"Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione." Articolo 21 della Costituzione Italiana. "Nel tempo dell’inganno universale dire la verità è un atto rivoluzionario." George Orwell – Blog antifascista e contro ogni forma di discriminazione.
I corpi senza vita di tre bambini e una donna sono stati trovati dalle guardie di frontiera nella valle del Rio Grande, vicino al confine tra Usa e Messico, dove le autorità americane stanno costruendo una parte del Muro anti-migranti voluto dal presidente, Donald Trump. È l’ennesima tragedia dei migranti, mentre sta facendo il giro del mondo la foto di un padre salvadoregno, Oscar Alberto Martinez Ramirez e della sua figlioletta di 23 mesi morti nello stesso fiume, nel disperato tentativo di attraversare il confine tra Messico e Usa. Funzionari salvadoregni hanno detto che padre e figlia sono annegati domenica scorsa.
Nella foto, che ricorda quella Aylan Kurdi, il bambino siriano di tre anni annegato morto sulla spiaggia, simbolo della crisi dei migranti in Europa, padre e figlia giacciono a faccia in giù nell’acqua fangosa lungo le rive del Rio Grande, con la testa della piccola infilata sotto la maglietta del padre e il braccio intorno al collo del genitore, al quale è rimasta attaccata fino all’ultimo. Un ritratto della disperazione catturato lunedì dalla giornalista Julia Le Duc e pubblicato da un giornale messicano.
Nella stessa zona, nelle ultime ore, riferisce l’Associated Press, il ritrovamento dei cadaveri di una donna e dei suoi tre figli, i cui nomi non sono stati ancora resi noti. Le vittime sarebbero decedute per il caldo torrido. Secondo alcuni media la giovane madre aveva una ventina di anni e i tre figli erano due bambini e un neonato. Dall’inizio del 2019 quasi 500 mila migranti sono stati fermati nel tentativo di attraversare il confine statunitense. Nel 2018 i migranti morti al confine tra Usa e Messico furono 283.
Il migrante salvadoregno e la figlia di 23 mesi sono morti nei pressi della cittadina di Matamoros, nello Stato settentrionale messicano di Tamaulipas. I due sono morti sotto gli occhi della madre della piccola. Ramirez lavorava come cuoco nel suo Paese. La famiglia era arrivata la settimana scorsa a Tapachula, nello Stato del Chiapas, e domenica sera, esasperata dall’attesa e dall’impossibilità di chiedere asilo, ha deciso di cercare di attraversare il confine con gli Usa.
Secondo la ricostruzione di diversi media, padre e figlia erano riusciti ad attraversare il fiume, a differenza della donna, Tania Vanessa valos, 21 anni, la quale ha provato invano con il sostegno di un amico, ed era tornata indietro. A quel punto Ramirez ha deciso di andare a prendere la moglie e tentare nuovamente la traversata con lei, ma la piccola Valeria, probabilmente spaventata nel vedere il padre allontanarsi, si è gettata di nuovo in acqua per raggiungerlo. Il giovane si è quindi tuffato per riacciuffare la figlia ma i due sono stati scaraventati via dalla corrente e sono annegati.
Una scoperta dantesca. In Messico, una zona desertica di Coahuila potrebbe nascondere una gigantesca fossa clandestina. Su una superficie di 56.000 metri quadrati, sono stati individuati 4.600 frammenti ossei e altri oggetti. Secondo gli inquirenti, potrebbe essere un luogo di discarica del potente cartello dei Los Zetas.
Alla zona si è arrivati grazie al lavoro del gruppo Vida, che si dedica alla ricerca dei desaparecidos ricostruendo le testimonianze della popolazione locale. La drammatica realtà delle fosse comuni clandestine è emersa durante la ricerca dei 43 studenti di Ayotzinapa, scomparsi a Iguala dopo essere stati attaccati da polizia e narcotrafficanti tra il 26 e il 27 settembre del 2014. Il mondo si è accorto allora di quanto torture e violazioni dei diritti umani siano prassi comune, nelle caserme e nei commissariati, e quanto poco valga la vita di chi sopravvive a stento nelle campagne, stretto tra il ricatto della miseria e quello delle cosche, ben innervate a un sistema politico violento e diseguale. I movimenti popolari continuano a cercare i 43. Forti dell’appoggio di una voluminosa controinchiesta alternativa che ha evidenziato menzogne e depistaggi, hanno ottenuto dal governo la riapertura dell’inchiesta. E intanto, grazie all’attività di organizzazioni come Vida, si è dato un nome a molte vittime della tratta o delle cosche, dai confini con gli Stati uniti al resto del paese.
Alla fine del 2015, il numero degli scomparsi ammontava a 27.887. Questa nuova, macabra, scoperta potrebbe elevare di molto le cifre. Secondo i periti, i 4.600 resti appartengono a persone scomparse a partire dal 2004, uccise tra il 2007 e il 2012 dagli Zeta. Secondo le testimonianze, in quegli anni, si sono visti uomini armati arrivare nella zona a bordo di furgoni, scaricare corpi e bruciarli. Gli abitanti raccontano anche che altri corpi venivano «dissolti» in grandi recipienti e che le urla dei condannati si udivano per tutto il circondario. I famigliari delle vittime hanno denunciato l’inadempienza delle autorità di Coahuila che hanno minimizzato l’accaduto. Molti componenti degli Zetas provengono dalle forze speciali dell’esercito.
Notizia scritta il 21/06/16 alle 13:44. Ultimo aggiornamento: 22/06/16 alle: 09:06
MESSICO: LA POLIZIA UCCIDE I MAESTRI IN LOTTA. APPELLO SOLIDALE CONTRO LA REPRESSIONE.
Sale il bilancio dei maestri uccisi dagli spari della polizia domenica 19 giugno 2016 a Asuncion de Nochixtlan, stato di Oaxaca, Messico. Il bilancio ufficiale delle vittime dell’operazione repressiva per rimuovere le barricate di maestri, studenti e movimenti sociali in lotta è salito a nove maestri, e un giornalista: 10 morti, quindi, che diventano almeno 12 secondo altre fonti, come TeleSur. Ci sono poi 32 desaparecidos, 28 arrestati e decine di feriti. La protesta non riguarda solo Oaxaca, teatro, nel 2006, anche della straordinaria esperienza della APPO, l’assemblea popolare dei popoli di Oaxaca, rimasta in piazza con 80mila maestri in lotta sgomberati con violenza nel giugno di dieci anni fa: arresti si segnalano anche nel Chipilango, Michocan e a Città del Messico.
Lavoratrici e lavoratori dell’educazione, assieme alla centrale sindacale CNTE, sono in lotta ormai dallo scorso 15 maggio contro la riforma dell’istruzione voluta dal presidente Enrique Pena Nieto, che prevede – tra molte altre cose, tutte in senso ultraprivatistico – un test governativo unico per gli insegnanti, in base al quale verranno assunti o non assunti, pagati o non pagati, inseriti in organico a pieno orario o per pochi giorni. Per i maestri, gli studenti e i movimenti sociali, non è una riforma educativa, ma una controriforma del lavoro, schiacciata sul servilismo al potere, sul liberismo e sulla ricattabilità perenne. A rischio sarebbe almeno il 60% del corpo docente, senza alcun riferimento a educazione e formazione.
Dopo la mattanza di due giorni fa a Nochixtlan, ora è stato annunciato un incontro domani tra il sindacato e Osorio Chong, il segretario di stato di Pena Nieto. Intanto a Oaxaca le realtà sociali in lotta, con la solidarietà di una larga parte dei movimenti messicani, tra cui il chiapaneco EZLN, hanno diffuso un’ “allerta umanitaria” per le violenze della polizia, sorpresa da numerosi video e immagini a sparare sulla folla, anche con agenti in borghese. Una scena che ricorda da vicino altri massacri, come quella di Iguala, del 26 settembre 2014, con l’uccisione e la sparizione, targata polizia, narcos e politici, di 43 studenti normalisti della scuola rurale di Ayotzinapa.
Un nuovo massacro, quindi, quello di Nochixtlan, che vede per protagonista ancora una volta Enrique Pena Nieto, del PRI, oggi presidente dello Stato ma governatore ai tempi dei massacri di San Salvador Atenco, nello stato di Città del Messico, nel 2006, anche lì con morti, feriti e desaparecidos nelle proteste contro la decisione di ampliare un aeroporto.
Abbiamo raggiunto Federico Mastrogiovanni, giornalista indipendente che vive a Città del Messico, per aggiornamenti. Ascolta o scarica l’intervista [Download]
#MexicoNosUrge AL FIANCO DEI MAESTRI E DELLE MAESTRE DELLA CNTE IN MESSICO
“Fondamento dell’accordo. Il rispetto dei principi democratici e dei diritti umani fondamentali, così come si enunciano nella DichiarazioneUniversale dei Diritti Umani, ispira le politiche interne e internazionali delle parti e costituisce un elemento essenziale del presente Accordo.” Art. 1 trattato di libero commercio tra il Messico e l’UnioneEuropea
Un anno dopo siamo ancora qui a dire #MexicoNosUrge
Dopo gli omicidi del foto giornalista Rubén Espinosa, dell’attivista Nadia Vera, della studentessa Yesenia Quiroz Alfaro e di altre due donne che si trovavano con loro, Mile Virginia Martin e Alejandra Negrete, avvenuti a Città del Messico venerdì 31 luglio 2015, l’appello #MéxicoNosUrge volle rompere il silenzio. Perché non si può rimanere in silenzio di fronte alle violenza nei confronti di chi vuole denunciare la situazione che subiscono milioni di persone in un Paese, il Messico, che l’Italia e l’Unione Europea riconoscono soltanto come importante socio commerciale. Rimanere in silenzio sarebbe una forma di complicità.
Un anno dopo, nel giugno del 2016, torniamo a urlare che #MéxicoNosUrge, dopo che domenica 19 giugno nello Stato di Oaxaca abbiamo assistito al massacro di 10 cittadini. La Polizia Federale è tornata a reprimere la lotta degna dei maestri e delle maestre del sindacato CNTE che lottano contro la riforma educativa. Pistole, fucili di precesione e cecchini hanno operato assieme alla polizia in assetto anti-sommossa, per sgomberare uno dei tanti blocchi stradali che dal 15 maggio batte il tempo della resistenza contro la svendita e la distruzione della scuola pubblica messicana. A maggio avevamo celebrato il decimo anniversario dalla nascita dell’Assemblea Popolare dei Popoli di Oaxaca, figlia dello sgombero violento di un presidio di maestre e maestri della CNTE nella capitale dello stato di Oaxaca. Negli ultimi mesi sono a decine gli arresti “politici” che colpiscono aderenti della CNTE e simpatizzanti. Già a dicembre 2015, in Chiapas, due maestri sono stati uccisi dalla Polizia durante gli scontri.
Nel maggio del 2016 sono stati ricordati,anche, i dieci anni dal massacro di San Salvador Atenco. Una Commissione Civile di Osservazione dei Diritti Umani -i cui componenti erano cittadini europei- nel giugno del 2006 ha presentato al Parlamento Europeo un rapporto sui fatti e sulle gravi violazioni dei diritti umani in relazione allo sgombero forzato di una comunità per costruire il nuovo aeroporto di Città del Messico in una zona ejidal (cioè di proprietà collettiva) dello Stato del Messico.
La mattanza di Nochixtlan inauguara una nuova fase nello schema repressivo messicano: la polizia spara sulla folla uccidendo e la stessa polizia si rivendica di aver usato armi da fuoco. Non era mai successo prima.
Negli ultimi dieci anni, infatti, la situazione si è fatta se possibile ancora più grave, con decine di migliaia di sparizioni forzate, violenza sistematica contro chi vuole difendere e promuovere i diritti umani, contro attivisti dei movimenti sociali e contro i giornalisti e fotografi che documentano la condizione di violenza strutturale scelta come forma di“politica attiva” dai governi di Felipe Calderón, prima, e di Enrique Peña Nieto (che nel 2006 era governatore dello Stato del Messico durante i fatti di Atenco), ora.
Tra gli attivisti e giornalisti minacciati e perseguitati ci sono anche cittadini italiani ed europei; tra le vittime ci sono anche cittadini italiani ed europei (come il finlandese Jyri Antero Jaakkola,assassinato dai paramilitari nello stato del Oaxaca nel 2010).
In questo panorama di violenza diffusa e repressione contro i civili ricordiamo la sparizione forzata dei 43 studenti della Escuela Normal Rural di Ayotzinapa,avvenuta la notte del 26 settembre del 2014 nella città di Iguala, stato del Guerrero, in cui sono coinvolti la polizia municipale di Iguala ed elementi dell’esercito messicano.
Il 30 giugno 2014 l’esercito messicano, con un ordine scritto dall’Alto Comando Militare, fucilava 22 ragazzi in un’esecuzione extragiudiziale, una delle tante esecuzioni extragiudiziali portate a termine dall’esercito che ha l’ordine di “abbattere” civili considerati delinquenti senza alcun diritto ad avere un processo. L’ONU ha recentemente spiegato come in Messico la tortura sia un metodo utilizzato in maniera sistematica negli interrogatori da tutte le forze di sicurezza.
Tutto questo accade nel silenzio della cosiddetta “comunità internazionale” e l’Unione Europea di fatto si disinteressa dei crimini dello stato messicano, continuando a mantenere relazioni commerciali con uno Stato che viola costantemente i diritti umani.
Tra il 2007 e il 2016 in Messico ci sono stati più di 164mila omicidi di civili. Negli stessi anni in Afghanistan e in Iraq si sono contate circa 104mila vittime. Il numero di persone sparite dal 2006 ad oggi, basandosi su dati conservativi del governo messicano, supera le 30mila persone. Organizzazioni dei diritti umani dicono che se oggi venisse fatto un conto di morti e desaparecidos i numeri andrebbero verso il raddopio.
A fronte di tutto questo l’indifferenza dei grandi mezzi di comunicazione internazionali è impressionante e complice.
Per tutto questo, #MexicoNosUrge e non possiamo rimanere in silenzio.
Chiediamo che il Parlamento Europeo esprima la sua preoccupazione rispetto alla grave crisi dei diritti umani che vive il Messico,in particolare per le costanti aggressioni ai giornalisti e difensori dei diritti umani.
Chiediamo all’Italia e all’Unione Europea che si sospendano tutte le relazioni (politiche e commerciali) con il Messico fino a quando non si farà luce sui gravi casi di omicidio, violenza e sparizione forzata di persone. I paesi dell’Unione Europea devono applicare l’embargo agli investimenti in Messico e chiudere le loro Ambasciate, così come si è fatto nel caso di altri paesi che non osservano l’obbligo del rispetto dei diritti umani e del diritto alla vita dei propri cittadini.
Il massacro di Tlatelolco (circa 300 vittime) avvenne il 2 ottobre 1968 nella Piazza delle tre culture a Tlatelolco, Città del Messico, dieci giorni prima dell’inizio dei Giochi della XIX Olimpiade che si svolsero a Città del Messico dal 12 ottobre al 27 ottobre 1968.
Il presidente di allora Gustavo Diaz Ordaz, settimane prima del massacro ordinò all’esercito di occupare il Campus universitario. L’esercito indiscriminatamente picchiò molti studenti e per protesta il rettore Javier Barros Sierra si dimise il 23 settembre.
Le proteste degli studenti non diminuirono. Le manifestazioni crebbero a tal punto che il 2 ottobre dopo 9 settimane di sciopero studentesco, 15.000 studenti di varie università marciarono per le vie della città, protestando contro l’occupazione del campus. Al calare della notte 5.000 studenti e lavoratori, molti dei quali con la famiglia, si raccolsero nella Plaza de las tres Culturas di Tlatelolco.
Alla fine della giornata le forze militari e politiche con carri blindati e veicoli da combattimento circondarono la piazza e aprirono il fuoco, puntando sulle persone che protestavano o che semplicemente passavano di lì. In breve tempo una massa di corpi copriva tutta la superficie della piazza. Fra i feriti, anche la scrittrice fiorentina Oriana Fallaci, che si trovava in un grattacielo sovrastante la piazza per controllare al meglio le azioni fra manifestanti e forze dell’ordine. Ferita da un elicottero in volo, fu creduta morta e portata in obitorio, dove un prete si rese conto che era ancora viva. La giornalista riportò tre ferite d’arma da fuoco.
Il massacro continuò tutta la notte, i soldati si accamparono negli appartamenti vicini alla piazza. Testimoni riferirono che i corpi furono spostati con camion dell’immondizia. La spiegazione ufficiale fu che facinorosi armati iniziarono a sparare verso le forze dell’ordine che per difesa personale iniziarono a sparare. I media di tutto il mondo diffusero le immagini.
Grande allarme, in Messico, tra i movimenti e i famigliari dei 43 studenti scomparsi il 26 settembre dell’anno scorso. Si teme una nuova ondata di repressione: annunciata dall’intervento violento della polizia che martedì ha attaccato la carovana di madri che cercava di raggiungere la capitale: «Siamo arrivati al limite della pazienza — ha dichiarato Rogelio Ortega, governatore dello stato del Guerrero -, da adesso in poi, chiunque attacchi le istituzioni dovrà risponderne di fronte alla legge». Si riferiva alla protesta dei famigliari che hanno fatto irruzione nei locali della Procura generale per gridare slogan contro l’impunità e il narcostato. Quanto alla legalità vigente nel Guerrero, specchio di tutto un paese, valgono le cifre fornite dallo stesso presidente neoliberista Enrique Peña Nieto: almeno 25.000 scomparsi dal 2006, la maggioranza dei quali durante la sua gestione.
Il 26 settembre dell’anno scorso, un gruppo di studenti delle scuole rurali di Ayotzinapa è stato violentemente attaccato da polizia locale e narcotrafficanti. Il bilancio è stato di sei morti — due studenti, due giovani calciatori, un tassista e una passeggera -, numerosi feriti e 43 desaparecidos.
Gli studenti delle combattive scuole rurali protestavano contro le politiche di privatizzazione del governo. Erano arrivati a Iguala per raccogliere fondi per celebrare un altro massacro, compiuto dall’esercito il 2 ottobre del 1968: la strage di Tlatelolco, una delle tante di cui è costellata la storia del Messico. Allora, i reparti speciali dell’esercito e della polizia uccisero oltre 300 giovani, a pochi giorni dalle Olimpiadi di Città del Messico. L’anno scorso, gli studenti avevano «preso in prestito» alcuni autobus, com’è loro consuetudine durante le mobilitazioni. Dopo un primo scontro con un gruppo di uomini armati accompagnati da agenti della polizia locale, gli studenti hanno cercato di raccontare l’episodio ai giornalisti, ma i loro autobus sono stati presi di mira da altri individui armati di fucili mitragliatori. In quel frangente è stato attaccato anche un pullman di calciatori che tornava da una partita. Chi non è riuscito a fuggire — all’inizio si è parlato di 58 scomparsi — è stato inghiottito nel buco nero del Messico.
Secondo la versione ufficiale, la polizia ha consegnato gli studenti ai narcotrafficanti, che li hanno uccisi e bruciati in una discarica del circondario, a Cocula. Un’indagine basata sulle dichiarazioni dei pentiti, ma subito contestata dalle controinchieste giornalistiche e dalle perizie indipendenti. Di recente, il Gruppo Interdisciplinare di Esperti Indipendenti (Giei), istituito dalla Commissione Interamericana per i Diritti Umani — organo dell’Organizzazione degli stati americani (Osa) -, ha presentato un rapporto di 500 pagine che confuta i risultati ufficiali. Per lo stato, quella consegnata ai media e alle famiglie, è la verità «storica». Così l’aveva definita l’ex Procuratore generale Murillo Karam. La sua risposta alle domande del pubblico — «adesso mi sono stufato» — è diventata lo slogan capovolto dei manifestanti in piazza, che hanno urlato: «Io mi sono stancato» delle false verità di stato.
Il Giei ha invece evidenziato l’impossibilità di bruciare un così gran numero di corpi in quella discarica. Ha chiamato in causa le complicità dell’esercito e della polizia federale, ed ha anche avanzato l’ipotesi che gli studenti quel giorno possano aver messo le mani su un grosso carico di droga trasportata su uno dei pullman. Finora, sono stati identificati i resti calcificati di due studenti. Ma gli esperti indipendenti avanzano dubbi: intanto, i frammenti di un dito e di un dente non certificano la morte; e poi, nessuno ha visto il sacco nero contenente i resti nella discarica di Cocula; e ancora: se gli studenti sono stati inceneriti, dove può esistere un forno crematorio così grande? Nelle caserme militari — rispondono i famigliari — dove si tortura e si uccide. Una pratica provata in tutti quei paesi — come la Colombia e il Messico — dove i paramilitari fanno scomparire le loro vittime con la complicità dell’esercito.
In Messico e in altre parti del mondo, è iniziata una settimana di mobilitazioni. I famigliari degli scomparsi hanno iniziato uno sciopero della fame. Anche quelli dei giovani calciatori, il cui pullman è stato attaccato un anno fa, chiedono giustizia e un incontro urgente con il presidente Nieto. Chiedono anche che gli esperti Giei possano indagare per altri sei mesi. Nieto ha promesso una commissione d’inchiesta indipendente a cui nessuno crede: anche perché, al Senato, l’arco dei partiti non ha trovato un accordo per formarla. Cinque madri degli scomparsi hanno intanto raggiunto gli Stati uniti, dove contano di incontrare il papa e di esporgli le ragioni dello sciopero della fame. Hanno già partecipato a una veglia per i diritti dei migranti e contano di recarsi al Congresso a Washington per chiedere a Obama che ritiri il sostegno a Nieto e alle sue politiche narco-militari. Il 27, andranno poi a Filadelfia, dove si recherà Bergoglio per presenziare all’Incontro mondiale delle famiglie. Sperano dica qualcosa contro le sparizioni forzate.
Anche in Italia sono annunciati dibattiti e iniziative. E’ già attiva una campagna per ricordare il giornalista Ruben Espinosa, ucciso di recente. Si sono espresse associazioni come Amnesty international, che ha dedicato ampio spazio al Messico degli scomparsi nel suo ultimo rapporto. Sabato a Roma (Centro sociale La Strada) si proietterà un video a partire dal libro-inchiesta di Federico Mastrogiovanni, edito da Derive Approdi. Ieri, alla Camera, il giornalista — che vive in Messico — ha partecipato a una conferenza stampa indetta da Sel, che chiederà al governo Renzi sanzioni contro Peña Nieto.
Frida Kahlo muore il 13 luglio 1954 a Coyoacàn; la causa ufficiale della morte è ”embolia polmonare”, ma si sospetta il suicidio.
Magdalena Carmen Frida Kahlo y Calderón era nata nel 1907 da Carl Wilhelm Kahlo e Matilde Calderón y Gonzalez a Coyoacàn, una delle sedici delegazioni di Città del Messico. Sentendosi profondamente ”figlia” della rivoluzione messicana del 1910, da sempre sosteneva questa come sua reale data di nascita.
Nonostante fosse affetta da spina bifida (inizialmente scambiata per poliomielite), fin dall’adolescenza Frida manifestò un talento artistico e uno spirito indipendente e passionale riluttante verso ogni convenzione sociale.
A diciassette anni rimase vittima di un incidente stradale tra un autobus su cui viaggiava e un tram, a causa del quale riportò gravi fratture che le segneranno la vita costringendola a numerose operazioni chirurgiche che le sfigureranno il corpo intero. Dimessa dall’ospedale, fu costretta ad anni di riposo nel suo letto di casa con il busto ingessato: è qui che Frida cominciò a leggere libri sul movimento comunista e a dipingere soprattutto autoritratti, grazie a un letto a baldacchino con uno specchio sul soffitto che i genitori le avevano regalato.
Dopo che le fu rimosso il gesso, portò i suoi dipinti a Diego Rivera, illustre pittore murale dell’epoca che, rimanendo particolarmente colpito dallo stile moderno di Frida, decise di trarla sotto la sua ala e inserirla nella scena politica e culturale messicana.
Frida divenne così un’attivista del partito comunista messicano partecipando a diverse manifestazioni e, nel 1929 sposò Rivera, pur sapendo dei continui tradimenti cui andava incontro. Frida e Diego organizzarono i loro studi e accumularono reperti precolombiani del Messico e collezioni etnografiche nella grande ”Casa Azul” di Coyoacàn, oggi aperta al pubblico come il Museo Frida Kahlo.
Negli anni successivi al matrimonio Frida si trasferì a New York con il marito, al quale erano stati commissionati alcuni lavori, ma ben presto decise di tornare nella sua città natale, anche a causa di un aborto spontaneo in gravidanza inoltrata causato dell’inadeguatezza del suo fisico.
Nel 1939 Frida e il marito divorziarono per il tradimento di Rivera con la sorella di Frida, per risposarsi di nuovo un anno dopo a San Francisco perché, di fatto, Diego non l’aveva dimenticata e non aveva mai smesso di amarla.
Frida aveva assimilato dal marito uno stile volutamente naif che la portò a dipingere in particolare piccoli autoritratti ispirati all’arte popolare e alle tradizioni precolombiane. La sua chiara intenzione era, ricorrendo a soggetti tratti dalle civiltà native, affermare in maniera inequivocabile la propria identità messicana. Nei suoi ritratti raffigurò inoltre, molto spesso, gli aspetti drammatici della sua vita, il maggiore dei quali fu il grave incidente del 1925. Il rapporto ossessivo con il suo corpo martoriato caratterizzava infatti uno degli aspetti fondamentali della sua arte: creava visioni del corpo femminile non più distorto da uno sguardo maschile.
Nel corso della sua vita Frida ebbe numerosi amanti, di ambo i sessi, tra i quali il rivoluzionario russo Lev Trotskij, il poeta Andrè Breton e la militante comunista e fotografa Tina Modotti.
Pochi anni prima della sua morte le venne amputata la gamba destra, in evidente stato di cancrena. Le ultime parole che scrisse nel suo diario furono: “Attendo con gioia la mia dipartita. E spero di non tornare mai più.”