneficiari (disoccupati) dei fondi del progetto Garanzia Giovani. Inoltre richiede la stabilizzazione dei precari nella scuola e, al tempo stesso ricorda al governo che c’è bisogno di un massiccio investimento nell’istruzione e nel campo della ricerca.
La convergenza con la Fiom
Lo sciopero sociale contro la crisi ha trovato un filo conduttore con la Fiom. Non si tratta solo di una occasione isolata ma, al contrario di provare a “lavorare insieme” – come ha detto il segretario Landini che ha incontrato alla Sapienza di Roma, precari, studenti e Cobas -.
È un vero e proprio percorso nel tentativo di “Unire ciò che è stato diviso questo è il compito del sindacato”.
Tutto nasce dalla necessità di unire le lotte per provare a far capire al governo che, la strada intrapresa è sbagliata e non porta da nessuna parte. Ecco che allora lo sciopero venata ke Fiom va a convergere con lo sciopero sociale per unire le proteste e le voci dei lavoratori. Significative le parole di Landini: “Lo sciopero no si fa contro ma per le proposte che abbiamo presentato al premier molti mesi fa: politica industriale, investimenti, un piano per la mobilità, i trasporti, la banda larga. L’estensione dei diritti invece della cancellazione”.
Richieste precise e chiare. Richieste che però sono in netta contrapposizione con il jobsact tanto che Landini chiosa: “Punti che non vedo né nel jobsact né nella kegge di stabilità”.
Siamo al bivio.
In tutta Italia stanno esplodendo delle gravi criticità che stanno favorendo il conflitto sarà anche per questa ragione che, il segratario generale annuncia: “Siamo in piazza ma stiamo studiando un ricorso alla Corte costituzionale sul jobsact sulla falsariga della CGIL che è ricorsa alla Corte europea per la legge sui contratti a termine”.
Domani i “due scioperi” a Milano confluiranno in una unica piazza: dal palco Fiom parleranno anche i precari dello sciopero sociale. Le prove di dialogo sono appena iniziate ma per tutelare al meglio i lavoratori, il sindacato ha bisogno di aprirsi: è quello che la Fiom ha iniziato a fare. Nella speranza che non sia troppo tardi.
(Fonte.:fattoquotidiano;ilmanifesto;larepubblica)
Bob Fabiani
Link
-www.lavoro,gov.it;
-www.fiom-cgil.it;
#scioperosociale;
#socialstrike;
#14N
Fonte:

Maurizio Biscaro

Dal blog http://baruda.net/ di Valentina Perniciaro:
27 ottobre 2011
Nasce a Milano il 4 maggio 1957
-Frequenta il liceo classico a Milano
-Si diploma all’Istituto linguistico internazionale come traduttore-interpreste nel 1981
-Lavora come precario
-Collabora con la rivista Controinformazione ed è attivo nel consiglio di zona 13 per D.P.
-milita nel movimento dell’autonomia
-milita nelle Brigate Rosse-Walter Alasia
– muore cadendo dal sesto piano, a Cinisello Balsamo, il 13 novembre 1982, quando i carabinieri vanno nella casa in cui vive per arrestarlo.
Avrebbe dovuto essere ucciso e tirato fuori dal mio grembo a pezzi, perché all’ultimo momento il ginecologo si è reso conto che ho l’osso iliaco storto e il bambino non riusciva a venire fuori. Mi hanno tagliata, mi hanno messo metà forcipe da sveglia perché dovevano lasciarmi le forze per le spinte, visto che non si poteva più procedere al taglio cesareo.
E’ nato, e solo la Madonna sa come. Era il 4 maggio 1957 […]
Il ’68 lui lo vive da ragazzo romantico, ammirava i ragazzi del Movimento Studentesco e spesso li seguiva nelle manifestazioni. Per lui erano degli eroi, ma in mezzo alla calca un giorno si piglia una manganellata da un poliziotto. Non doveva essere stato un gran colpo, non m’ha chiesto di fargli impacchi e in più si sentiva importante: aveva partecipato alla guerriglia. […]
Siamo nei primi anni ’70. Il liceo classico Berchet era uno dei più quotati di Milano e nella classe del mio Maurizio c’erano i rampolli delle migliori famiglie della città.
Ogni tanto marinava la scuola perché voleva stare con i facchini, accanto agli uomini di fatica che lavoravano all’ortomercato o trasportava cassette insieme a loro.
Un giorno, dopo tanta fatica il capoccia gli mette in mano la metà della cifra pattuita. Maurizio si ribella ed incita gli altri alla ribellione dicendo che quello era sfruttamento dei padroni verso i lavoratori. Una coltellata gli ha fatto un sette sulla camicia, fortunatamente senza ferirlo. Da quel momento non c’è più stata pace […]
Un pomeriggio, era il periodo della morte di Allende, mio figlio mette le scarpe da tennis e se ne va in fretta prima che gli possa chiedere dove va. Ricordo che il tempo era brutto, pioveva e mi seccava che si andasse a prendere un malanno. Torna per la cena e mi dice che deve uscire di nuovo, di non aspettarlo perché rientrerà tardi. A notte fonda rientra, bagnato come un pulcino.
– Dove sei stato? Che hai fatto?
– Mamma io non ho fatto nulla, però ho assistito ad una cosa grossa, domani lo saprai dalla tv.
In quella notte era avvenuto l’incendio della Face Standard, per protesta contro gli americani che avevano favorito la fine di Allende. Maurizio si rese conto che i compagni non andavano bene, parlavano di rapine per finanziare il movimento e il mio ragazzo non voleva passare da ladro.
Insomma il comportamento degli autonomi lo aveva deluso. […] Io mi ricordo che ogni giorno aumentavano le simpatie e il proselitismo a causa della pubblicità che alcuni giornali davano alle azioni terroristiche.[…]
Durante l’anno faceva il muratore e metteva da parte i soldi per girare l’Europa durante le vacanze.
E’ stato in Portogallo, quando c’è stata la rivoluzione dei garofani, per rendersi conto che nulla era cambiato, la musica era sempre la stessa. La rivoluzione -diceva- non si può farla con i fiori.
Anche in Spagna era stato ospite di ragazze basche, le sue vacanze erano politiche. […]
Intanto è arrivata la cartolina: lo Stato lo chiamava a fare il suo dovere. Mi aspettavo l’obiezione di coscienza, sarebbe stata in carattere con il personaggio, invece fa domanda per entrare nei paracadutisti. Questo suo desiderio di imparare a paracadutarsi e ad usare le armi nasceva da una ormai radicata speranza nella rivoluzione. Mi dispiaceva che fosse così lontano a fare il soldato e che soffrisse per tante cose che non andavano ma per me è stato un periodo di calma. Potevo dormire senza l’angoscia della perquisizione, senza il timore che mio figlio finisse morto ammazzato.
Si vede che io di pace non dovevo averne perché alla fine del servizio militare, quando Maurizio torna, mio marito si ammala e in breve muore.[…]
Maurizio inizia un lavoro politico con i compagni del quartiere. Lavora insieme a Democrazia Proletaria. Scrive articoli, prepara relazioni, alcune sere va alle assemblee e si va avanti così. Per me la scuola e per lui lo studio di giorno e la politica, che non rende niente, la sera.
Gli domando se ha intenzione di farsi mantenere dalla madre per tutta la vita, in attesa di una rivoluzione che non verrà mai.[…] Io con mio figlio ho parlato, ho ricevuto le sue confidenze e ho tentato di convincerlo a considerare pericolose illusioni i suoi ideali ma, alla fine, è riuscito lui a farmi condividere in parte i suoi ideali di giustizia, di uguaglianza, di fraternità.
Comunque io potevo comprendere questo desiderio di pulizia, questa voglia di una società più giusta, questa delusione per il comportamento dei partiti politici, ma le azioni violente no, quelle non le ho mai comprese, non le ho mai giustificate.
[…] Mi stupisce in quel periodo la sua prudenza. Non si faceva vedere in giro, non fa mai una fotografia e si fa crescere i baffi spioventi alla mongola. E’ un comportamento di persona che non vuol lasciare nulla dietro di sé, non vuole essere identificata. […] Maurizio mi sta cercando. E infatti lo vedo. Sono molto brusca, incattivita dal suo comportamento e gli chiedo chi vuol prendere in giro!
– Dove sei e con chi, si può sapere?
– Sono con le Brigate Rosse.
Queste parole mi arrivano come uno schiaffo d’acqua gelida.
– Verrò a riconoscerti all’obitorio – è la mia raggelante profezia.
Ora che Maurizio si è confessato viene spesso a casa, di nascosto dai compagni. Cerca di non incontrare gente, e quando torno da scuola, se non trovo lui in casa, trovo un suo scritto. Le lettere che ci scrivevamo purtroppo le ho distrutte perché temevo da un momento all’altro la perquisizione, ed ora vorrei averle perché erano belle, erano interessanti, anche se per indicare l’organizzazione, scriveva “L’azienda”. In una sua lettera mi dava notizia del suo innamoramento per una compagna di latitanza! Fra tante ragazze che ha conosciuto di bell’aspetto, di buona famiglia, va ad innamorarsi di una brigatista! Così ragionavo sul momento.
Poi, pensandoci bene, dicevo a me stessa che tramite quella ragazza la sua vita di disperato forse diventava più sopportabile, forse riusciva a godere ancora qualche gioia dell’amore e finivo per simpatizzare con questa sua innamorata.
[…]
Prende un libro di poesie di Prévert dalla biblioteca e si confida:
– Mamma ho bisogno di nutrire l’anima e l’intelletto.
Sono le sue ultime parole.
Lo accompagno all’ascensore. Mi abbraccia. Ci scambiamo un bacio e io gli dico:
– Tesoro attento a venerdì, c’è l’allineamento degli astri: porta disgrazia.
Sorride della mia superstizione e, scuotendo la testa, se ne va. […]
Intanto arriva venerdì notte 13 novembre 1982. Verso le sei e mezza suona il campanello. So già chi può essere: c’è una perquisizione in vista, quella è l’ora canonica. Domando: Chi è?
– Carabinieri, aprite!
Prendo fiato, poi apro la porta. Come bolidi si infilano in casa col mitra spianato molti carabinieri in borghese. Girano per tutta la casa, guardano in tutti gli angoli, poi il comandante mi fa sedere e mi interroga.
– Ha una foto di suo figlio?
– No. Ho solo questa che gli è stata fatta da militare, mentre cavalca.
La guarda, e poi mi chiede di telefonare. Sono spaventatissima, hanno individuato Maurizio e lo stanno cercando.
– Dov’è suo figlio?
– In Inghilterra per lavoro, ma per l’amor di Dio che cosa è successo?
– Nulla, signora, solo che suo figlio non è in Inghilterra. Chiami il suo avvocato perché dobbiamo fare una perquisizione.
– No, non ho l’avvocato e non ne ho bisogno, in casa non c’è nulla di compromettente.
Entrano nella camera del mio Maurizio e con un’occhiata il comandante fa capire ai suoi uomini che devono comportarsi educatamente. […]
Lunedì mattina, molto presto, corro a comperare i giornali.
Al ritorno in cortile incontro un vicino di casa che sconsideratamente mi grida:
– E’ suo figlio quello che è caduto dal sesto piano di Cinisello!
Arrivano intanto alcune mie colleghe […] e anche l’alto ufficiale dei Carabinieri che aveva comandato il blitz di Cinisello e che era venuto a far la perquisizione. Gli dico:
– Perché non mi ha detto che mio figlio era morto? Avrei autorizzato il prelievo dei suoi organi, perché lui, che era generoso, ne sarebbe stato contento.
Chissà, forse non sarebbe stato possibile, perché credo che il corpo del mio Maurizio sia rimasto a terra tutta la notte e cioè fino a quando non è arrivato il magistrato per constatarne il decesso. […]
Ho cominciato ad attendere una chiamata per il riconoscimento del cadavere che era stato portato all’obitorio di Monza. Passano i giorni, rotolano via lenti e dolorosi. Nessuno mi chiama. Non so chi mi riferisce che qualcuno a Radio Popolare dice che quel povero cadavere è stato abbandonato, nessuno si presenta per il riconoscimento. ma cosa posso fare io, a chi mi presento? Mentre sono disperata a pensare al da farsi un caro amico mi propone di portarmi a Monza dal mio Maurizio. Abbiamo perduto tutto il pomeriggio, però sono riuscita a fare questo riconoscimento.
I giorni passano e non si riesce a fare il funerale. L’impresa di pompe funebri mi dice:
– Signora, se fosse morto un cane avrebbero più riguardo. Attendiamo l’ordine non so da chi. […]
Trascorrono altri giorni, poi finalmente mi avvertono che il funerale avrà luogo il lunedì mattina. […]
Arrivati a Lambrate, trovo la cassa mortuaria sotto una volta del cimitero, sola, abbandonata.
Con il mio arrivo si avvicinano molte persone, tutte con un garofano rosso in mano. Gli operai che avevano diviso le fatiche con mio figlio, quando faceva il muratore, erano tutti lì, con il pianto negli occhi. Erano stati loro a trovare i fiori e lo sa Iddio dove, perché al lunedì il cimitero è chiuso, per cui non arrivano i mezzi pubblici e non ci sono banchetti di fioristi. Ma loro li avevano trovati e distribuiti alle persone presenti.
Ed erano tante, malgrado le previsioni ed il desiderio delle autorità che avrebbero voluto fare le cose alla chetichella. Ad un certo punto, dopo il lancio dei garofani nella fossa i compagni si sono riuniti, col pugno alzato, a cantare sommessamente l’Internazionale. Allora, in quel preciso istante, molte persone, di idee anche opposte, si sono avvicinate al gruppo e si sono unite con le loro voci al coro.

[…] Spesso pensavo a quella Daniela di cui mio figlio si dichiarava innamorato, avrei tanto voluto conoscerla, parlarle, ma come fare? Fra tutte le brigaste arrestate quale poteva essere? Cercavo di immaginarmela.
Un mattino, precisamente il 22 febbraio 1983, mi arriva una lettera dal carcere di Voghera.
“Gentile signora, se avessi seguito l’istinto avrei scritto questa lettera qualche mese fa ma un sacco di preoccupazioni che mi rimbalzavano nella mente di volta in volta, mi hanno impedito di farlo. La paura più grande è quella di riaprire ferite comunque non rimarginabili, di far riemergere sentimenti e sensazioni incancellabili, le stesse che con grande sforzo si tenta quotidianamente di razionalizzare e nascondere e soffocare nei meandri più reconditi del pensiero e della memoria. Ho amato Maurizio profondamente e questo filo che mi accomuna a lei contiene in sé il motivo che mi ha spinta a scriverle.
La mia intenzione è quella di renderla partecipe dell’amore genuino nato tra me e Maurizio e sviluppatosi nel tempo, nella maniera più felice possibile. Ci siamo conosciuti, amati, plasmati giorno per giorno a vicenda, ci siamo dati e abbiamo dato insieme il massimo di noi stessi e ciò che mi fa felice anche oggi è l’essere stata il soggetto di quell’amore, così come lo è stata diversamente lei. Vorrei trovare altre parole e suoni in grado di comunicare tutta la bellezza di quell’amore ma non le conosco e forse non esistono. Sono sicura, però, che lei saprà cogliere da questa mia il dolore che si sa esiste senza bisogno di dirglielo, ma almeno un po’ della gioia vissuta. Un abbraccio con tanto affetto.”
Dopo questa missiva ci siamo scritte per tutto il tempo in cui è rimasta prigioniera. Non solo, ma ho ottenuto il permesso di andarla a trovare. Non saprei raccontare la prima volta, davanti a quell’immenso carcere bianco, in mezzo ai campi, con un carro armato che faceva il giro dell’isolato e tante guardie carcerarie con grossi cani lupo. Come sono entrata nel cortile, ho sentito un coro di voci:
– Vittoria, Vittoria, ciao!
Le voci venivano da lontano, io non vedevo le ragazze, ma forse loro vedevano me. Mi sono sentita commuovere fino alle lacrime. Erano in sei o sette dietro ai vetri. Le ho guardate tutte: belle, carine, spavalde. […] Per cinque anni sono andata regolarmente a trovare Daniela, prima a Voghera e poi a San Vittore. Mi sono legata a lei come se fosse mia figlia. […]
_Vittoria Dilda Biscaro, “L’ultimo caduto della Walter Alasia”, Milano 1992. Frammenti di un dattiloscritto dell’Archivio Progetto Memoria

Quando entrò in clandestinità non lo vidi più. Lessi della sua morte sul giornale, andai al funerale.
C’erano i garofani rossi e cantammo l’Internazionale. Ma erano gli anni ottanta, tempo di tradimenti.
Il cielo era livido come il cuore di tutti noi.
Là presenti a testimoniare che quel ragazzo che era morto era stato capace di sognare.
Non aveva difetti? Ne aveva. Ma è morto giovane, non ho fatto in tempo a riconoscerli.”
_Rossella Simone, testimonianza al Progetto Memoria_

entrambi i testi sono tratti da “Sguardi ritrovati” , vol. 2 del Progetto Memoria _Ed. Sensibili alle Foglie 1995_

Fonte:

http://baruda.net/2011/10/27/la-storia-di-maurizio-biscaro-morto-per-scappare-allarresto-nell83-e-di-sua-madre/

16 giugno 1976: la rivolta di Soweto

Lunedì 16 Giugno 2014 06:52

E’ il 16 Giugno 1976 quando a Soweto in Sudafrica iniziano violenti scontri tra gli studenti neri e la polizia segregazionista del 16 giugnoNational Party, partito nazionalista al governo del paese.

Il motivo specifico della protesta studentesca di Soweto fu un decreto governativo che imponeva a tutte le scuole in cui erano segregati i neri, di utilizzare l’afrikaans come lingua paritetica all’inglese.
Quest’ ultimo episodio, preceduto da una lunga serie di imposizioni da parte degli afrikaner, fu percepito come direttamente associato alla logica generale dell’apartheid.
L’inglese era la lingua più diffusa presso la popolazione nera ed era stata scelta come lingua ufficiale da molti bantustan al contrario dell’afrikaans, la lingua degli oppressori.
Il Ministro per l’Istruzione Bantu, Punt Janson, incurante del volere della popolazione arrivò ad affermare «Non ho consultato gli africani sulla questione della lingua e non intendo farlo. Un africano potrebbe trovarsi di fronte a un “capo” che parla afrikaans o che parla inglese. È nel suo interesse conoscere entrambe le lingue. »
Queste ultime dichiarazioni suscitarono numerose proteste da parte del corpo docenti e degli studenti neri delle scuole dov’erano segregati.
Il 30 aprile 1976, i bambini della “Orlando West Junior School” diedero inizio a uno sciopero, rifiutandosi di andare a scuola.
Gli studenti di Soweto intanto formarono un comitato d’azione, il “Soweto Students’ Representative Council” per organizzare la protesta, indicendo una manifestazione di massa per il 16 giugno.
Migliaia di studenti e docenti neri si riversarono nelle piazze e si diressero verso lo stadio di Orlando.
Si decise per la linea pacifica, pianificando in modo accurato il tutto, in modo tale che fosse chiaro: nelle prime file del corteo erano esposti cartelli con scritte come “Non sparateci – non siamo armati”.
Il corteo incontrò la polizia, che aveva preparato delle vere e proprie barricate.
Si optò per una deviazione del corteo su di un percorso alternativo: anziché andare allo stadio, giunsero presso la Orlando High School.
Qui, nuovamente trovarono la polizia ad attenderli che cercò subito di disperdere la folla con i gas lacrimogeni.
Dal corteo cominciarono a levarsi slogan di protesta ed i bambini esasperati dalla condizione di segregazione in cui si trovavano costretti a vivere sin dalla nascita e dal crescendo di angherie che erano costretti a subire, cominciarono a tirare pietre verso la polizia.
La polizia prontamente e senza alcuno scrupolo, aprì il fuoco uccidendo quattro bambini, fra cui il tredicenne Hector Pieterson di cui la fotografia del suo corpo martoriato divenne un simbolo della violenza della polizia sudafricana.
Negli scontri che seguirono durante la giornata morirono altre 23 persone.
Dopo il massacro del 16 giugno, la tensione fra gli studenti neri di Soweto e la polizia continuò a crescere.
Il giorno successivo, le forze dell’ordine sudafricane giunsero a Soweto armate di fucili automatici, inoltre furono dispiegate anche forze dell’esercito.
Soweto era pattugliata da elicotteri e automobili della polizia e diverse fonti riportarono di agenti in borghese che giravano in automobili civili e sparavano a vista sui dimostranti neri.
Le contestazioni durarono circa 10 giorni e si dovette arrivare alla morte di più di 500 manifestanti e il ferimento di oltre 1000, perchè il regime dell’apartheid crollasse.
La rivolta contribuì a consolidare il sentimento anti-afrikaner nelle masse nere e la posizione predominante dell’ANC come principale interprete di questo sentimento.
Molti dei cittadini bianchi sudafricani presero parte in modo deciso a favore dei dimostranti.
Alle manifestazioni di studenti neri si andarono ad aggiungere quelle degli studenti bianchi.
Dal mondo studentesco, inoltre, la protesta si allargò a diversi settori produttivi con una catena di scioperi da parte degli operai di molte fabbriche.
La rivoltà che si estese in tutto il Sudafrica pagò ed ebbe un ruolo fondamentale nella caduta del National Party e nella fine dell’apartheid, sancita definitivamente nel 1994.
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Alberto Brasili

Alberto Brasili e la sua fidanzata Lucia Corna furono aggrediti alle 22.30 di domenica 25 maggio 1975 in via Mascagni a Milano.
Cinque fascisti – Antonio Bega, Pietro Croce, Giorgio Nicolosi, Enrico Caruso e Giovanni Sciabicco – li avevano seguiti fin da piazza San Babila perchè erano vestiti da comunisti e avevano osato sfiorare un manifesto del Msi. L’agguato scattò di fronte alla sede provinciale dell’Associazione nazionale partigiani d’Italia: “Li ho sentiti arrivare quando erano ormai alle nostre spalle – raccontò poi Lucia – e ho visto luccicare le lame dei coltelli. Uno dei cinque mi ha afferrata e ha cominciato a colpirmi mentre gli altri si accanivano su Alberto.”
Raggiunto da cinque fendenti a organi vitali, Brasili spirò poco dopo il suo arrivo all’ospedale Fatebenefratelli con il cuore spaccato da una coltellata. E Corna, colpita due volte all’emitorace sinistro, sfuggì alla morte solo perché la lama aveva mancato il suo cuore di pochi centimetri.
“Il delitto – scrisse il Manifesto due giorni dopo – è tanto più impressionante in quanto ha chiaramente i connotati dell’azione terroristica. Alberto Brasili non era un compagno conosciuto, era un lavoratore studente che frequentava le scuole serali, l’ultimo anno dell’istituto tecnico industriale Settembrini, e il giorno lavorava per una ditta di antifurti elettrici, la Adt. Faceva questa vita dall’età di 14 anni perché in famiglia c’era bisogno di soldi.
Brasili, dichiararono preside, professori e studenti del Settembrini, era sicuramente di sinistra e impegnato nelle lotte per il diritto allo studio. Nel 1970 aveva partecipato all’occupazione della sua scuola per l’ introduzione del biennio sperimentale ed era anche stato identificato dalla polizia quando il Settembrini fu sgomberato. Non per questo, però, era più conosciuto di altri, e poi di giovani come lui in quegli anni a Milano ce n’erano decine di migliaia. E allora, perché ucciderlo?
“Non è – rispose Stefano Bonilli su il Manifesto del 27 maggio 75 – come alcuni giornali hanno tentato di accreditare, un errore di persona, è un delitto fascista che si lega perfettamente al clima che la destra sta preparando in Milano in vista del comizio di giovedì, anniversario della strage di Brescia. Per quel giorno il Msi ha in programma di aprire la campagna elettorale con una manifestazione in piazza degli Affari, a pochi metri da piazza del Duomo. Milano però ha negato tutte le sue piazze ai fascisti per bocca del suo sindaco, il quale dopo l’assassinio di Claudio Varalli aveva preso solennemente questo impegno. Questa uccisione a freddo, apparentemente inspiegabile, – concluse il Manifesto – ha lo stesso impatto psicologico di un attentato dinamitardo”.
 
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Paolo Rossi

Scheda a cura di Guido Panvini
Il 27 aprile 1966 attivisti neofascisti del raggruppamento Caravella provocarono violenti incidenti all’interno della facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università La Sapienza di Roma in occasione del rinnovo dell’organismo rappresentativo degli studenti (ORUR). Nei tafferugli venne colpito Paolo Rossi, studente di architettura iscritto al Psi, che, sentitosi male, precipitò dal muretto che delimitava dalla parte destra la sommità della scalinata della facoltà di Lettere, morendo poi nella notte.
Le aggressioni dei gruppi fascisti, che ancora negli anni ’60 avevano all’interno dell’ateneo romano un non trascurabile seguito, erano maturate in un clima segnato dall’attivismo politico degli studenti e dei professori democratici. Nell’anno accademico 1963-1964, infatti, era stato inaugurato il primo corso di storia contemporanea dedicato all’antifascismo.
La morte di Paolo Rossi accelerò i processi di democratizzazione all’interno dell’ateneo. La reazione emotiva, infatti, fu fortissima. Nella sera venne immediatamente occupata la facoltà di Lettere, poi sgomberata dalla polizia per disposizione del rettore Ugo Papi. L’indomani mattina dopo un’infuocata assemblea, dove intervenne Ferruccio Parri, nonostante i tentativi di provocazione da parte degli studenti di destra, di fronte ai quali la polizia non intervenne, otto facoltà ed istituti furono occupati per protesta.
Una grande folla partecipò ai funerali di Paolo Rossi, celebrati nel piazzale della Minerva, al centro della città Universitaria, davanti al rettorato. La protesta montò nei giorni seguenti. Studenti e docenti, riuniti nei comitati unitari interfacoltà, scavalcando gli organi tradizionali, chiesero lo scioglimento delle formazioni neofasciste, la sostituzione dei commissari di polizia presenti il giorno degli incidenti, la democratizzazione degli organi di governo e le dimissioni del rettore Ugo Papi, accusato di aver protetto l’attività dei gruppi fascisti. Solamente quest’ultima richiesta venne accolta nelle settimane successive.
Nonostante il clamore suscitato dalla protesta studentesca, il giudice istruttore dichiarò non doversi procedere per il delitto di percosse che aveva causato la morte di Paolo Rossi perché gli autori erano rimasti ignoti.
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