Reggio Calabria. Fascisti al Gebbione, cowboy contro indiani

23/06/2016 16:30

Blitz di Casapound contro un manipolo di disperati che occupavano una baracca nella zona Sud di Reggio. Ecco il coraggio del nuovo che avanza.

“Con un intrepido e italico atto di eroismo, sprezzo del pericolo e indomita fede nell’ideale, gli arditi reggini del movimento CasaPound hanno fatto piazza pulita della feccia straniera che ammorba il pacifico vivere dell’operoso quartiere del Gebbione”.
Forse s’immaginavano la voce nasale dello speaker dell’istituto Luce i militanti di CasaPound mentre allontanavano un manipolo di disperati dal fatiscente accampamento che avevano creato tra le palazzine popolari del Viale Aldo Moro.
Con un comunicato dai toni trionfalistici, ieri pomeriggio i post-trans-fascisti del movimento hanno annunciato la loro ultima impresa: la cacciata degli indiani dal Gebbione. Mancavano soltanto John Wayne e Tex Willer.
Le stesse fotografie postate a corredo della “velina” sottolineavano ua situazione di estremo squallore. Gli uomini, allontanati dalle baracche in cui si rifugiavano – resta da capire con quale autorità se non quella della forza maggiore – erano chiaramente dei disperati. Vivevano, com’è ovvio, in una situazione di illegalità che le autorità avrebbero dovuto evitare.
“La baracca è stata abbattuta e l’ordine (?) ristabilito”, recita ancora il comunicato che i nostri eroi hanno fatto pervenire a tutte le testate.
Ma le regole base del vivere civile, nonché i valori “tradizionali” cui il movimento dice di ispirarsi, imporrebero di dare aiuto agli ultimi, ai disperati e ai miseri, non di tartassarli.
A questo punto bisognerebbe rientrare nella testa dei militanti di CasaPound e, superata la incessante prosa aggettivata di Giulio Notari, comprendere cosa credono di aver risolto. Hanno posto fine a una situazione di degrado? No, hanno spostato il degrado: gli uomini che hanno respinto, cacciandoli dalla baracca che abitavano, andranno a costruirne un’altra, magari non troppo lontano. Hanno aiutato gli abitanti delle case popolari? No, hanno evitato loro un fastidio, forse, ma non li hanno aiutati ad avere quell’attenzione istituzionale che pur meriterebbero. Hanno spostato seppur di poco la realtà? No, se non quella del proprio mostro interiore che chiede di dominare sul più debole, invece di risollevarlo dalla polvere in cui si trova.
Fin qui niente di nuovo nella mentalità post-trans-fascista. Il vero problema è che, nel comunicare un abuso, trovano anche testate acriticamente (si spera) disposte a pubblicarlo, a narrare le gesta degli “arditi, mossi da indomito amor di patria”.

 

 

 

Fonte:

http://m.lacnews24.it/19570/cronaca/fascisti-al-gebbione-cowboy-contro-indiani.html

 

Corteo in ricordo di Clément Meric

Domenica 05 Giugno 2016 15:08

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Il 4 di giugno a Parigi si è reso omaggio con un corteo antifascista partecipato e determinato a Clément Méric, militante antifascista ucciso da estremisti di destra tre anni fa. La manifestazione di ieri arriva in pieno movimento sociale contro la Loi travail, in un momento di criminalizzazione dei gruppi militanti che vede un particolare accanimento nei confronti dei compagni dell’Antifa Paris Banlieue, in seguito al caso della macchina della polizia bruciata, per la quale alcuni di loro sono stati accusati. Proprio in questo senso va letta la decisione della prefettura di obbligare la manifestazione di ieri a percorrere il canale sul quai de Valmy, luogo ostile in termini di mobilità per la prossimità al canale e luogo in cui la famosa macchina della polizia è stata data alle fiamme qualche settimana fa. Molti slogan hanno infatti mostrato la solidarietà agli incolpati sottolineando la strategia della prefettura a colpire nel mucchio cercando di delegittimare e indebolire il movimento.

Arrivati dunque all’altezza di quai de Valmy la polizia ha deciso di bloccare il corteo che avrebbe dovuto proseguire il percorso fino a Menilmontant effettuando una sorta di vendetta a colpi di cariche violente, lacrimogeni, granate (le stesse che hanno ridotto in coma un giornalista due settimane fa) e flashball. Nonostante la volontà delle prime file di proteggere il corteo e di avanzare, la violenza del dispositivo poliziesco ha impedito alla manifestazione di continuare oltre, finendo per creare una “nassa” (modalità di accerchiamento dei manifestanti) sotto una pioggia di lacrimogeni. La situazione si è quindi cristallizzata per più di quattro ore, concludendosi con varie decine di persone portate in commissariato per un controllo di identità, dove all’uscita hanno trovato un presidio di solidarietà ad attenderle.

Il 4 giugno a Parigi è stata una giornata importante, densa di voci che all’unisono hanno scandito “Siamo tutt* antifascist*”, di solidarietà di fronte a chi tenta di dividere chi lotta, di ricordo a tutte le vittime del fascismo e della polizia. Ma anche difficile da affrontare in un contesto sempre più repressivo che ha il chiaro obiettivo di impedire con ogni arma, poliziesca o giuridica, l’espressione del conflitto.

Da Clement a Dax passando per Zyed e Bounna, un solo grido : on n’oubli pas on ne pardonne pas (non dimentichiamo e non perdoniamo).

Parigi 5 giugno 2016

Fonte:

Le elezioni di Nea Dimokratia e l’omicidio Temboneras

 fantasma-teboneras

Non c’è stato nessun omicidio. Per poter   parlare di omicidio ci devono essere determinate premesse. Si è trattato semplicemente di un decesso.

Nikòlaos Tàgaris, prefetto dell’Acaia, deposizione alla commissione parlamentare d’inchiesta (16/7/1991)

Αφίσα για εκδηλώσεις στη μνήμη του Νίκου Τεμπονέρα

La notte tra il 9 e il 10 gennaio di 25 anni fa il professor Nikos Teboneras veniva brutalmente assassinato da alcuni individui appartenenti alla sezione di Patrasso dell’organizzazione giovanile del partito Nea Dimokratìa (ONNED). Gli insegnanti hanno programmato un raduno commemorativo sul luogo dell’omicidio. Un quarto di secolo dopo, i fatti del 1991 restano ancora attuali.

Le elezioni per la presidenza di Nea Dimokratìa [svoltesi il 10/1/2016, hanno portato alla vittoria Kyrìakos Mitsotakis, figlio di Konstantinos Mitsotakis, primo ministro tra il 1990 e il 1993, n.d.t.] conferiscono a questa ricorrenza un’incredibile attualità: il fascismo può benissimo funzionare come la “lunga mano” delle politiche economiche filoliberiste. L’omicidio di Patrasso, infatti, non nasce dal nulla. È stata la conseguenza naturale di una politica studiata dai vertici del partito per sgomberare le occupazioni studentesche di quel periodo, attraverso la mobilitazione del meccanismo partitico di Nea Dimokratìa. L’operazione godeva del caloroso sostegno dei media di destra e della silenziosa copertura dei servizi di sicurezza.

A confermare la connivenza dello Stato con i responsabili del delitto sono soprattutto i tentativi ripetuti del governo e di Nea Dimokratìa non solo di coprire le proprie responsabilità, ma anche di assicurare agli autori materiali del delitto un trattamento di riguardo nel procedimento penale successivo all’omicidio.

Le occupazioni studentesche

Tutto è iniziato con due decreti del governo Mitsotakis per i Ginnasi (393/1990) e i Licei (392/1990), caratterizzati da una logica disciplinare autoritaria e ispirata ai valori del cristianesimo e del nazionalismo. I decreti prevedevano, tra le altre cose:

– ripristino delle preghiere quotidiane;

– ripristino del catechismo e dell’alzabandiera ;

– «revisione» delle comunità studentesche;

– nessuna tolleranza per le assenze ingiustificate;

– imposizione di un point system per controllare e sanzionare il comportamento degli studenti.

L’iniziale disposizione sulle «divise uguali per tutti gli studenti» venne ritirata di fronte allo sdegno pubblico, per essere poi riproposta come disposizione sull’obbligo di mantenere «un aspetto semplice e dignitoso». I particolari sarebbero stati definiti in base alle proposte del consiglio dei genitori, con decisione finale del consiglio dei docenti; la disposizione prevedeva sanzioni nei confronti di qualsiasi studente avesse un abbigliamento giudicato «in evidente disarmonia con l’ambiente scolastico».

La risposta degli studenti fu una tempesta di occupazioni che iniziarono il 22 novembre a Iraklio; le occupazioni dilagarono rapidamente in tutta la Grecia: 1.180 scuole occupate il 10/12, 20.000 manifestanti per le strade del centro di Atene il 13/12.

Le istanze degli occupanti erano naturalmente incentrate sul ritiro dei decreti contestati, ma gli studenti avanzarono anche proposte positive sulla didattica – ad esempio, riadottare nelle classi il libro «Storia del genere umano» di Lefteris Stavrianòs, che riportava la teoria darwiniana dell’evoluzione delle specie, appena ritirato dalle classi del I Liceo perché bollato come «anticristiano».

Nella rivolta studentesca confluirono le mobilitazioni degli studenti medi e di quelli universitari, che nello stesso periodo avevano occupato le loro facoltà contro il piano di legge Kontoghiannòpoulos, e che il 18/12 realizzarono un raduno studentesco a cui parteciparono 35.000 giovani.

Sorpresi dagli sviluppi, il governo si rifugiò nei riflessi conservatori della sinistra ufficiale («le scuole devono essere riaperte», dichiara il 12/12 Grigoris Farakos, dopo un incontro con Mitsotakis), sembrò cedere su alcuni punti e attese l’arrivo del natale, ritenendo che le vacanze avrebbero placato gli animi.

Ma queste aspettative si rivelarono fasulle. Secondo i dati ufficiali del ministero dell’Istruzione e della Religione, più di 700 scuole rimasero occupate durante le feste (tra queste, il 51% delle scuole di Atene, il 53% delle scuole del Pireo, l’80% di quelle dell’Attica occidentale, il 46% di quelle di Salonicco, il 63% di quelle dell’Argolide e il 68% delle scuole di Corfù), mentre in molti altri istituti erano state programmate assemblee per il 7 gennaio.

Deciso a stroncare il movimento, il ministero dichiarò che le lezioni si sarebbero svolte anche con un solo studente presente, ordinò ai presidi di prendere le assenze sul marciapiede (con unico criterio la dichiarazione di ciascuno studente pro o contro l’occupazione) e ricordò che bastavano 50 assenze ingiustificate per perdere l’anno («Ελεύθερος Τύπος», 4/1/1991). Questo ricatto però non funzionò, perché dopo la fine delle vacanze le occupazioni aumentarono. La propaganda governativa iniziò a diffondere bugie, senza ottenere risultati significativi, mentre il Procuratore capo di Atene chiariva ai genitori che per avviare procedimenti per turbamento dell’ordine pubblico i presidi delle scuole dovevano dichiarare per iscritto che i ragazzi, nonostante la volontà di entrare in classe, erano impossibilitati a seguire le lezioni (ΕΤ2, 7/1/1991).

…e sgomberi

Αθήνα 18/12/1990. Η αντοχή των μαθητικών καταλήψεων εξόργισε την κυβέρνηση Μητσοτάκη

Atene18/12/1990. La resistenza delle occupazioni studentesche fece infuriare il governo Mitsotakis | foto di Tassos Kostòpoulos

Al governo non rimase altro da fare che ricorrere alla violenza. Gruppi di «cittadini indignati» di N.D. e della sua organizzazione giovanile si incaricarono di sgomberare a mazzate le occupazioni.

Il 7 gennaio gli episodi furono limitati ed ebbero più che altro il carattere di un «automatismo sociale», i cui protagonisti furono soprattutto genitori ostili alle occupazioni. Del tutto diverse furono le violenze del giorno seguente, quando fu evidente il fallimento delle pressioni esercitate all’interno della legalità.

Alle 2 di notte, una quarantina di giovani armati di spranghe fecero irruzione con lacrimogeni e petardi nel 4° Liceo di Salonicco, rompendo la porta e mandando all’ospedale una studentessa e un genitore che si trovava lì; il capo delle spedizioni, secondo le denunce, era il presidente della locale MAKI [Movimento Studentesco Indipendente, gruppo studentesco affine all’ONNED, n.d.t.] («Ριζοσπάστης», 11/1). Un’altra ventina di persone provò a sgombrare il Liceo Tyrolòis, a Truba, ma vennero respinti da studenti e genitori («Τα Νέα», 10/1).

A Kypseli ci fu un’irruzione nel 33° Liceo, mentre a Votanikòs il 63° Liceo fu attaccato con lanci di molotov («Ελευθεροτυπία», 9/1). Una manifestazione di elettori di Nea Dimokratìa a Corfù, una vera «esplosione popolare», secondo il comunicato stampa della prefettura, si concluse con assalti alle occupazioni delle scuole dell’isola. Ad Amaliada, un gruppo di giovani di N.D. occupò il comune e pestò il sindaco (del PASOK). A Lamìa e a Makrakomi, infine, come riportato dal giornale filogovernativo «Ελεύθερο Τύπο» (9/1), i genitori che volevano mettere fine alle occupazioni distrussero porte e vetri di tre scuole, provocando danni per decine di migliaia di dracme. Uno studente del 6° Liceo di Lamia rimase leggermente ferito. Gli assalti erano stati preparati da famosi giornalisti, a partire già dal periodo degli scioperi estivi.

«Una decina di canaglie sta seminando scompiglio e vuole soffocare la Nazione, proprio quando riesce a reggersi in piedi da sola», dichiarò Christos Pasalaris (Απογευματινή 6/7/1990).

«Lo stesso primo ministro», conclude l’articolo, in televisione deve insegnare al popolo «ad autodifendersi da quelle dieci sadiche canaglie che sabotano i sacri diritti dei liberi cittadini, tagliando la corrente, chiudendo le scuole, impedendo la libera circolazione per le strade, mettendo in pericolo la salute pubblica». Anche Dimitris Rizos (9/1/1991), editore del giornale «Ελεύθερος Τύπος», invitò i lettori all’ “autodifesa”: «prima o poi i cittadini di questo Paese dovranno reagire contro i politicanti di mestiere. Avanti dunque, seguiamo la strada segnata dai cittadini di Amaliada». Quando il giornale arrivò nelle edicole, Nikos Teboneras era già morto.

L’omicidio

Χαρακτηριστικό πανό των διαδηλώσεων του πρώτου διημέρου μετά τη δολοφονία (Αθήνα, 9-10/1/1991)

Lo striscione che apriva le manifestazioni i giorni immediatamente seguenti l’omicidio (Atene, 9-10/1/1991) | Tassos Kostòpoulos

A Patrasso gli episodi iniziarono la sera dell’8 gennaio, con la spedizione infruttuosa contro l’occupazione del liceo multidisciplinare da parte di circa 25 giovani di N.D. capeggiati da Ghiannis Kalambokas, presidente dell’ONNED di Patrasso, consigliere comunale e impiegato alla Banca di Creta.

Dopo aver schiaffeggiato un professore, entrarono nel complesso scolastico e sgombrarono gli occupanti, ferendo alla mano con un taglierino il presidente del consiglio degli studenti. La notizia venne trasmessa dalla radio locale e circa duecento cittadini si radunarono al di fuori del complesso scolastico per proteggere gli studenti.

I giovani di N.D. li accolsero insultandoli: «sentimmo qualche slogan sul nazionalsocialismo», dichiarerà più tardi il professor Dionisis Evstathiou, «ma nessuno si aspettava il peggio» (Atti dell’inchiesta, 20/6/1991, pag. 16). Dopo il tentativo fallito del sindaco Andreas Karàvolas di convincere i giovani di N.D. ad andarsene e il lancio di oggetti contro di lui, un gruppo di professori disarmati e di cittadini entrò nel cortile, certi che il numero sarebbe bastato a far ritirare il gruppo di aggressori armati. Questi ultimi li picchiarono con le loro spranghe, spaccando la testa di Temboneras e ferendo gravemente altre tre persone. Quando arrivò all’ospedale, il professore, membro del Fronte Antimperialista dei Lavoratori (EAM), era clinicamente morto.

Il gruppo di aggressori era già noto a Patrasso per altri episodi violenti (assalti a sedi politiche ecc.) verificatisi durante le elezioni del biennio precedente (elezioni politiche il 18/6/1989, il 5/11/1989 e l’8/4/1990, comunali il 14/10/1990) e tollerati dalle autorità. Nel periodo delle occupazioni avevano svolto almeno due assemblee per decidere come affrontare gli occupanti.

Durante la prima assemblea (22/12/1990), a cui parteciparono anche il sottosegretario all’Istruzione Vassilis Bekiris e il parlamentare Nikos Nikolòpoulos, Kalambokas propose l’idea di un’azione di forza da parte dell’ONNED, e gli venne risposto che una cosa del genere avrebbe potuto essere presa in considerazione dopo le feste (atti dell’inchiesta, 3/7/1991, pag. 4-6). La seconda assemblea si svolse la sera dell’8 gennaio in prefettura. Secondo la deposizione giurata di quattro dei 60 presidi presenti, il prefetto Nikos Tagaris definì «legali» gli sgomberi, e fece un riferimento al complesso scolastico Vud (atti dell’inchiesta, 16/7/1991, pag. 85-6).

Simili progetti vennero proposti durante le assemblee in tutta la Grecia (ad es. il 4/1 a Salonicco, alla presenza del ministro degli Interni Sotiris Koùvelas). Secondo il reportage di Thodorìs Roussòpoulos («Ελευθεροτυπία», 13/1), ordini simili erano stati impartiti anche dal vicepresidente di N.D. Theòdoros Bechrakis, con un telex alle sedi provinciali del partito, e telefonicamente dalla commissione per le mobilitazioni dell’ONNED alle sezioni locali. La notizia dell’omicidio esplose come una bomba.

Διαδηλωση στην Αθήνα μετά την δολοφονία Τεμπονέρα- 10/1/1991

Atene 10/1/1991 | Tassos Kostòpoulos

La sera del 9 gennaio il centro di Patrasso si trasformò in un teatro di scontri, che si protrassero per due giorni anche per le strade di Atene (10-11/1). Vi parteciparono migliaia di manifestanti, con un bilancio di centinaia di feriti e altri quattro morti, quando uno dei 4.000 lacrimogeni lanciati dai MAT provocò un incendio in una cartoleria.

In preda al panico, il governo ritirò i decreti e il piano di legge, Kontoghiannòpoulos si dimise e il suo successore Ghiorgos Soufliàs annunciò l’apertura di un dialogo nazionale sull’istruzione «ripartendo da zero».

 

La copertura della polizia

Διαδήλωση στην Αθήνα μετά την δολοφονία Τεμπονέρα- Αθήνα 10/1/1991

Atene 10/1/1991 | Tassos Kostòpoulos

Si tentò immediatamente di insabbiare quanto realmente accaduto, con la costruzione di una versione accomodante dei fatti. Nel primo pomeriggio del 9/1/1991 venne diffuso un comunicato particolareggiato della Direzione di Pubblica Sicurezza dell’Acaia, in cui la responsabilità principale per l’omicidio veniva attribuita alle vittime:

«Alle ore 21.00 dell’8 gennaio 1991, un gruppo di circa 30 persone ha fatto irruzione nel cortile delle scuole sopra citate dopo aver sfondato i cancelli e, senza fare uso di violenza, ha obbligato i circa 30 occupanti ad uscire nel cortile della scuola. I nuovi occupanti, che avevano come unico scopo il ripristino del normale svolgimento delle lezioni, sono rimasti padroni dello spazio. Gli studenti sgomberati hanno diffuso telefonicamente la notizia agli altri giovani occupanti. Dalle ore 22.20 circa alcuni cittadini hanno iniziato a radunarsi davanti la scuola, raggiungendo il numero di circa 250 individui, tra i quali anche il sindaco di Patrasso Karàvolas.

Il sindaco, dopo un incontro con i nuovi occupanti, non è riuscito a farli allontanare, ed ha comunicato la notizia alle persone radunate all’esterno della scuola, che hanno allora preso la decisione di fare irruzione in massa per sgomberare il luogo.

Durante gli scontri verificatisi circa alle 22.45 sono avvenuti reciproci lanci di diversi oggetti (pietre, pezzi di legno e di ferro, ecc.) che hanno portato al grave ferimento del professor Temboneras Nikòlaos, di anni 38, ora ricoverato nel reparto terapia intensiva de ll’ospedale universitario di Rio, e il leggero ferimento di:

  1. A) Tsoukalàs Christos, professore di Liceo, anni 34
  2. B) Ghiotis Konstantinos, anni 31, impiegato pubblico e
  3. C) Vassiliàs Nikolaos, anni 23, muratore

i quali, dopo i primi soccorsi, hanno fatto ritorno ai rispettivi domicili.

In base all’ inchiesta successiva condotta dal viceprocuratore Mytis, della Procura di Patrasso, sono presumibilmente coinvolti:

  1. A) Kalambokas Ioannis, anni 30, impiegato bancario
  2. B) Marangòs Alexios, anni 37, e
  3. C) Spinos (non identificato)

Il procuratore ha disposto l’arresto degli individui sopra menzionati, sebbene al momento il loro arresto non sia stato possibile, poiché assenti dai rispettivi domicili e sono tuttora ricercati».

Almeno tre punti del comunicato destano perplessità:

  1. la conoscenza delle generalità degli autori (ancora liberi) dello sgombero dell’occupazione;
  2. l’affermazione secondo cui le persone radunate fuori dalla scuola abbiano deciso di compiere un’«irruzione in massa» e
  3. il lancio «reciproco» di oggetti, mentre tutti i feriti appartengono a un solo schieramento – quello maggiormente numeroso.

La collaborazione del gruppo di Kalambokas con la polizia è un capitolo ancora oscuro. La cosa certa è che Kalambokas ha goduto di una certa immunità per le sue azioni violente, e che Marangòs visitava regolarmente la Direzione di Polizia, di fronte al cui edificio esercitava occasionalmente il mestiere di venditore ambulante.

Anche la denuncia del presidente della locale Unione dei Poliziotti, ex membro dei servizi di sicurezza, secondo cui Marangòs era un informatore stipendiato dei servizi («Τα Νέα», 12/1/1991, pag. 17) non è mai stata chiarita.

Per quanto riguarda l’assenza della polizia dal luogo dell’omicidio nonostante il centro operativo avesse un quadro molto chiaro della situazione, è disarmante la deposizione del prefetto agli Atti della commissione d’inchiesta (16/7/1991, pag. 129):

«La polizia aveva ricevuto dal Ministro competente l’ordine di astenersi da qualsiasi operazione negli edifici scolastici durante il periodo delle occupazioni. La sua presenza è stata discreta e a distanza. E questo perché altrimenti alcuni avrebbero provato a collegare la presenza della polizia alle azioni che miravano a sgomberare le occupazioni».

L’«inchiesta» parlamentare

Διαδήλωση μετά την δολοφονία Τεμπονέρα- Αθήνα 10/1/1991

Atene 10/1/1991 | Tassos Kostòpoulos

Un secondo campo di confronto fu la commissione d’inchiesta incaricata di indagare sulla questione all’unanimità dal Parlamento (4/3/1991). Durante la discussione gli oratori di N.D. avevano duramente contestato la relativa istanza dell’opposizione, con argomenti che andavano dall’agnosticismo all’esplicita difesa degli oppositori alle occupazioni.

«Il professor Temboneras è rimasto vittima degli scontri. E durante uno scontro dubito che si possa capire chi stia picchiando chi», assicurò ad esempio l’onorevole Spilios Spiliotòpoulos, parlamentare dell’Acaia, mentre Apòstolos Andreoulakos sostenne che «la legalità» era stata «ripristinata» dal gruppo di Kalambokas, e che Temboneras  fu ucciso «da una folla inferocita di sostenitori degli occupanti» e, di conseguenza, le responsabilità penali andavano attribuite ai compagni della vittima. Alla fine venne istituita la commissione d’inchiesta, dopo l’intervento del primo ministro in persona.

Come si evince dagli atti ufficiali, durante i lavori della commissione il presidente Epaminondas Zafiròpoulos non fu per nulla imparziale: spesso dettava le risposte ai funzionari di sicurezza, o minacciava e provava a confondere i testimoni «nemici». Un simile atteggiamento fu tenuto anche da alcuni onorevoli parlamentari, come Petros Tatoulis.

Riportiamo la risposta stizzita di Zafiròpoulos che commentò le dichiarazioni contrastanti della polizia e del presidente dell’ELME [Federazione Ellenica degli Insegnanti dell’Istruzione Secondaria]: «adesso ci mettiamo a paragonare le asserzioni della signora Antoneli con quelle della polizia? La polizia è un ente statale e la signora Antoneli è una persona. Tutti gli Stati hanno una polizia» (16/7/1991, σ. 145).

E pensate che la commissione era stata formata proprio per fare chiarezza sulle responsabilità dei servizi di sicurezza! Dunque non desta alcuna sorpresa il fatto che la commissione non sia giunta a un verdetto unanime. I parlamentari dell’opposizione diffusero le loro conclusioni, in cui parlavano di «brutale assassinio politico», la cui responsabilità era «non solo degli autori materiali ma anche dei mandanti morail, tra i quali possono essere annoverati il prefetto Tagaris e i dirigenti di polizia Badas e Tsaousis» («Ποντίκι», 18/6/1992), mentre la maggioranza governativa archiviò il caso.

Gli atti di due delle 23 udienze (la 19° e la 20° ) non sono presenti nel fascicolo del Parlamento. Subito dopo la fine dei lavori il presidente della commissione diventò ufficialmente l’avvocato difensore di Kalambokas in tribunale (20/7/1992).

Dopo l’omicidio Temboneras

La battaglia legale

Il tribunale costituisce il terzo ed ultimo campo di confronto.

I ricercati si costituirono spontaneamente e vennero incarcerati preventivamente. Il filo degli eventi può essere riassunto in cinque “tappe”:

– nel maggio 1991 viene scarcerato Marangòs, nonostante il presidente del consiglio degli studenti, testimone oculare, lo vide uscire dalla scuola con un piede di porco insanguinato (atti dell’inchiesta, 16/10/91, pag. 13-4);

– nel marzo del 1992 un verdetto sancì la sostituzione di sindaco e prefetto, contro cui erano state presentate denunce per complicità morale da alcuni gruppi di avvocati di Patrasso. Con il medesimo verdetto Kalambokas venne rinviato a giudizio per omicidio, Marangòs e Spinos per lesioni personali e altri 10 membri dell’ONNED per concorso e complicità. La stessa accusa venne però rivolta anche a 6 appartenenti allo schieramento degli occupanti, tra cui anche 4 testimoni oculari dell’omicidio!

il processo di primo grado iniziò a Volos il 22/6/1992 e si concluse il 9/3/1993 con la condanna di Kalambokas all’ergastolo per omicidio volontario senza attenuanti, di Marangòs e Spinos a tre mesi di carcere e con l’assoluzione degli altri imputati. Sul nucleo duro di N.D. la decisione fu un vero shock: «siamo forse governati dal PASOK? , si chiedeva il giorno successivo Dimitris Rizos sul giornale «Ελεύθερο Τύπο». «Perché in un processo così politicizzato la Società non ha fatto nulla affinché a emettere il verdetto fossero giudici che non si fanno influenzare da falsi testimoni? Che non si piegano alla marmaglia? Neanche questo è in grado di garantire il potere, ormai vacillante?»;

– il «potere vacillante» infine decise di rimediare alle questioni in sospeso prima delle elezioni del 1994;

Il 16/6/1993 venne stabilita un’udienza (per il 7/12/1993) e, successivamente, il personale del tribunale di Larissa venne trasferito in massa, perché la composizione del nuovo corpo fosse stabilita non per sorteggio, ma dal nuovo presidente, noto per la sua partecipazione a sentenze favorevoli per il governo («Τα Νέα», 15/11/1993).

Ma il governo Mitsotakis cadde il 9/9/1993, il nuovo governo Papandreou annullò i trasferimenti e Kalambokas fu di nuovo condannato (19/5/1994) a 17 anni – con l’attenuante di non avere precedenti penali.

La novità fondamentale del processo di secondo grado furono le accuse tra ex camerati. Kalambokas rivelò che il vero assassino di Temboneras era Marangòs, dichiarazione confermata anche da Spinos e da Achilleas Prionàs (uno degli accusati).

Marangòs il 22/2 dichiarò che probabilmente l’assassino era Prionàs, denunciò Spinos e ottenne la sua condanna per calunnie. D’altronde non correva alcun rischio, visto che era stato irrevocabilmente assolto dal verdetto.

– nel 1996 l’Aeropago stabilì che il tribunale doveva riesaminare il caso prendendo in considerazione l’attenuante della «tensione della situazione».

Il caso venne di nuovo sottoposto a processo (1-15/10/1996), il tribunale fu costretto dall’Aeropago a una revisione della pena, che venne ridotta a…16 anni e mezzo (22/1/1998). Poco più tardi Kalambokas venne scarcerato, avendo scontato i 2/5 della pena. Da allora, molta acqua è passata sotto i ponti.

Kalambokas è diventato dirigente di una filiale della Banca Nazionale a Volos. Vassilis Kontoghiannòpoulos è stato eletto nel 2000 parlamentare del PASOK e nel 2003 è stato Sottosegretario alla Sanità durante il governo Simitis. Nikos Nikolòpoulos, che aveva giustificato le violenze della squadraccia di Kalambokas parlando di «costumi locali» (atti dell’inchiesta, 15/5/1991, pag.82), ha appoggiato il governo di Alexis Tsipras – il più famoso degli occupanti del 1991 – come parlamentare di AN.EL. Qualcuno vuole forse mettere in dubbio il successo della pacificazione nazionale?

Patria – Religione – Polizia

Tra gli altri documenti di quel periodo, sul sito web dell’Istituto Konstantinos Mitsotakis sono stati caricati due telegrammi di alcuni cittadini che, all’indomani dell’omicidio Temboneras, invitavano il governo a non cedere al partitismo e all’anarchia.

Il primo è stato scritto da un ex prefetto, autore del più dettagliato testo pubblicato sino ad oggi sul «terrore rosso» nel Peloponneso durante l’occupazione, mentre il secondo è di una coppia di genitori nazionalisti. Entrambi i telegrammi sono molto eloquenti per comprendere il miscuglio di autoritarismo, nazionalismo e religione di cui era intrisa in quel periodo l’ideologia della “liberale” N.D.:

«Kyparissia, 11/1

Al Presidente del Consiglio

Al ministro dell’Istruzione

Al ministro della Giustizia

Al ministro dell’Ordine Pubblico, Atene.

Popolo greco attende protezione in tutti i modi di istruzione ellenica, società ellenica e democrazia ellenica dai piani di anarchici guidati da organi partitici antidemocratici e antieducativi. Kosmàs Antonòpoulos, ex prefetto».

«Spettabile Ministro, siamo genitori di studenti. Concedeteci il diritto di esprimere la nostra approvazione per tutte le misure, senza eccezione alcuna, che voi e altri saggi collaboratori avete ideato per il bene dell’amatissima patria e della vera educazione dei nostri giovani. Prendete tutte le misure in vostro potere per ricondurre alla ragione le masse paranoiche e disinformate che insorgono contro i vostri santissimi progetti per il rinnovamento spirtituale e sociale della nostra nazione, e soprattutto rimanete al vostro posto, lì dove il fato vi ha posto quando i tempi diventarono maturi.

Non è possibile che la gioventù di oggi, già da alcuni anni, si occupi solo di sigarette, coca, whiskey, caffetterie e discoteche, anziché sforzarsi di portare giovamento a se stessa e alla nostra società.

Petros e Maria Kalogheropoulou

Dyaleon 21 – Atene 11854»

Il nuovo Cristo e i vasi comunicanti

Ο Μιχάλης Αρβανίτης ομιλητής σε εκδήλωση της Χρυσής Αυγής

Michalis Arvanitis sul palco di Alba Dorata | Eurokinissi

L’unico libro sul caso Temboneras è stato scritto da un membro di…Alba Dorata: il parlamentare dell’Acaia Michalis Arvanitis, avvocato di Kalambokas per i primi diciotto mesi dopo l’omicidio e di Alekos Marangòs fino al giugno del 1991.

Con l’accattivante titolo «Chi uccise Nikos Temboneras», l’opera è stata pubblicata nel 2002 dalla casa editrice Pelasgòs di Ioannis Ghiannàkena (allora appartenente al Fronte Ellenico di Voridis e poi del LAOS), e costituisce un maldestro tentativo di discolpare il primo cliente dello scrittore, attribuendo le responsabilità dell’omicidio al secondo.

Il libro è stato presentato ufficialmente nel dodicesimo anniversario dell’omicidio (8/1/2003) da Makis Voridis e dai giornalisti Christos Pasalaris e Ghiannis Voùltepsis.

Quest’ultimo, responsabile dell’Ufficio Stampa di N.D. tra il 1984 e il 1993, adotta esplicitamente nelle sue memorie il punto di vista dell’«amico Arvanitis» come unica narrazione dei fatti degna di nota («Δέκα σκληρά χρόνια στη Νέα Δημοκρατία», Atene 2005, pag. 398-401).

Το βιβλίο του Μιχάλη Αρβανίτη για την δολοφονία Τεμπονέρα

Per quanti hanno seguito il caso attraverso i giornali, in particolare le accuse reciproche tra ex camerati durante il processo di secondo grado, il libro di Arvanitis non offre nulla di nuovo.

Con l’eccezione, forse, della rivelazione secondo cui l’autore fu sostituito – come avvocato di Kalambokas – da onorevoli parlamentari di N.D., perché lui aveva già assunto come collaboratore l’avvocato ateniese «nazionalista» K. P(levris?), che aveva «le capacità e le competenze per provvedere efficacemente alle necessità del caso».

Con quanto è venuto alla luce, il paragone di Kalambokas e Cristo (pag. 14) desta solo sorrisi ironici, così come l’insistenza dell’autore nel sostenere che la squadraccia dell’ONNED non voleva sgomberare la scuola, ma era uscita in strada per un semplice attacchinaggio ed era stata «intrappolata» lì dalla «folla infervorata» degli occupanti e dei loro sostenitori (pag. 37 – 47).

Va presa poco sul serio anche la tesi fondamentale secondo cui il caso non fu altro che una cospirazione per sabotare il potente Kalambokas, sabotaggio a cui partecipò l’intera «catena di individui» che «progettò, organizzò e realizzò non solo il delitto di quella sera, ma anche una serie di altri delitti contro la Giustizia, la Verità e la Dignità Umana, per scopi politici e allo stesso tempo per sfogare le loro malate passioni politiche» (pag. 39–40).

Tesi che, tra le altre cose, è in evidente contrasto con quanto sostiene oggi il partito di Michalis Arvanitis: provando a relativizzare i propri delitti, Alba Dorata in realtà ci ricorda sempre di più negli ultimi anni il vigliacco omicidio del professore di sinistra da parte delle «squadracce dell’ONNED».

Al contrario, l’opera nel suo complesso delinea “dal di dentro” la mentalità politica e ideologica che ha portato al delitto Temboneras e che aveva grande successo allora nello schieramento liberale, mentre ora è stata adottata da Alba Dorata.

L’avvocato di Kalambokas si straccia le vesti perché «gli ufficiali ellenici, ostaggi del passato dittatoriale che i partiti vogliono tenere vivo, non osano spaccare i denti ai politici dittatori», mentre «la compagnia di compagni trebbia le messi di qualsiasi campo si trovi davanti» (pag. 34).

Chiama la presidente dell’ELME la «compagna pesantona», il presidente del consiglio degli studenti ferito «piccola spia» (pag. 43), i testimoni dell’accusa «marmaglia» (pag. 58), ecc., e dichiara amaramente che «il magistrato non ha sicuramente dimostrato un coraggio da leone, quando sarebbe bastato un ruggito per sparpagliare quelle iene affamate, quella marmaglia di compagni» (pag. 110).

Mitsotakis viene definito «Pilato Cretese», poiché consegnò il nuovo Gesù alla «folla di Ebrei» (pag. 14), mentre i giudici vengono paragonati ai «sacerdoti ebrei, accecati dal fanatismo e dal dogmatismo» (pag. 13).

Nemmeno Temboneras si salva dagli strali dell’avvocato albadorato, che dice di lui: «un sedicente caporione, specializzato nella repressione violenta delle manifestazioni contro gli scioperi ».

Insomma, Kalambokas e la sua comitiva erano semplicemente andati a fare un attacchinaggio…

di Tassos Kostòpoulos (10/01/2016)

Fonte: efsyn.gr

Traduzione di AteneCalling.

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La polizia contro Pasolini, Pasolini contro la polizia

Pier Paolo Pasolini nella sua casa a Roma, nel 1962. (Marisa Rastellini, Mondadori Portfolio)

  • 29 Ott 2015 11.01

1. “Quel bastardo è morto”

Elisei Marcello, di anni 19, muore alle tre di notte, solo come un cane alla catena in una casa abbandonata. Muore dopo un giorno e una notte di urla, suppliche, gemiti, lasciato senza cibo né acqua, legato per i polsi e le caviglie a un tavolaccio in una cella del carcere di Regina Coeli. Ha la broncopolmonite, è in stato di shock, la cella è gelida. I legacci bloccano la circolazione del sangue. Da una cella vicina un altro detenuto, il neofascista Paolo Signorelli, sente il ragazzo gridare a lungo, poi rantolare, invocare acqua, infine il silenzio. La mattina, chiede lumi su cosa sia accaduto. “Quel bastardo è morto”, taglia corto un agente di custodia. È il 29 novembre 1959.

Marcello Elisei stava scontando una condanna a quattro anni e sette mesi per aver rubato gomme d’automobile. Aveva dato segni di disagio psichico. Segni chiarissimi: aveva ingoiato chiodi, poi rimossi con una lavanda gastrica; il giorno prima aveva battuto più volte la testa contro un muro, cercando di uccidersi. I medici del carcere lo avevano accusato di “simulare”. Le guardie lo avevano trascinato via con la forza e legato al tavolaccio.

Il 15 dicembre si dimette il direttore del carcere Carmelo Scalia, ufficialmente per motivi di salute. A parte questo, per la morte di Elisei non pagherà nessuno. Inchieste e processi scagioneranno tutti gli indagati.

Leggendo della vicenda, Pier Paolo Pasolini rimane sconvolto. “Non so come avrei scritto un articolo su questa orribile morte”, dichiara alla rivista Noi donne del 27 dicembre 1959. “Ma certamente è un episodio che inserirò in uno dei racconti che ho in mente, o forse anche nel romanzo Il rio della grana”. Un romanzo rimasto incompiuto, poi incluso tra i materiali della raccolta Alì dagli occhi azzurri (1965). Se dovessi scrivere un’inchiesta, aggiunge, “sarei assolutamente spietato con i responsabili: dai secondini al direttore del carcere. E non mancherei di implicare le responsabilità dei governanti”.

Oggi è difficile, quasi impossibile cogliere la portata della persecuzione subita ogni giorno da Pasolini in 15 anni

L’agonia e la morte in solitudine di Marcello Elisei scaveranno a lungo dentro Pasolini, fino a ispirare il finale di Mamma Roma (1962). Ma nel 1959 Pasolini non è ancora un regista. Ha 37 anni, è autore di raccolte poetiche, sceneggiature e due romanzi che hanno fatto scalpore: Ragazzi di vita e Una vita violenta. Ha già subìto fermi di polizia, denunce, processi. Per censurare Ragazzi di vita si è mossa direttamente la presidenza del consiglio dei ministri. Eppure, a paragone dello stalking fascista, del mobbing poliziesco-giudiziario e del linciaggio mediatico che l’uomo sta per subire, questa è ancora poca roba.

Nel libro collettaneo Pasolini: cronaca giudiziaria, persecuzione, morte (Garzanti 1977) Stefano Rodotà riassume la questione in una frase: “Pasolini rimane ininterrottamente nelle mani dei giudici dal 1960 al 1975”. E anche oltre, va precisato. Post mortem. Rodotà parla di “un solo processo”, lunga catena di istruttorie e udienze che trascinò Pasolini decine e decine di volte nelle aule di tribunale, perfino più volte al giorno, tra umiliazioni e vessazioni, mentre fuori la stampa lo insultava, lo irrideva, lo linciava.

2. Il giornalismo libero

“Siamo ovviamente d’accordo contro l’istituzione della polizia”.

L’uomo che nel giugno 1968 scrive questo verso ha già sulle spalle quattro fermi di polizia, 16 denunce e undici processi come imputato, oltre a tre aggressioni da parte di neofascisti (tutte archiviate dalla magistratura) e una perquisizione del proprio appartamento da parte della polizia in cerca di armi da fuoco. “Appena avrò un po’ di tempo”, scrive in un appunto inedito, “pubblicherò un libro bianco di una dozzina di sentenze pronunciate contro di me: senza commento. Sarà uno dei libri più comici della pubblicistica italiana. Ma ora le cose non sono più comiche. Sono tragiche, perché non riguardano più la persecuzione di un capro espiatorio […]: ora si tratta di una vasta, profonda calcolata opera di repressione, a cui la parte più retriva della Magistratura si è dedicata con zelo…”. E ancora: “Ho speso circa quindici milioni in avvocati, per difendermi in processi assurdi e puramente politici”.

Oggi è difficile, quasi impossibile cogliere la portata della persecuzione subita ogni giorno da Pasolini in 15 anni. La mostra Una strategia del linciaggio e delle mistificazioni, inaugurata nel 2005 e da poco riallestita alla sala Borsa di Bologna, restituisce appena tenui riverberi. Non può che essere così, per capire bisognerebbe calarsi nell’abisso come ha fatto Franco Grattarola, autore di Pasolini. Una vita violentata (Coniglio 2005) – e ripercorrere la sfilza dei pestaggi a mezzo stampa. Toccare con le dita un’omofobia da sporcarsi solo a immaginarla. Soppesare l’intero corpus fradicio di articoli, denso come un grande bolo di sterco e vermi.

Tra i quotidiani si fa notare soprattutto Il Tempo, ma è la stampa periodica di destra a tormentare Pasolini in maniera teppistica e ininterrotta. Rotocalchi come Lo Specchio e Il Borghese si dedicano alla missione con entusiasmo, con reporter e corsivisti distaccati a tallonare la vittima, a provocarla, a colpirla in ogni occasione, con titoli come “Il c..o batte a sinistra” e lo stile inconfondibile oggi ereditato da Libero – per citare una sola testata.

Sulle pagine del Borghese si distinguono nel killeraggio il critico musicale Piero Buscaroli e il futuro autore e regista televisivo Pier Francesco Pingitore, fondatore del Bagaglino. Altre invettive giungono dallo scrittore Giovannino Guareschi e, in un’occasione, dal critico cinematografico Gian Luigi Rondi, ma la regina dell’antipasolinismo è senza dubbio Gianna Preda, pseudonimo di Maria Giovanna Pazzagli Predassi (1922-1981), poi cofondatrice – indovinate – del Bagaglino.

Celebrata ancora oggi su un blog di destra come “la signora del giornalismo libero”, “fuori dal coro”, “mai moralista né oscurantista” e via ritinteggiando, Preda coltiva nei confronti di Pasolini un’autentica ossessione omofobica, sessuofobica e – ça va sans dire – ideologica. Sovente si riferisce allo scrittore/regista chiamandolo “la Pasolina”. Per gli omosessuali, descritti come artefici di loschi complotti, conia il termine “pasolinidi”. Va avanti per anni – proseguendo anche dopo la morte di PPP – a scrivere cose del genere:

[Pasolini] ha potuto, con immutata disinvoltura, continuare a confondere le questioni del bassoschiena con quelle dell’antifascismo […] Una segreta alleanza […] fa dei ‘capovolti’ il partito più numeroso e saldo d’Italia; un partito che, attraverso i suoi illustri esponenti, finisce sempre col far capo o col rendere servizi al Pci […] Il ‘capovolto’ sente, a naso, quel che gli conviene e dove deve appoggiarsi, se non vuole rendere conto all’opinione pubblica di quello che essa giudica ancora un vizio […] Così nasce un nuovo mito… [A celebrarlo] pensano poi i giornali di sinistra, che riescono a camuffare da eroismo la paura segreta di questo o quel ‘capovolto’ clandestino. Luminose saranno le sorti dei pasolinidi d’Italia. Già si avvertono i segni delle fortune di coloro che hanno scoperto troppo tardi il vantaggio d’esser pasolinidi […] Se avremo, dunque, nuovi scontri con i marxisti […] prima di pensare a coprirci il petto, preoccupiamoci di coprirci le terga…

Il “metodo Boffo” giunge da lontano. E anche i complottismi sulla malvagia “teoria del gender”.

L’equivalente di Gianna Preda sullo Specchio è lo scrittore ex repubblichino Giose Rimanelli, celato dietro il nom de plume A. G. Solari. Com’è ovvio, attacchi forsennati a Pasolini giungono anche dal Secolo d’Italia, ma un lavorìo più subdolo e influente di character assassination ha luogo sulla stampa popolare nazionalconservatrice, quella di riviste come Oggi e Gente.

Si va molto più in là, purtroppo. Pasolini sembra essere la cartina di tornasole del peggio. Nel 1968 il regista Sergio Leone, interpellato dal Borghese, sente l’urgenza di commentare così le polemiche sul film Teorema: “Sono convinto che tanti film sull’omosessualità hanno fatto diventare del tutto normale e legittima questa forma di rapporto anormale”. Perfino su Il manifesto si trovano battute omofobe: “La tesi [di Pasolini] ridotta all’osso (sacro) è molto chiara…” (21 gennaio 1975). Come ha scritto Tullio De Mauro:

I fiotti neri finiscono con l’inquinare anche acque relativamente lontane. Il linguaggio verbale non è fatto solo di ciò che diciamo e udiamo. È fatto anche di ciò che, nella memoria comune, circonda e alona il detto e l’udito. Il non-detto pesa accanto al detto, ne orienta l’apprezzamento e intendimento. Chi legge nell’Espresso del 18 febbraio 1968 il pezzo Pasolini benedice i nudisti con foto di giovanotto ciociaro nudo a cavallo di violoncello, è coinvolto dagli effetti del fiotto nero d’origine fascista, gli piaccia o no e lo volessero o no i redattori del settimanale radical-socialista.

È una vasta campagna a favorire, o meglio, istigare non solo le azioni poliziesche e giudiziarie, ma anche le aggressioni fisiche da parte di fascisti. Fascisti mai toccati dalla magistratura, che poi finiranno in diverse inchieste sulla strategia della tensione, come Serafino Di Luia, Flavio Campo e Paolo Pecoriello.

Il 13 febbraio 1964, davanti alla Casa dello studente di Roma, una Fiat 600 cerca di investire un gruppo di amici di Pasolini che difendevano quest’ultimo da un agguato fascista. A guidare l’auto è Adriano Romualdi, discepolo di Julius Evola e figlio di Pino, deputato e presidente del Movimento sociale italiano (Msi). L’episodio è riportato con dettagli e fonti in tutte le biografie di Pasolini, mentre è assente dalla voce che Wikipedia dedica a Romualdi.

Pasolini non querela, né per le diffamazioni a mezzo stampa né per le aggressioni fisiche. È una scelta meditata: non vuole abbassarsi al livello dei suoi persecutori. Inoltre, se querelasse non farebbe che aumentare la già enorme quantità di tempo che trascorre in tribunale.

3. Come mai?

Come mai una simile persecuzione? Perché era omosessuale? Tra gli artisti e gli scrittori non era certo l’unico. Perché era omosessuale e comunista? Sì, ma nemmeno questo basta. Perché era omosessuale, comunista e si esprimeva senza alcuna reticenza contro la borghesia, il governo, la Democrazia cristiana, i fascisti, la magistratura e la polizia? Sì, questo basta. Sarebbe bastato ovunque, figurarsi in Italia e in quell’Italia.

Pier Paolo Pasolini a Roma, nel 1967. - Franco Vitale, Reporters Associati & Archivi/Mondadori Portfolio
Pier Paolo Pasolini a Roma, nel 1967. (Franco Vitale, Reporters Associati & Archivi/Mondadori Portfolio)

Pasolini, ha scritto Alberto Moravia, scandalizzava quella “borghesia italiana che in quattro secoli ha creato i due più importanti movimenti conservatori d’Europa, cioè la controriforma e il fascismo”.

La borghesia italiana si è vendicata e, in modi più obliqui, continua a vendicarsi. La fandonia di “Pasolini che stava con la polizia”, ripetuta dai fascisti, dai perbenisti e dai falsi anticonformisti di oggi, prosegue la révanche dei fascisti, dei perbenisti e dei falsi anticonformisti di ieri.

Anche l’apologia postuma di un Pasolini semplificato, appiattito, lucidato e ridotto a santino fa parte della révanche.

4. “Non potranno mentire in eterno”

Nel marzo 1960 Fernando Tambroni, già ministro dell’interno e poi del bilancio, diventa capo di un governo monocolore Dc. L’esecutivo si forma grazie ai voti dei parlamentari missini. Appena quindici anni dopo la liberazione, una forza neofascista si avvicina all’area di governo. Proteste e disordini esplodono in tutto il paese. Il 30 giugno, decine di migliaia di manifestanti si scontrano con la polizia a Genova, città operaia e partigiana scelta dall’Msi per il suo congresso. Il 7 luglio, a Reggio Emilia, polizia e carabinieri sparano su una manifestazione sindacale uccidendo cinque persone. Il 19 luglio, Tambroni si dimette.

La rivista Vie nuove – su cui Pasolini tiene una rubrica dove dialoga con i lettori – produce all’istante un disco sull’eccidio di Reggio Emilia. Si tratta della registrazione della sparatoria. Su Vie nuove, anno XV, numero 33, del 20 agosto 1960, Pasolini commenta: “Quello che colpisce […] è la freddezza organizzata e meccanica con cui la polizia ha sparato: i colpi si succedono ai colpi, le raffiche alle raffiche, senza che niente le possa arrestare, come un gioco, quasi con la voluttà distratta di un divertimento”.

Sono i giorni del processo al criminale nazista Eichmann, e Pasolini collega le due storie:

Egli uccideva così, con questo distacco freddo e preveduto, con questa dissociazione folle. È da prevedere che le giustificazioni dei poliziotti […] saranno del tutto simili a quelle già ben note… Anch’essi parleranno di ordini, di dovere ecc. […] La polizia italiana… si configura quasi come l’esercito di una potenza straniera, installata nel cuore dell’Italia. Come combattere contro questa potenza e questo suo esercito? […] Noi abbiamo un potente mezzo di lotta: la forza della ragione, con la coerenza e la resistenza fisica e morale che essa dà. È con essa che dobbiamo lottare, senza perdere un colpo, senza desistere mai. I nostri avversari sono, criticamente e razionalmente, tanto deboli quanto sono poliziescamente forti: non potranno mentire in eterno.

Nel 1961 Pasolini gira il suo primo film, Accattone. In un paese dove si legge pochissimo, il cinema è potenzialmente più pericoloso della letteratura.
La riprovazione borghese, la censura e la repressione scatenate dai film di Pasolini (tutti, nessuno escluso) saranno incommensurabilmente maggiori di quelle scatenate dai libri e dagli articoli. Se poi in un film riemerge la storia di come morì Marcello Elisei…

Nel 1962, il finale di Mamma Roma – film che scatena violenze fasciste ed è subito proibito dalla censura – mostra il giovane Ettore che muore in prigione, gemente, febbricitante e invocante la mamma, legato in mutande e canottiera a un letto di contenzione. “Aiuto, aiuto, perché mi avete messo qua?… Non lo faccio più, lo giuro, non lo faccio più… So’ bono, adesso… Mamma, sto a mori’ de freddo… Sto male… Mamma!… Mamma, sto a mori’… È tutta notte che sto qua… Nun je ‘a faccio più…”.

Il 31 agosto 1962 il tenente colonnello Giulio Fabi, comandante del gruppo carabinieri di Venezia, denuncia Mamma Roma per oscenità e si premura di aggiungere: “Si fa presente che l’autore e regista Pasolini e uno degli interpreti, il Citti, dovrebbero avere precedenti penali presso il tribunale di Roma”. Tra coloro che seguono e apprezzano Pasolini circola l’ipotesi che a irritare l’arma sia stato il finale del film.

Da qui in avanti, Pasolini è investito da un’onda d’urto censoria e repressiva che non ha corrispettivi nella carriera di altri artisti italiani.

5. “Distruggere il Potere”

Ecco il senso dell’avverbio “ovviamente”, usato da Pasolini per rafforzare una premessa che ritiene importante. È del tutto ovvio che PPP sia contro l’istituzione della polizia.

Ancora più ovvio il verso che segue: “Ma provate a prendervela con la magistratura, e vedrete!”. Quella magistratura che tanto ha perseguitato, continua e continuerà a perseguitare Pasolini, anche dopo la morte.

È a partire da questa posizione che l’autore della poesia Il Pci ai giovani affida a un mucchio di “brutti versi” – definizione sua – una riflessione confusa, che deraglia subito e diventa uno sfogo, un’invettiva antiborghese. Come scriverà poco dopo: “Sono troppo traumatizzato dalla borghesia, e il mio odio verso di lei è ormai patologico”.

Ma per quanto l’invettiva possa essere brutta sul piano formale e carente di focus nei contenuti, dopo averla letta tutta (tutta intera, non solo i 4-5 versi estrapolati e branditi come randelli da questo o quello scagnozzo) è difficile concludere che “Pasolini stava con la polizia”.

Pasolini descrive i poliziotti che si sono scontrati con gli studenti a Valle Giulia come “umiliati dalla perdita della qualità di uomini / per quella di poliziotti”. L’istituzione della polizia disumanizza. Per questo gli studenti – “quei mille o duemila giovani miei fratelli / che operano a Trento o a Torino, / a Pavia o a Pisa, / a Firenze e un po’ anche a Roma” – sono comunque “dalla parte della ragione” e la polizia “dalla parte del torto”. Se non si capisce questo, non si coglie l’intento paradossale di Pasolini. Il paradosso gli serve a precisare che la vera rivoluzione non la faranno mai gli studenti, perché sono figli di borghesi. Al massimo potranno fare una “guerra civile”, in questo caso generazionale, in seno alla borghesia. La rivoluzione, dice Pasolini, possono farla solo gli operai, ai quali la grande stampa borghese non leccherà mai il culo, come invece – nell’iperbole pasoliniana – sta facendo con gli studenti. Sono gli operai il vero pericolo per il potere capitalistico, dunque saranno loro a subire la repressione poliziesca più pesante: “La polizia si limiterà a prendere un po’ di botte dentro una fabbrica occupata?”, si chiede retoricamente l’autore. Quindi, è proprio là che dovranno trovarsi gli studenti, se vogliono essere rivoluzionari: tra gli operai. “I Maestri si fanno occupando le Fabbriche / non le università”. Ma soprattutto, gli studenti devono riprendere in mano “l’unico strumento davvero pericoloso / per combattere contro i [loro] padri: / ossia il comunismo”. Pasolini li invita a impadronirsi del Pci, partito che ha “l’obiettivo teorico” di “distruggere il Potere” (quell’estinzione dello stato che Marx pone a obiettivo finale della lotta di classe e del socialismo) ma è finito in indegne mani, le mani di “signori in modesto doppiopetto”, “borghesi coetanei dei vostri stupidi padri”. Occupare le federazioni del Pci, dice Pasolini, aiuterebbe il partito a “distruggere, intanto, ciò che di borghese ha in sé”.

Questa esortazione occupa tutta la seconda metà del testo, ma – guarda caso – non viene mai citata.

Lo so, ti gira la testa. Ti avevano detto che Il Pci ai giovani parlava bene della repressione poliziesca. Hai sentito versi di questa poesia citati da pubblici ministeri mentre chiedevano pene pesantissime per i No Tav. Li hai uditi dalle labbra di Belpietro. Li hai letti nei comunicati del Sap e del Coisp…

6. Un infame mantra

Il Pci ai giovani fu attaccata subito, e non solo dagli studenti che criticava. Franco Fortini riempì Pasolini di insulti. Sotto il cumulo di quegli insulti, le critiche erano giuste. Pasolini provò a spiegarsi, cercando di non rimangiarsi il paradosso. Quei versi erano “brutti” perché non erano bastati “da soli a esprimere ciò che l’autore [voleva] esprimere”. Erano versi “’sdoppiati’, cioè ironici, autoironici. Tutto è detto tra virgolette”. Parlò di “boutade”, di “captatio malevolantiae”, ma non arretrò mai dal punto che aveva scelto e deciso di difendere: l’invito agli studenti a “operare l’ultima scelta ancora possibile […] in favore di ciò che non è borghese”.

Ma ormai la frittata era fatta e sarebbe rimasta a fumigare in padella per i quarant’anni e passa a venire, per la gioia di “postfascisti”, ciellini, sindacati gialli, teste da talk-show, scrittori tuttologi esternazionisti, commentatori pavloviani.

Ogni volta che si manifesta il conflitto sociale e la polizia interviene a reprimerlo riparte, come lo ha chiamato un cattivo maestro, “l’infame mantra” su Pasolini che stava con la polizia e i manganelli. Con quel mantra si è giustificato ogni ricorso alla violenza da parte delle forze dell’ordine. Bastonate, candelotti sparati in faccia, gas tossici, l’uccisione di Carlo Giuliani, l’irruzione alla scuola Diaz di Genova, la solidarietà di corpo agli assassini di Federico Aldrovandi eccetera. Periodicamente, frasi decontestualizzate sui manifestanti “figli di papà” e i poliziotti proletari sono usate contro precari, sfrattati o popolazioni che si oppongono alla devastazione del proprio territorio.

Ho però il sospetto che il mantra si sia imposto solo a partire dagli anni novanta, insieme a certe “appropriazioni” del pensiero di Pasolini. Sicuramente, nel periodo 1968-75 nessun detentore del potere, nessun membro del blocco d’ordine lesse quei versi come davvero apologetici della repressione. Basti vedere come proseguirono i rapporti tra Pasolini, la polizia e la magistratura, e come si evolsero quelli tra Pasolini, il movimento studentesco e le sinistre extraparlamentari.

7. “Propaganda antinazionale”

Nell’agosto 1968, due mesi dopo la polemica su Il Pci ai giovani, Pasolini partecipa alla contestazione contro la Mostra d’arte cinematografica di Venezia, occupa il palazzo del cinema al Lido, subisce lo sgombero poliziesco e si prende l’ennesima denuncia. Sarà processato insieme ad altri registi, con l’accusa di aver “turbato l’altrui pacifico possesso di cose immobili”. Verrà assolto nell’ottobre 1969.

Sulla rivista Tempo, anno XXX, numero 39, del 21 settembre 1968, la rubrica Il Caos tenuta da Pasolini contiene una “Lettera al Presidente del Consiglio”, che in quei giorni è Giovanni Leone, non ancora “quirinato” né impeached. Lo scrittore accusa il capo del governo per la repressione a Venezia. Quanti credono che Pasolini fosse contro il ‘68 e i contestatori trasecolerebbero leggendo questo passaggio (corsivo mio):

Nel ’44-’45 e nel ’68, sia pure parzialmente, il popolo italiano ha saputo cosa vuol dire – magari solo a livello pragmatico – cosa siano autogestione e decentramento, e ha vissuto, con violenza, una pretesa, sia pure indefinita, di democrazia reale. La Resistenza e il Movimento Studentesco sono le due uniche esperienze democratiche-rivoluzionarie del popolo italiano. Intorno c’è silenzio e deserto: il qualunquismo, la degenerazione statalistica, le orrende tradizioni sabaude, borboniche, papaline.

Leone risponde arzigogolando, Pasolini continua a mirare diritto e sul numero 41 del 5 ottobre 1968 ribadisce: “Io ero presente, quella notte. E ho visto coi miei occhi le violenze della polizia”.

Per chiedere – e il più delle volte ottenere – il sequestro delle opere di Pasolini agiscono in prima persona membri delle forze dell’ordine

Due mesi dopo, sul numero 52 del 21 dicembre 1968, Pasolini commenta l’ennesimo eccidio per mano poliziesca – due braccianti crivellati di colpi ad Avola, in Sicilia – e sostiene la proposta, fatta da un Pci ancora lontano dall’appoggio alle leggi speciali, di disarmare la polizia:

Disarmare la polizia significa infatti creare le condizioni oggettive per un immediato cambiamento della psicologia del poliziotto. Un poliziotto disarmato è un altro poliziotto. Crollerebbe di colpo, in lui, il fondamento della ‘falsa idea di sé’ che il Potere gli ha dato, addestrandolo come un automa.

In una puntata della rubrica rimasta inedita e ritrovata da Gian Carlo Ferretti, Pasolini risponde a una lettrice di destra, tale Romana Grandi, che gli ha inviato un volantino dell’Msi-Dn pieno di ingiurie nei confronti suoi e di altri intellettuali: “Un piccolo sforzo potrebbe pur farlo, visto che scrive e riscrive di essere una lavoratrice: non si è accorta che coloro che sono colpiti dalla polizia sono i lavoratori (e gli studenti che lottano accanto ai lavoratori)?”.

Pier Paolo Pasolini a Roma, nel 1967. - Franco Vitale, Reporters Associati & Archivi/Mondadori Portfolio
Pier Paolo Pasolini a Roma, nel 1967. (Franco Vitale, Reporters Associati & Archivi/Mondadori Portfolio)

L’autunno del ’69 – il cosiddetto autunno caldo – è una stagione di grandi lotte e vittorie operaie. Il 12 dicembre, per tutta risposta, esplode la bomba in piazza Fontana. A ruota, parte la montatura per colpire gli anarchici, le sinistre e il movimento operaio. Il 15 dicembre muore Giuseppe Pinelli. Il 16 dicembre, l’inviato del Tg1 Bruno Vespa comunica a milioni di persone che “Pietro Valpreda è il colpevole, uno dei responsabili della strage di Milano”. L’anarchico Valpreda diventa il mostro.

Pasolini, Moravia, Maraini, Asor Rosa e altri intellettuali firmano un appello “contro l’ondata repressiva”. Sul Borghese del 28 dicembre 1969, Alberto Giovannini coglie la palla al balzo e scrive:

Tra gli arrestati, oltre al Valpreda, uso a voltare la schiena non solo all’odiata borghesia ma anche agli amati giovinetti, vi sono molti ‘travestiti’ e ‘checche’; e il fatto non può lasciare indifferente P. P. Pasolini, che dei capovolti di tutta Italia è, di certo, il padre spirituale, visto che la natura ingrata […] non gli ha consentito di esserne la madre.

Sul numero 2, anno XXXII, di Tempo, del 10 gennaio 1970, Pasolini si rivolge al deputato socialdemocratico Mauro Ferri e scrive:

L’estremismo dei gruppi minoritari ed extraparlamentari di sinistra non ha portato in nessun modo (è infame solo pensarlo) alla strage di Piazza Fontana: esso ha portato alla grande vittoria dei metalmeccanici. Prima che Potere Operaio e gli altri gruppi minoritari extra-partitici agissero, i sindacati dormivano.

Dal 1 marzo 1971, per due mesi, Pasolini si presta a fare il direttore responsabile del giornale Lotta Continua, accettando il rischio di essere inquisito, rinviato a giudizio e processato per i contenuti del giornale. Cosa che succede il 18 ottobre dello stesso anno, per avere “istigato militari a disobbedire le leggi […], svolto propaganda antinazionale e per il sovvertimento degli ordinamenti economici e sociali costituiti dallo Stato [e] pubblicamente istigato a commettere delitti”. Pena massima prevista dal codice: 15 anni di reclusione. Testimoni per l’accusa: ufficiali, sottufficiali e agenti della pubblica sicurezza e dei carabinieri.

Dopo questo rinvio a giudizio, in spregio a qualsivoglia presunzione d’innocenza, la Rai blocca la messa in onda del programma di Enzo Biagi Terza B: facciamo l’appello. Oggi è una delle più famose apparizioni televisive di Pasolini, ma molti non sanno che fu censurata e andò in onda solo dopo la sua morte, cinque anni dopo essere stata registrata.

Nel frattempo, per chiedere – e il più delle volte ottenere – il sequestro delle opere di Pasolini agiscono in prima persona membri delle forze dell’ordine. A Bari, l’ispettrice di polizia Santoro segnala l’oscenità “orripilante” del film Decameron. Ad Ancona, contro la medesima pellicola sporge denuncia l’ispettore forestale Lorenzo Mannozzi Torini, secondo Wikipedia un “pioniere della tartuficoltura”.

Certamente provato ma per nulla intimidito, Pasolini finanzia e gira insieme al collettivo cinematografico di Lotta continua (Lc) un documentario-inchiesta su piazza Fontana e sullo stato delle lotte in Italia. Sceneggiato da Giovanni Bonfanti e Goffredo Fofi, il documentario esce nel 1972 con il titolo 12 dicembre e la dicitura “Da un’idea di Pier Paolo Pasolini”.

Ancora nel novembre 1973, quando il rapporto con Lc è teso e sull’orlo della rottura, Pasolini dichiara: “I ragazzi di Lotta continua sono degli estremisti, d’accordo, magari fanatici e protervamente rozzi dal punto di vista culturale, ma tirano la corda e mi pare che, proprio per questo, meritino di essere appoggiati. Bisogna volere il troppo per ottenere il poco”.

8. “Le nostre vecchie conoscenze”

L’ultima stagione, quella “corsara” e “luterana”, è segnata dalla reiterata, implacabile richiesta di un grande processo alla Democrazia cristiana, ai suoi dirigenti e notabili, ai complici delle sue politiche.

Dopo Il Pci ai giovani, sono alcune formule-shock del Pasolini 1974-75 a detenere il primato delle decontestualizzazioni e delle letture strumentali.

Per esempio, si estrapolano paradossi come “il fascismo degli antifascisti” per difendere le adunate di estrema destra, guardandosi bene dal dire che Pasolini usava l’espressione per attaccare l’ipocrisia del cosiddetto arco costituzionale, l’insieme dei partiti al potere, quelli che – dice in un’intervista del giugno 1975 – “continueranno a organizzare altri assassinii e altre stragi, e dunque a inventare i sicari fascisti; creando così una tensione antifascista per rifarsi una verginità antifascista, e per rubare ai ladri i loro voti; ma, nel tempo stesso, mantenendo l’impunità delle bande fasciste che essi, se volessero, liquiderebbero in un giorno”.

Senza il contesto cosa rimane? Una manciata di immagini – le lucciole, la fine del mondo contadino, i corpi omologati dei capelloni – ridotte a cliché e rese innocue. Rimane il “mito tecnicizzato” di uno pseudoPasolini light e lactose-free, propinato dalla stessa cultura dominante che perseguitò Pasolini, dagli eredi giornalistici dei suoi diffamatori e dagli eredi politici di chi lo aggrediva per strada.

L’8 ottobre 1975, sul Corriere della Sera, Pasolini commenta la messa in onda di Accattone da parte della Rai. Nel suo film d’esordio, scrive, metteva in scena due fenomeni di continuità tra regime fascista e regime democristiano: “Primo, la segregazione del sottoproletariato in una marginalità dove tutto era diverso; secondo, la spietata, criminaloide, insindacabile violenza della polizia”.

Nella polizia fascista di Madrid e Barcellona, scrive Pasolini, rivediamo la nostra polizia

Riguardo al primo fenomeno, scrive Pasolini, la società dei consumi ha “integrato” e omologato anche i sottoproletari, le loro abitudini, i loro corpi. Ergo, il mondo rappresentato in Accattone è finito per sempre.

È trascorso poco tempo, ma quelle parti di Roma sono cambiate. Pasolini le attraversa e dietro ogni incrocio, dietro ogni edificio, dietro ogni capannello di giovani vede – in una sovrapposizione lievemente sfasata – com’erano l’incrocio, l’edificio e quei giovani solo poco tempo prima. Tutto è in apparenza simile, ma la tonalità emotiva è alterata, la nota di fondo è irriconoscibile. Per un potente resoconto psicogeografico su tale “doppiezza” rimando alla passeggiata del Merda in Petrolio, Appunti 71-74a.

Ma cosa dice Pasolini del secondo fenomeno di continuità tra regime fascista e regime democristiano? “Su questo punto c’intendiamo subito tutti”, scrive, e sa di essere provocatorio. Sta parlando ai lettori del Corsera, è implausibile che tutti siano d’accordo nel ritenere “spietata” e “criminaloide” la violenza della polizia.

Ma l’autore è adamantino: “È inutile spendere parole. Parte della polizia è ancora così”. Segue un riferimento alla polizia spagnola, la guardia civil del regime franchista. Riferimento oggi incomprensibile, se non si sa cosa accadeva in Spagna in quei giorni. Ecco un titolo da l’Unità del 5 ottobre 1975: “Tortura a Madrid. / È stata usata dalla polizia franchista in modo sistematico contro non meno di 250 baschi. – Le conclusioni di un’inchiesta di Amnesty International – Testimonianze agghiaccianti”.

Il passaggio è rapido, ma non superficiale. Ci mostra un altro “doppio mondo” sfasato. Nella polizia fascista di Madrid e Barcellona, scrive Pasolini, rivediamo la nostra polizia, “le nostre vecchie conoscenze in tutto il loro squallido splendore”.

9. L’uomo che sorride

Tre settimane dopo, la notte tra il 1 e il 2 novembre, il corpo di Pasolini giace nel fango di Ostia, massacrato, ridotto a un unico cencio intriso di sangue.

Ora, per chiudere, prendo in prestito le parole di Roberto Chiesi:

Se guardate tra le terribili foto del ritrovamento del cadavere di Pasolini, ce n’è una, forse la più terribile, che mostra il corpo rovesciato e martoriato, con intorno alcuni inquirenti e poliziotti seduti sulle ginocchia. In particolare c’è un poliziotto seduto accanto al cadavere di Pasolini, che sorride. La foto lo mostra in maniera inequivocabile: è un sorriso di scherno, di disprezzo. Questa immagine può essere presa a campione di tutta un’Italia deteriore, da rifiutare, condensata in quell’immagine in bianco e nero, apparsa sulle prime pagine di tanti giornali dell’epoca.

Pasolini continuava a essere contro la polizia, la polizia continuava a essere contro Pasolini.

 

 

Fonte:

http://www.internazionale.it/reportage/2015/10/29/pasolini-polizia-anniversario-morte

Comunicato stampa riguardante l’aggressione subita il 24 ottobre alla manifestazione contro la NATO a Napoli.

Dal profilo Facebook di Fiore Sarti, attivista per i diritti dei popoli palestinese e siriano:

 

“Comunicato stampa riguardante l’aggressione subita il 24 ottobre alla manifestazione contro la NATO a Napoli.

Gli esponenti napoletani del Comitato permanente per la Rivoluzione Siriana, del Comitato Karama Napoli in appoggio ai popoli arabi e del gruppo Unior pro Rivoluzione Siriana, sono stati violentemente allontanati dalla manifestazione nazionale detta “No-Trident”.

Esponenti locali di varie sigle (Rete NoWar, Pace e Disarmo, Assadakah, Rete dei Comunisti e Alba Informazione) hanno aggredito fisicamente e verbalmente (rompendo l’asta della bandiera della Siria Libera e minacciando violenza fisica) gli attivisti venuti a denunciare sia le esercitazioni NATO che il genocidio in atto in Siria per mano del regime totalitario di Bashar al-Asad e dell’ISIS.

Il tutto è stato documentato dal un filmato pubblicato sul sito del quotidiano napoletano Il Mattino:
(http://video.ilmattino.it/index.jsp…).

E’ più evidente che mai che alcune sigle sedicenti pacifiste assicurino ormai da anni copertura e agibilità politica al regime siriano in Italia, veicolando peraltro informazioni non veritiere sulle dinamiche tuttora in atto in Siria.
Si denuncia per altro la totale inagibilità politica all’interno della manifestazione del 24 ottobre per coloro che sono oppositori sia della NATO che del regime siriano.

foto di Fiore Haneen Sarti.

Fiore Haneen Sarti con Mariano Manuel Bartiromo e altre 35 persone

Stiamo stendendo un comunicato su quanto accaduto oggi al concentramento della manifestazione contro la NATO.
ABBIAMO ROTTO LA CORTINA DI OMERTA’ INTORNO ALLE SIGLE PRO ASSAD A NAPOLI: USCITO PRIMO ARTICOLO SU TESTATA LOCALE.

CHE DICESSERO CHIARAMENTE CHE DIETRO LE LORO SIGLE PRESUNTAMENTE “PACIFISTE” SI NASCONDE LA LORO ANIMA FASCISTA A SOSTEGNO DI UN REGIME ALTRETTANTO FASCISTA: LE INTIMIDAZIONI RICEVUTE, LA VIOLENZA E L’ARROGANZA RIFLETTEVANO GLI STESSI METODI CHE ASSAD HA APPLICATO IN SIRIA DA QUEL 15 MARZO 2011.
HANNO PERFINO IMPEDITO AD ALCUNI OPERATORI PRESENTI DI FILMARE L’AGGRESSIONE, COME ISRAELE FA CON I GIORNALISTI!

RETE NOWAR, PACE E DISARMO, RETE DEI COMUNISTI, ASSADAKAH, ALBAINFORMAZIONE E TIFOSI DA STADIO A SEGUITO: si sono dichiarati per quello che sono, fascisti! E davano del “fascista” a noi per continuare a nascondere la loro vera natura.

ABBIAMO CONTINUATO A DARE I NOSTRI VOLANTINI DAVANTI AI LORO OCCHI, E CON LE NOSTRE BANDIERE IN VISTA.
NON CI FERMERANNO.

In attesa del comunicato da diffondere, vi abbracciamo, e abbracciamo la Siria della Rivoluzione, orgogliosi di portare le nostre bandiere, quella Palestinese e quella della Rivoluzione Siriana.
Nella foto, il tristemente noto San Toianni, un esponente di “Alba Informazione” (titolo che ricorda i fascisti…) e Francesco Guadagni. La loro “clack” di improvvisate/i “attiviste/i” che nemmeno sanno a chi si sono consegnate/i, facevano tifo da stadio alle loro spalle…Ce n’è anche per loro.

VIDEO:http://video.ilmattino.it/index.jsp…

 

 

 

 

Fonte:

https://www.facebook.com/fiore.sarti/posts/777550425686685

UN ALTRO GIORNO DI LOTTA AI CONFINI INTERNI DELLA FORTEZZA EUROPA

 

La repressione delle autorità europee contro i migranti si intensifica ovunque, e nello stesso tempo crescono le lotte per opporsi al regime dei controlli e delle frontiere.
Una breve panoramica sulle ultime 24 ore.

Ungheria

A Bicske, a 40 km da Budapest, la maggior parte migranti che erano stati fatti salire con l’inganno, facendogli credere di essere diretti in Germania, ma destinati ad un centro identificazione, hanno resistito alla deportazione e la protesta continua tuttora. Oltre alla segregazione nei centri, rifiutano anche acqua e cibo: tutto quel che vogliono è poter lasciare il paese.

Ungheria: i migranti in protesta a Bicske

Nel centro identificazione , sempre a Bicske, i migranti stamattina sono fuggiti.

Ungheria: i migranti in fuga dal centro identificazione di Bicske

A Budapest, mille persone migranti bloccate alla stazione di Keleti hanno intrapreso stamattina una marcia per raggiungere l’Austria a piedi.

#Ungheria La marcia dei migranti a Budapest, per lasciare il paese

Nel centro di detenzione di Roszke , al confine con la Serbia, stamattina centinaia di persone recluse sono riuscite a scappare. E’ intervenuta la polizia antisommossa con lacrimogeni e spray urticanti.

#Ungheria la fuga dal centro detenzione e la repressione a Röszke

Grecia

Nel centro di detenzione di Amygdaleza, vicino ad Atene, i migranti reclusi hanno cominciato ieri sera uno sciopero della fame. Le condizioni del centro, rimasto aperto malgrado le promesse governative, sono rimaste disastrose, il cibo è pessimo e manca l’assistenza sanitaria.

Nell’isola di Kos ieri sera i migranti sono stati attaccati e picchiati da un gruppo di fascisti, e ciò è avvenuto davanti alla stazione di polizia, senza che questa muovesse un dito. Ne è seguita una protesta e un blocco stradale dei migranti per lasciare l’isola, questa volta la polizia ha caricato e lanciato gas lacrimogeni sui migranti e i solidali.

Grecia: Cariche della polizia contro i migranti

Nell’isola di Lesbo un migliaio dei diecimila e più migranti presenti hanno protestato e provato a imbarcarsi su una nave diretta ad Atene: anche in questo caso la polizia è intervenuta con gas lacrimogeni, sgomberando la zona del porto.

Francia

A Calais ieri sera presidio dei migranti, che hanno rifiutato di entrare nel ghetto di Jules Ferry, uno pseudo centro accoglienza creato dalle autorità . Rifiutano l’assistenza umanitaria, il cibo e l’acqua erogati dal centro di distribuzione Salaam e vogliono libertà di movimento.

Francia: la protesta dei migranti a Calais

Italia

Ieri protesta dei migranti dei centri accoglienza davanti al Municipio di Taranto, per chiedere documenti d’identità per tutti e l’elargizione dei pocket money.

Taranto, presidio davanti al municipio

Oggi a Foggia manifestazione dei lavoratori agricoli migranti e dei solidali per rivendicare permessi di soggiorno, residenza, rispetto dei minimi contrattuali, casa acqua e trasporto gratuiti per tutti.

Domani 5 settembre a Roma, presidio in solidarietà ai/alle reclusi nel CIE di Ponte Galeria.

5settembrePonteGaleria

Fonte:
http://hurriya.noblogs.org/post/2015/09/04/un-altro-giorno-di-lotta-ai-confini-interni-della-fortezza-europa/

La bambina siriana uccisa e l’umanità sempre più rara

ratiocropNon sono le guerre, le dittature, la povertà che uccidono, gli assassini sono sempre gli uomini e spesso decidono di farlo con diabolica premeditazione. Avrebbe dovuto compiere 11 anni la bambina siriana che, insieme alla sua famiglia qualche giorno fa, era partita dall’Egitto per arrivare in Italia. Il viaggio era costato 3000 euro a persona, pensavano di partire su una nave da crociera e invece si sono ritrovati su una barca come sempre inadatta a percorrere lunghi tratti di mare e ad ospitare così tante persone. Le persone che si ritrovano a partire in queste condizioni non possono più tornare indietro, hanno pagato, sono diventate automaticamente merce degli scafisti, sono in loro potere, se si ribellano rischiano di essere ammazzate. La bambina aveva con sé uno zainetto con i suoi farmaci perché era diabetica, gli scafisti, nonostante le proteste dei familiari della piccola, le avevano gettato lo zainetto in mare. Qualche ora dopo la partenza la bambina era entrata in coma ed è morta fra le braccia della madre. Non so che nome avesse quella bambina, forse non lo saprò mai, il suo corpo è stato abbandonato in mare dopo la benedizione dell’Imam richiesta dalla sua famiglia. E’ stata uccisa dagli scafisti che non hanno mostrato nessuna pietà verso di lei, verso la sua famiglia e verso tutta la disperata umanità che cerca salvezza, è stata uccisa come migliaia di altri uomini, donne e bambini che sperano che un viaggio dall’altra parte del mediterraneo possa dare loro un futuro migliore. Il dolore della perdita di un bambino sembra non scalfire i cuori induriti, se non congelati, dalla macchina dell’odio che la propaganda fascio-leghista da tempo ha messo in moto nel nostro paese. Si leggono commenti terrificanti su questa vicenda, gli stessi che leggiamo ogni qualvolta si parla di migranti. Questa bambina viene ripetutamente uccisa dagli italiani che pensano che sia un bene che una persona in meno metta piede nel nostro paese. Questa bambina viene ripetutamente uccisa da chi non crede che la sua, e le altre storie della disperazione di chi fugge, siano vere. Questa bambina viene ripetutamente uccisa da chi dice che se potevano pagare 3000 euro per un viaggio allora potevano starsene a casa loro, fra le bombe, la mancanza di beni di prima necessità, perché i soldi li avevano. Questa bambina viene ripetutamente uccisa a Roma da chi manifesta contro i migranti a fianco di CasaPound. Questa bambina viene ripetutamente uccisa dai fascisti, e da chi li applaude, che ieri a Treviso hanno impedito al personale di una cooperativa di fornire del cibo ai migranti. Stiamo diventando un paese senza cuore, le difficoltà in cui versano alcuni nostri concittadini vengono sfruttate dalla propaganda dell’odio che cela il malcostume nostrano. Il cancelliere tedesco Angela Merkel qualche giorno fa aveva detto ad una bambina palestinese che non possiamo accogliere tutti, ma cosa ha fatto l’Europa per rimuovere le cause che portano milioni di persone in fuga dai loro paesi? Come fa fronte il nostro continente a questa ondata di disperazione? Ci si barcamena sulle cifre di migranti da accogliere nei vari paesi mentre alcune nazioni come l’Ungheria erigono muri per contrastare l’arrivo degl’immigrati. Restare umani è un impegno sempre più difficile quando ogni giorno nelle nostre televisioni personaggi come Matteo Salvini alimentano l’odio per lo straniero, quando ogni giorno vengono condivise notizie false sui migranti dai siti spazzatura. Fra qualche giorno, forse solo fra qualche ora, nessuno ricorderà più la notizia della bambina siriana uccisa dagli scafisti, arriveranno nuovi migranti con le loro tragedie, altri non riusciranno ad arrivare, la pietà sarà un sentimento sempre più raro.19 luglio 2015

Fonte:
http://www.articolo21.org/2015/07/la-bambina-siriana-uccisa-e-lumanita-sempre-piu-rata/

Lo stupro di Franca Rame: fascisti, carabinieri e «una volontà superiore»

di Girolamo De Michele tutta_casa

 

Il 9 marzo 1973 Franca Rame fu sequestrata da cinque uomini, costretta a salire su un furgone all’interno della quale fu torturata e violentata. Come si sa, Franca è riuscita a raccontare la violenza subita in un monologo intitolato appunto “Lo stupro”, che inserì nello spettacolo “Tutta casa, letto e chiesa”. Per molto tempo, Franca raccontò di essersi ispirata ad un episodio di cronaca, non rivelando di essere stata lei stessa la vittima dello stupro.

La sera del 9 marzo 1973, alla notizia dell’avvenuto stupro, qualcuno a Milano gioì: era il generale Palumbo, comandante della divisione Pastrengo. «La notizia dello stupro della Rame in caserma fu accolta con euforia, il comandante era festante come se avesse fatto una bella operazione di servizio. Anzi, di più…», secondo la testimonianza di Nicolò Bozzo, che sarebbe diventato stretto collaboratore di Carlo Alberto Dalla Chiesa, e che all’epoca era in servizio alla Pastrengo:

«Arrivò la notizia del sequestro e dello stupro di Franca Rame. Per me fu un colpo, lo vissi come una sconfitta della giustizia. Ma tra i miei superiori ci fu chi reagì in modo esattamente opposto. Era tutto contento. “Era ora”, diceva. […] Era il più alto in grado: il comandante della “Pastrengo”, il generale Giovanni Battista Palumbo. […] Allora io vissi quella reazione di Palumbo solo come una manifestazione di cattivo gusto. Credevo che il generale fosse piacevolmente sorpreso della notizia, nulla di più. D’altronde Palumbo era un personaggio particolare, era stato nella Repubblica Sociale, poi era passato con i partigiani appena prima della Liberazione. Non faceva mistero delle sue idee di destra. E alla “Pastrengo”, sotto il suo comando, circolavano personaggi dell’estrema destra, erano di casa quelli della “maggioranza silenziosa” come l’avvocato Degli Occhi» [qui].

Nel 1981, il nome del generale Palumbo fu trovato all’interno dell’elenco degli iscritti alla Loggia P2, assieme a due alti ufficiali dell’Arma. Secondo Bozzo, «il comandante generale [dell’Arma dei carabinieri] era il generale Mino. Basta leggere la relazione di maggioranza della commissione d’inchiesta sulla P2 per capire perché non si accorgesse di nulla. Lui non era negli elenchi, ma la commissione lo dava come organico».

Nel 1987-88 due fascisti, Angelo Izzo e Biagio Pitarresi, rivelano al giudice Salvini che a compiere lo stupro fu una squadraccia neofascista, e soprattutto che l’ordine di “punire” Franca Rame con lo stupro venne dall’Arma dei Carabinieri. Si legge nell’ordinanza di rinvio a giudizio dell’inchiesta sull’eversione neofascista degli anni Settanta:

«Pitarresi ha fatto il nome dei camerati stupratori: Angelo Angeli e, con lui, “un certo Muller” e “un certo Patrizio”. Neofascisti coinvolti in traffici d’armi, doppiogiochisti che agivano come agenti provocatori negli ambienti di sinistra e informavano i carabinieri, balordi in contatto con la mala. Fu proprio in quella terra di nessuno dove negli Anni 70 s’incontravano apparati dello Stato e terroristi che nacque la decisione di colpire la compagna di Dario Fo. Ha detto Pitarresi: “L’azione contro Franca Rame fu ispirata da alcuni carabinieri della Divisione Pastrengo. Angeli ed io eravamo da tempo in contatto col comando dell’Arma» [qui].

A supportare la testimonianza dei due “pentiti”, un appunto dell’ex dirigente dei Servizi Gianadelio Maletti che racconta di un violento alterco tra il generale Giovanni Battista Palumbo e Vito Miceli, futuro capo del servizio segreto: «Il primo, si leggeva nella nota di Maletti, durante la lite aveva rinfacciato al secondo “l’azione contro Franca Rame”».

F_rame Commenta il giudice Salvini: «Il probabile coinvolgimento come suggeritori di alcuni ufficiali della divisione Pastrengo non deve stupire […] il comando della Pastrengo era stato pesantemente coinvolto, negli Anni 70, in attività di collusione con strutture eversive e di depistaggio delle indagini in corso, quali la copertura di traffici d’ armi, la soppressione di fonti informative che avrebbero potuto portare a scoprire le responsabilità nelle stragi dei neofascisti Freda e Ventura» [qui].

Ma secondo Nicolò Bozzo lo stesso generale Palumbo non sarebbe il responsabile primo dell’ordine di stuprare Franca Rame, quanto l’esecutore di «una volontà molto superiore»:

«A parte le sue convinzioni politiche io ricordo che Palumbo riceveva spesso telefonate dal ministero, dal ministro. So che parlava con il ministro della Difesa e degli Interni. È norma che un ministro della Difesa chiami un comandante di divisione. Ma secondo me un crimine del genere non nasce a livello locale. È vero che alla notizia dello stupro ci furono manifestazioni di contentezza nella caserma, però personalmente non me lo vedo il generale Palumbo chiamare i terroristi e ordinargli o chiedergli di fare questo» [qui].

Nel 1973 il capo del governo in carica era Giulio Andreotti, con una maggioranza di centro-destra il cui scopo, secondo quanto si legge nel Memoriale Moro, era di «deviare, per sempre, le forze popolari nell’accesso alla vita dello Stato». Il ministro della Difesa era Mario Tanassi, quello dell’Interno Mariano Rumor.

 

Fonte:

http://www.carmillaonline.com/2013/05/31/lo-stupro-di-franca-rame-i-fascisti-i-carabinieri-della-pastrengo-e-una-volonta-molto-superiore/

Monsignor Romero proclamato beato a San Salvador

23 maggio, 20:23

La sua festa sarà il 24 marzo, giorno della morte

Monsignor Oscar Arnulfo Romero, l’arcivescovo di San Salvador ucciso nel marzo del 1980 mentre celebrava la messa, è stato proclamato beato nella cerimonia presieduta dal cardinale Angelo Amato, prefetto della Congregazione per le Cause dei Santi, nella Piazza Salvatore del Mondo di San Salvador.

La sua festa sarà il 24 marzo, giorno della morte.

La lettera apostolica di papa Francesco, letto in latino e spagnolo durante la cerimonia, precisa che la figura del beato Romero sarà ricordata ogni 24 marzo, “la data in cui è nato al Cielo”, ossia nella quale è stato ucciso da un cecchino per aver denunciato le violazioni dei diritti umani da parte della dittatura militare che governava allora il paese centroamericano.

RIPRODUZIONE RISERVATA

 

Fonte:

http://www.ansa.it/sito/photogallery/primopiano/2015/05/23/romero-messa-di-beatificazione-a-san-salvador-_1353a441-d1d6-4f44-93b1-0b172f2ca5a5.html

9 maggio: Festa per Ciro Principessa

9 maggio: Festa per Ciro Principessa