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Iniziata questa mattina presto la scalata alle pareti della fabbrica, sulle quali gli ambientalisti progettano di dipingere un gigantesco “Stop Carbone”
Venerdì, 07 Ottobre 2016 09:43
L’ex Liquichimica dopo il blitz di Greenpeace (le foto nel servizio sono di Marco Costantino)
SALINE JONICHE Greenpeace si schiera contro il progetto di centrale a carbone che la multinazionale elvetica Sei-Repower progetta di costruire sulle ceneri della Liquichimica di Saline Joniche. Gli attivisti hanno iniziato questa mattina presto la scalata alle pareti della fabbrica, sulle quali progettano di dipingere un gigantesco “Stop Carbone”. «È un messaggio per la Sei come per Renzi-Repower – scrivono dal desk internazionale dell’organizzazione ambientalista –. Il governo deve fissare una data chiara per mettere fine alla produzione di energia da carbone in Italia».
Da anni, la multinazionale elvetica tenta di impiantare una fabbrica a carbone, nonostante l’opposizione della popolazione locale. Il progetto, che ha ottenuto una Valutazione di impatto ambientale positiva dal governo Monti nonostante la presenza di una riserva naturale protetta nell’area di costruzione della centrale, è stato bloccato da una sentenza del Tar del Lazio, che ha accolto il ricorso presentato da Regione, Comuni e associazioni ambientaliste dell’Area grecanica. Una decisione ribaltata dal Consiglio di Stato, che ha accolto il ricorso avanzato dalla Sei (la multinazionale svizzera che intende realizzare la megaopera sul litorale jonico reggino) e dalla Presidenza del Consiglio dei ministri, dando nuovamente il via libera alle autorizzazioni per la costruzione dell’impianto.
La centrale dovrebbe nascere sui ruderi dell’ex Liquichimica, il mostro creato nel 1974 con i finanziamenti del pacchetto Colombo. Costata all’epoca 300 milioni, avrebbe dovuto finanziare lo sviluppo industriale di una delle province più depresse d’Italia. Da più parti però, quell’investimento è stato interpretato come il prezzo che il governo è stato costretto a pagare per comprare la pace a Reggio Calabria, dove i Boia chi molla, guidati dal sindacalista della Cisnal e senatore missino, Ciccio Franco, si erano messi alla testa della rivolta popolare, scoppiata dopo l’assegnazione del capoluogo a Catanzaro.
La Liquichimica è figlia di quel baratto. Dopo avere speso quel fiume di denaro pubblico, le istituzioni hanno bollato la produzione – bioproteine per mangimi animali – come «altamente inquinante». E l’impianto è stato bloccato e chiuso due mesi dopo l’apertura dei battenti. Trecento milioni di lire dell’epoca andati in fumo, seicento lavoratori assunti, finiti in cassa integrazione. A Saline è rimasta solo una struttura divenuta simbolo delle cattedrali nel deserto.
Si terrà martedi 23 giugno alle ore 9:00 presso il Tribunale di Reggio Calabria, la terza udienza del processo intentato dalla società SEI S.p.a., formata da Gruppo Repower (57,5%), del Gruppo Hera (20%), da Foster Wheeler Italiana S.r.l. (15%) e da Apri Sviluppo S.p.A. (7,5%), contro Noemi Evoli e Paolo Catanoso del Coordinamento Associazioni Area Grecanica, difesi dagli Avv. Angiolino Palermo e Angela De Tommasi, e Domenico Larosa del Movimento Difesa Ambientale, difeso dagli Avv. Antonino De Pace e Mario Zema.
La SEI S.p.a., attraverso il suo legale rappresentate Fabio Bocchiola, e difesa dagli Avv. Alberto Panuccio, Renato Vitetta e Luca Zampano, il 2 maggio dello scorso anno citò in giudizio gli attivisti no carbone chiedendo loro un maxi risarcimento di 4 milioni di euro per un presunto danno d’immagine arrecato alla società che vorrebbe costruire una centrale a carbone nell’area ex liquichimica di Saline Joniche.
“A finire sotto accusa – afferma il Coordinamento Associazioni Area Grecanica – è stata l’azione di contrasto al progetto SEI svolta nel corso di questi anni dal Coordinamento Associazioni Area Grecanica, di cui Evoli e Catanoso sono membri, attraverso la diffusione di alcuni comunicati stampa e locandine dal chiaro contenuto satirico, tesa a dimostrare la nocività e gli effetti negativi che la costruzione di una centrale a carbone avrebbero causato su tutta l’area.
Numerosi sono stati gli attestati di solidarietà e stima ricevuti dalla popolazione, dal mondo associazionistico e dalle istituzioni per quello che da più parti viene ritenuto un atto intimidatorio e tendente alla limitazione della libertà di pensiero.
“Non amiamo chi vuole, in qualsiasi modo, censurare la libertà di espressione” fu il saluto del comandante della Rainbow Warrior di Greenpeace che lo scorso 8 luglio fece tappa a Reggio Calabria per portare sostegno ai nocoke calabresi dopo la realizzazione di una campagna di grandi affissioni con la quale Greenpeace, riproducendo una delle vignette incriminate, sfidò apertamente la SEI a procedere per vie legali. “Il progetto della SEI è uno scempio al territorio e l’ennesima minaccia fossile all’ambiente, al clima e all’economia. Che lo si voglia portare avanti, per giunta, reprimendo il dissenso a suon di minacce è una vera vergogna” furono le parole di Andrea Boraschi, responsabile della campagna Energia e Clima di Greenpeace.
Il caso finirà in Parlamento. Duro l’intervento della deputata calabrese Dalila Nesci “…vorrei che nell’Aula della Camera riflettessimo su quanto la Calabria sia schiacciata dalla violenza del potere: politico, mafioso oppure economico. Il potere impone il silenzio perché teme la libertà di opinione e perfino di satira….”
Dopo la vittoria del ricorso al TAR del Lazio e l’archiviazione della denuncia presentata dall’ex consulente della SEI, Franco D’Acquaro, contro lo stesso Paolo Catanoso portato in Tribunale, anche in questo caso, per quelle parole di informazione e denuncia che il Coordinamento No Carbone ha utilizzato come unica arma per difendere il proprio territorio dalla minaccia di un investimento inutile e dannoso, la battaglia continua ancora per via legali.
Appuntamento dunque per il prossimo 23 giugno al CEDIR di Reggio Calabria. La SEI S.p.A. chiede 4 milioni di euro a Evoli, Catanoso, La Rosa, ma sul banco degli imputati – conclude il Coordinamento – ci saranno tutti coloro che difendono la libertà di espressione e il proprio territorio da chi vuole farne terra di conquista. Ci saremo noi con la forza delle nostre ragioni”.
Originariamente pubblicato sul n. 1 – anno 1 del periodico di informazione giuridica Diritto21, a diffusione interna al dipartimento DiGiEC dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria.
Di Giuseppe Chiodo:
I nuovi M(u)ostri che minacciano il Sud
Parte II: i rifiuti tossici interrati e affondati in Calabria
Le viscere della Calabria sono da tempo il cimitero di quantità sterminate di rifiuti tossici e radioattivi? Questo l’allarmante interrogativo che sembrerebbe emergere dal blocco di documenti recentemente declassificati dal Governo, su pressante richiesta dell’associazione ambientalista Greenpeace. Decine di dossier dei servizi segreti e verbali di audizioni di alcune commissioni parlamentari d’inchiesta, a fronte degli oltre 3000 ancora soccombenti alla “ragion di Stato”, sono dunque a disposizione dei cittadini. E descrivono un quadro inquietante.
Terra e mare sarebbero state infatti utilizzate come oscuri “pozzi” nei quali gettare, senza preoccuparsi delle conseguenze sanitarie, ambientali e penali, rifiuti di non meglio identificata natura, da parte di un’organizzazione senza scrupoli avente come terminale le cosche della ‘ndrangheta operanti sui singoli territori, sotto la “direzione”, forse, di apparati deviati dello Stato.
Il documento n. 488/03, facente parte del “patrimonio conoscitivo” della Commissione parlamentare d’inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti (della XVI legislatura), è probabilmente il più esaustivo e preoccupante. In questo stralcio di appunto originato dall’AISI (l’Agenzia Informazioni e Sicurezza Interna) molte pagine sono dedicate alla vicenda delle cd. “navi a perdere” e alle dichiarazioni del controverso collaboratore di giustizia Francesco Fonti, il quale “[…] ha riferito del coinvolgimento della ‘ndrangheta nel traffico internazionale di scorie nucleari, realizzato attraverso […] l’affondamento pilotato di una serie di motonavi (circa una trentina) all’interno delle quali erano stivati rifiuti pericolosi”. Oltre al più noto caso del “Cunsky”, il cui relitto sarebbe stato identificato al largo di Cetraro (salvo poi rivelarsi invece quello di una nave passeggeri colata a picco nel 1917), l’ex malavitoso si sarebbe addossato la responsabilità dell’affondamento di almeno altri due natanti, di cui uno, il “Voriais Sporadais”, sarebbe stato inabissato al largo di Melito Porto Salvo. Con dentro 75 bidoni di sostanze tossiche.
Anche gli impervi territori della Calabria sarebbero stati oggetto di costanti sversamenti. Africo, Serrata, la zona aspromontana, le Serre e il vibonese sono alcune delle località ricorrenti nel dossier, zeppe di rifiuti tossici e radioattivi provenienti da depositi del Nord e Centro Italia, di scorie tossiche e radioattive arrivate dalla Germania, di non meglio identificate sostanze pericolose trasportate fin qui dall’Est Europeo. Dati che farebbero il paio, ad esempio, con alcune informative dei Carabinieri agli atti dell’inchiesta “Saggezza”, contenenti la trascrizione di intercettazioni in cui due presunti appartenenti all’organizzazione massonico – ‘ndranghetistica oggetto d’indagine confessano che “Ne hanno sotterrati di questi cosi tossici qui nella montagna, che glieli hanno portati i <<pianoti>>, che lì a Gioia Tauro dice che stanno scoppiando che Dio ce ne liberi”; nella cittadina da cui prende il nome la Piana, infatti, sempre secondo i soggetti inconsapevolmente ascoltati dalle forze dell’ordine, “dicono che a ogni albero di ulivo c’è un bidone”.
Ad occuparsi della verifica della fondatezza di queste copiose notizie di reato, tra gli altri, ci pensò all’epoca dei fatti (che le note dei servizi fanno risalire ai primissimi anni ’90) il dott. Francesco Neri, sostituto procuratore a Palmi; lo stesso magistrato che dispose il coraggioso sequestro dell’area che in quel medesimo periodo veniva deturpata per la costruzione del porto di Gioia Tauro, e l’iscrizione nel registro delle notizie di reato di ben tredici differenti ipotesi che coinvolgevano il Consiglio di Amministrazione dell’Enel, principale investitore: dalla violazione delle norme urbanistiche e dell’ambiente, alla turbativa d’asta e delle norme sugli appalti. Inchieste, entrambe, poi risoltesi in un nulla di fatto. Così l’epilogo è forse lo stesso del profetico libro sull’argomento dei giornalisti Giuseppe Baldessarro e Manuela Iatì, “Avvelenati”: “Un mare di <<ho sentito dire>>, <<ho saputo>>, <<ho notizia>>. Dal caso Alpi al traffico di armi, dalle scorie alle banche svizzere, dalla ‘ndrangheta ai servizi segreti. Mai una verità coincidente con un’altra, mai una prova vera. Solo tanti interrogativi sparsi su poche certezze. E tutti restiamo avvelenati”. Ma il procuratore Cafiero de Raho è già al lavoro per cambiarlo.
È arrivata questa mattina nel porto di Reggio Calabria la “Rainbow Warrior”, l’imbarcazione simbolo di Greenpeace che ha programmato una tappa nel comune calabrese nell’ambito del tour “Non è un paese per fossili”.
A bordo del quartier generale di Greenpeace sono saliti i rappresentanti del Coordinamento No Carbone, impegnati nella lotta alla centrale a carbone di Saline Joniche: il coordinamento ha esposto nuovamente le proprie motivazioni contro la costruzione della centrale, definendola una “infrastruttura inutile, di cui il sistema energetico del paese non ha bisogno”.
Inoltre, applicando uno studio sull’inquinamento delle centrali a carbone realizzato per Greenpeace al caso della centrale di Saline, emergerebbe che la realizzazione di quell’impianto causerebbe 44 casi di morte prematura l’anno e danni economici (sanitari, ambientali, climatici) pari a 357 milioni l’anno.
Settimane fa, inoltre, la SEI – società che dovrebbe occuparsi della costruzione della centrale – ha denunciato tre attivisti del No Carbone, chiedendo una cifra pari a 4 milioni di euro, per alcune vignette satiriche diffuse dal coordinamento. Greenpeace è intervenuta anche sulla questione realizzando una campagna di grandi affissioni (6 metri per 3), riproducendo una delle vignette incriminate e sfidando apertamente la SEI a procedere per vie legali.
“Il progetto della SEI è uno scempio al territorio e l’ennesima minaccia fossile all’ambiente, al clima e all’economia. Che lo si voglia portare avanti, per giunta, reprimendo il dissenso a suon di minacce è una vera vergogna. La SEI esprime una visione miope del futuro energetico della Calabria, regressiva tanto quanto il suo tentativo di reprimere la libertà di espressione. Faremo di tutto affinché quella centrale non veda mai la luce” dichiara Andrea Boraschi, responsabile della campagna Energia e Clima di Greenpeace.
Dopo Boraschi sono intervenuti anche Nuccio Barillà, della segreteria nazionale di Legambiente, Francesca Panuccio del Coordinamento dell’Area Grecanica No al
Carbone ed Ezio Pizzi, presidente del Consorzio di Tutela del Bergamotto.
La Rainbow Warrior riprenderà il viaggio verso la Grecia, la Croazia e, infine, tornare in Italia e percorrere il mar Adriatico.
Caso Alpi-Hrovatin. Il governo annuncia l’operazione trasparenza. La procura pronta ad acquisire dalla Camera i documenti utili all’inchiesta. Articolo21: «È la vittoria delle 70mila firme»
Vent’anni di misteri, depistaggi, falsi testimoni e inchieste finite nel nulla. E una pila di documenti segreti, tenuti sotto chiave per tutti questi anni negli archivi della Camera dei deputati per decisione dei servizi segreti civili e militari. Ieri il governo, nel giorno dell’anniversario dell’agguato di Mogadiscio del 20 marzo ‘94, ha annunciato l’apertura degli archivi riservati dei servizi sul caso di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, la giornalista e l’operatore del Tg3 assassinati in Somalia mentre erano sulle tracce dei traffici di armi e rifiuti tossici tra le pieghe della cooperazione italiana.
La decisione del governo è arrivata in risposta a una lettera di interpello della presidente della Camera Laura Boldrini, che ha recepito la richiesta di Greenpeace e una petizione lanciata da Articolo 21 che ha raggiunto in pochi giorni 70mila firme: «Abbiamo avviato la procedura di desecretazione degli atti sul caso Ilaria Alpi. Il governo è fortemente impegnato su questo fronte — ha spiegato alla Camera il sottosegretario ai rapporti con il Parlamento Sesa Amici — e vent’anni sono un tempo sufficiente per mantenere la sicurezza nazionale».
Sono carte che potrebbero imprimere una svolta alla ricerca della verità sui mandanti, sul contesto dell’agguato, sui tanti depistaggi che hanno impedito fino a ora il raggiungimento della verità. Sull’omicidio di Ilaria Alpi è ancora aperto un fascicolo presso la procura di Roma, affidato al pm Elisabetta Peniccola. Ieri alla notizia della prossima apertura degli archivi segreti il procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, ha dichiarato di voler acquisire gli atti utili all’inchiesta.
L’unico condannato per l’esecuzione di Ilaria e Miran, il somalo Omar Hashi Hassan, è detenuto da dodici anni sulla base di un testimone che avrebbe dichiarato di aver inventato tutto, d’accordo con le autorità italiane.
Alla comunicazione del sottosegretario Amici ha subito risposto entusiasta Laura Boldrini: «È un segnale importante contro il muro di silenzio». Anche se nelle scorse settimane non erano mancati dubbi e perplessità sull’operazione di desecretazione dei fascicoli sul traffico internazionale di rifiuti e sulle «navi a perdere» — pratica che comprendeva anche gli atti segreti relativi al caso Alpi — avviata dall’ufficio di presidenza di Montecitorio. La richiesta di apertura degli archivi era arrivata da Greenpeace nel dicembre 2013, e dopo una prima risposta positiva di Boldrini la notizia — sollevata dal manifesto — di una rimozione soltanto parziale del segreto dai dossier riservati (solo 152 su diverse migliaia acquisiti negli anni dalle commissioni parlamentari d’inchiesta) aveva fatto sorgere la necessità di una domanda di desecretazione «allargata».
Un’esigenza di verità cui ha cercato di rispondere la petizione lanciata da Articolo 21 promossa da Stefano Corradino e Beppe Giulietti, anche perché nel frattempo fonti di Montecitorio avevano rivelato al manifesto che i servizi segreti militari, nella primavera scorsa, hanno negato l’autorizzazione all’apertura dei dossier riservati sui rifiuti e sulla Somalia a un ufficio di Montecitorio.
Non è ancora noto quanti e quali documenti verranno avviati alla desecretazione: i dossier dei servizi sul caso Alpi-Hrovatin sono 1.500 (ma il generale Sergio Siracusa, ex direttore del Sismi, ne aveva mostrati circa 8mila alla commissione presieduta da Carlo Taormina), cui vanno aggiunti 750 documenti dell’ultima commissione sui rifiuti e le migliaia di atti acquisiti dalle commissioni ecomafia dalla XII alla XV legislatura. «È il miglior modo di onorare, più che la memoria, il lavoro di Ilaria», ha commentato in serata la ministra degli Esteri Federica Mogherini. Entusiasti anche tutti i soggetti che nei giorni scorsi avevano aderito alla petizione di Articolo 21, dal segretario della Fnsi Franco Siddi («è una svolta straordinaria che apre finalmente una breccia per verità e giustizia») all’associazione Ilaria Alpi, agli stessi promotori: «Seguiremo passo passo — assicurano Corradino e Giulietti di Articolo 21 — l’iter e le risposte che saranno fornite da chi aveva apposto il segreto. Questo risultato è anche il frutto delle 70 mila persone che hanno chiesto di mettere fine al regime dei segreti e della clandestinità».
Ora la palla passa al governo e ai servizi segreti — Aise e Aisi, ex Sismi e Sisde — gli stessi servizi che solo nel maggio scorso avevano negato l’apertura degli archivi. Ma i servizi di sicurezza sono controllati dalla presidenza del Consiglio e dal governo, che sembra aver espresso una volontà politica chiara. Non è possibile prevedere se gli atti declassificati daranno un impulso nuovo all’inchiesta sulla morte di Ilaria e Miran. La madre di Ilaria, Luciana Alpi, dopo un lungo periodo di disillusione ha detto di aver ritrovato la speranza. Dopo vent’anni di oblio, inquinamenti e omissioni.