BARILI-BOMBA E OPPRESSIONE. DA COSA SCAPPANO I SIRIANI

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(di Amr Salahi, per Middle East Monitor. Traduzione dall’inglese di Claudia Avolio). La scorsa settimana foto e video di rifugiati siriani disperati che giungono in Europa – o muoiono nel tentativo di farlo – sono stati tra le notizie di apertura dei media di tutto il mondo, ma ben poca enfasi è stata data alle cause della crisi e le voci dei rifugiati sono rimaste ampiamente inascoltate. La copertura mediatica è stata incline a ritrarre la crisi come una catastrofe naturale o a esagerare il ruolo che Daesh, altrimenti detta Stato islamico (Is), avrebbe svolto nel crearla.

Il conflitto in Siria viene ritratto sempre di più come un conflitto tra il regime del presidente Bashar al Asad e Daesh, con il primo dipinto come il minore tra i due mali. Le organizzazioni della società civile che ancora lavorano sul terreno – allo scoperto nelle zone controllate dalle forze dell’opposizione moderata, di nascosto in quelle controllate dal regime di Asad e da Daesh – sono ampiamente ignorate dai media e le voci dei rifugiati non sono ascoltate.

Uqba Fayyad, giornalista siriano della città di Qusair, nella provincia di Homs, dice che è stato costretto a fuggire dalla sua città-natale nel marzo 2013, appena prima che venisse invasa dalle forze del regime siriano e dai loro alleati di Hezbollah. Racconta che nel mese precedente alla caduta nelle mani del regime, centinaia di persone in questa città di 5.000 abitanti sono state uccise dagli attacchi aerei e via terra da parte del regime. Attacchi che includevano “barili-bomba, bombe a grappolo e napalm” e – racconta –  “poco prima che prendessero d’assalto la città, hanno usato bombe a vuoto in grado di risucchiare l’ossigeno di qualunque edificio, riducendolo in polvere nel giro di secondi”. Non ha avuto altra scelta che quella di fuggire.

“Per tre giorni – continua – abbiamo viaggiato attraverso i boschi senza cibo né acqua, portando sulle spalle i feriti, mentre le loro piaghe si infettavano. Siamo riusciti a raggiungere le città [controllate dall’opposizione] nella zona del Qalamun”. Tuttavia, non sono stati accolti con benevolenza: gli abitanti avevano visto la brutalità dell’assalto a Qusair e temevano che se avessero accolto gli sfollati, un destino simile sarebbe toccato anche a loro. Sono scoppiati scontri e Uqba e gli altri sono fuggiti ancora una volta, verso Arsal in Libano, dove sono stati soggetti a regole molto dure da parte delle autorità locali, incluso un coprifuoco dalle ore 18.00 in poi. Alla fine è riuscito a contattare il consolato svedese in Libano e ha ottenuto asilo in Svezia.

I siriani non scappano, però, solo dai bombardamenti del regime nelle zone controllate dall’opposizione. A volte, quando una zona viene catturata dalle forze di opposizione, alcuni abitanti fuggono in aree ancora sotto il controllo del regime. Di solito temono ciò che il regime potrebbe fare alle aree controllate dai ribelli, tra cui bombardamenti simili a quelli descritti da Uqba oppure – in zone circondate da territorio controllato dal regime – assedi prolungati che conducono alla morte per fame degli abitanti.

Muhammad Manla è un attivista siriano dell’opposizione rifugiato in Germania da quasi tre anni. È fuggito dal quartiere Salah ad Din di Aleppo quando è stato sottratto ai ribelli da parte delle forze del regime siriano nel luglio 2012, ed è arrivato nella parte occidentale di Aleppo, rimasta nella mani del regime. Salah ad Din è diventato poi uno dei luoghi più pericolosi del mondo quando il regime siriano l’ha colpito coi barili-bomba, insieme ad altri quartieri di Aleppo sotto il controllo dei ribelli.

Eppure, anziché trovare la sicurezza nel territorio del regime, ogni volta che Muhammad usciva, veniva fermato ai checkpoint e minacciato da soldati del regime e da agenti che lo accusavano di essere legato ai ribelli, solo perché sulla sua carta d’identità c’era scritto che era di un quartiere controllato dall’opposizione. Due mesi dopo è fuggito ancora una volta, in Egitto, e da lì in Germania.

A questi checkpoint e negli uffici governativi, la gente viene spesso rapita o arrestata in modo arbitrario. Un altro rifugiato della provincia nord di Aleppo controllata dall’opposizione – che preferisce restare anonimo – ha detto che suo padre, un uomo di 70 anni, è stato arrestato quando è andato a ritirare la pensione in un ufficio governativo nella parte occidentale di Aleppo. Accusato di essere un membro di Jabhat al Nusra, è stato tenuto in una cella di 2 metri per 1 metro e mezzo con altri sei prigionieri e picchiato. È stato rilasciato solo perché un amico di famiglia aveva contatti nei servizi di sicurezza.

Il fratello di Muhammad, studente all’università di Aleppo, lo ha raggiunto in Germania di recente dopo aver lasciato la Siria. Una legge approvata da poco ha reso obbligatorio per tutti gli studenti che si stanno laureando di unirsi all’esercito. La possibilità di coscrizione nelle file dell’esercito del regime siriano è un fattore importante che spinge i giovani uomini a lasciare il Paese. Si trovano a tutti gli effetti davanti alla scelta di combattere e forse morire per un regime cui molti di loro si oppongono, oppure intraprendere un pericoloso viaggio all’estero.

Muhammad è chiaro su quella che ritiene essere la soluzione al conflitto: “Una no-fly zone rafforzerebbe di nuovo la rivoluzione. Scuole e università potrebbero venire aperte in zone controllate dall’opposizione, cosa che impedirebbe ai giovani di venire influenzati dall’ideologia dittatoriale del regime e da quella estremista di Daesh. Permetterebbe anche ai ribelli di organizzarsi per combattere Daesh e il regime”.

Mentre le proposte di una no-fly zone suscitano polemiche negli Stati Uniti e in Europa, con molti politici che temono il coinvolgimento in una guerra in Medio Oriente, tra i siriani l’idea è accettata a un livello molto più ampio. La richiesta è stata ufficialmente avallata da Planet Syria, un gruppo di coordinamento composto da oltre 100 organizzazioni della società civile siriana, e dai Caschi Bianchi, un’organizzazione di protezione civile che lavora soprattutto nel salvataggio dei sopravvissuti agli attacchi coi barili-bomba del regime.

Il governo siriano ha il monopolio totale della forza aerea nel conflitto siriano. Gli attacchi aerei hanno causato oltre il 40% delle morti tra i civili verificate dal Centro per la documentazione delle violazioni (Vdc), organizzazione siriana che monitora il numero di civili morti e gli abusi dei diritti umani. L’arma aerea più comunemente usata è il barile-bomba. I barili-bomba sono mortali, indiscriminati e incessanti. Ne sono stati sganciati oltre 11 mila dall’inizio del 2015 e attivisti siriani mettono l’accento sul fatto che da allora il regime ha ucciso 7 volte più civili di quanti ne abbia uccisi Daesh. Pur trattandosi di un’arma molto semplice – barili di greggio senza guida riempiti di esplosivo e scarti metallici – sono comunque mortali, indiscriminati e incessanti.

Mentre gli analisti occidentali continuano a dare la propria interpretazione delle cause della crisi dei rifugiati siriani, con alcuni di loro che addossano la colpa all’estremismo di Daesh e altri che lanciano moniti sui pericoli di un intervento, un’immagine del tutto diversa della crisi emerge dalle storie dei rifugiati e dai dati raccolti da organizzazioni siriane che lavorano sul terreno. I responsabili delle politiche occidentali farebbero bene ad ascoltare ciò che i siriani raccontano su quanto sta accadendo nel loro Paese e sul perché lo stanno lasciando. (Middle East Monitor, 13 settembre 2015)

 

 

Fonte:

http://www.sirialibano.com/siria-2/barili-bomba-e-oppressione-le-radici-della-crisi-dei-rifugiati-siriani.html

PERCHE’ DI NUOVO LA FREEDOM FLOTILLA

Posted on 12 maggio 2015 by paola

ship to gaza marianne
Freedom Flotilla Italia ribadisce le ragioni politiche espresse ieri dal comunicato stampa di Ship to Gaza che il 10/5 ha messo in mare Marianne, la prima imbarcazione della Freedom Flotilla III, direzione Gaza. Marianne si unirà ad altre imbarcazioni della Freedom Flotilla e assieme faranno l’ennesimo tentativo di interrompere il disumano, illegale blocco della popolazione di Gaza assediata in una striscia costiera tra Israele e l’Egitto.
Quante imbarcazioni costituiranno la Freedom Flotilla III dipende dai contributi di ciascuna campagna della coalizione internazionale della Freedom Flotilla e di ciascuno di noi. Nessuna donazione è troppo piccola, ciascuno contribuisce in base alle proprie possibilità
• Bonifico , conto APRIAMO GAZA IL PORTO DELLA PALESTINA, IBAN: IT33 L 07601 03200 0010 2500 2419
• Carta di Credito, paypal, postepay, carta prepagata, tramite pagina crowdfunding
• Bollettino postale o versamento sul conto APRIAMO GAZA IL PORTO DELLA PALESTINA, c/c 10 2500 2419
Per maggiori informazioni sulla raccolta fondi leggi qui
Traduzione dalla versione originale di Ship to Gaza :
“(…)Una obiezione ovvia ci viene fatta: non abbiamo bisogno di barche per altri scopi nel Mediterraneo?
Le persone sono costrette a scappare dalla guerra per salvare la vita e fuggire da persecuzioni in Medio Oriente e in Nord Africa. Trafficanti cinici si arricchiscono trasportando carichi umani con imbarcazioni ad alto rischio. In altre zone della regione, tra cui Gaza, le persone non possono neanche fuggire dalle proprie case bombardate. L’assedio Israelo/Egiziano è virtualmente totale.
Di conseguenza, la catastrofe nel Mediterraneo e il catastrofico blocco di Gaza sono in relazione. Entrambi sono causati da politiche misantropiche, regimi dispotici, stati fatiscenti. Entrambi con il consenso di una “comunità internazionale” che preferisce guardare altrove piuttosto che assumersi le proprie responsabilità. In questa situazione, organizzazioni umanitarie come Ship to Gaza e Medici Senza Frontiere sono costretti ad agire e inviare imbarcazioni a Gaza City e Tripoli per far progredire la dignità umana.
Un’ altra obiezione è prevedibile come lo spam nelle nostre caselle di posta. Il blocco di Gaza non è forse causato dal fatto che l’area è governata da Hamas, da cui Israele ed Egitto devono difendersi? Questo è il messaggio strombazzato dal governo della destra israeliana e relativi megafoni. Di recente, in un editoriale su Dagens Nyheter (4 Mggio) l’editore ripeteva una descrizione retorica che è diventata un mantra nei giornali mediorientali e che trasforma il punto principale in secondario, e viceversa. Per dirla chiaramente : il problema principale non è il blocco Israelo/Egiziano, ma il governo di Hamas. Il blocco e l’occupazione Israeliana sono trasformati in problemi secondari. Con questa premessa, sostengono che i bombardamenti israeliani non sono diretti contro un milione e settecentomila palestinesi, ma contro Hamas.
La fallacità di questa visione diventa spaventosamente chiara quando si leggono le testimonianze che l’organizzazione israeliana Breaking the Silence ha raccolto e diffuso la scorsa settimana. Soldati israeliani raccontano di aver ricevuto ordini precisi di non fare distinzioni tra obiettivi militari e civili quando attaccarono Gaza il 17 luglio dello scorso anno. Nella terminologia di guerra israeliana “Hamas” significa qualsiasi cosa sia palestinese, ogni essere umano a Gaza.
Non è una coincidenza che Ship to Gaza invii un peschereccio a Gaza questa volta. Il blocco, che dura da nove anni, priva la popolazione assediata della libertà di movimento, di commercio, di assistenza medica, priva la popolazione di sicurezza alimentare e diritto all’istruzione. I pescatori palestinesi, a cui la forza di occupazione israeliana vieta di pescare oltre le 6 miglia nautiche dalla costa, sono soggetti a minacce quotidiane, attacchi e confische delle imbarcazioni.
Al pari della Estelle nel 2012, Marianne si fermerà in numerosi porti durante il proprio viaggio, ci saranno eventi pubblici in sostegno alla fine del blocco di Gaza. Dopo Goteborg, si fermerà a Malmo/Copenhagen e poi giù verso la costa europea. Marianne si unirà ad altre navi della Freedom Flotilla Coalition nel mediterraneo orientale e poi assieme si dirigeranno verso Gaza City. Per consentire una pace giusta e fare in modo che lo stato di Palestina, che la Svezia e molti altri stati hanno già riconosciuto, possa funzionare, Ship to Gaza chiede :
• la cessazione immediata dell’assedio;
• l’apertura e il funzionamento di un porto a Gaza City;
• l’apertura di una via di trasporto in sicurezza tra la Cisgiordania e la Striscia di Gaza.
Spokespersons
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Media co-ordinator: Staffan Granér – +46 70 35 49 687
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Fonte:

http://www.freedomflotilla.it/2015/05/12/perche-di-nuovo-la-freedom-flotilla/

Ennesimo massacro in Egitto: uccisi almeno 30 ultras del Zamalek

9 / 2 / 2015

Un altro giorno di “ordinaria repressione” nel regime del generale Sisi: sono almeno 30 gli Ultras White Knights (tifoseria della squadra cairota Zamalek) rimasti uccisi negli scontri con la polizia all’esterno dello Stadio dell’Aeronautica al Cairo, di proprietà dell’esercito egiziano. Secondo le notizie disponibili, i disordini sono cominciati quando gli ultras hanno tentato di “espropriare” lo spettacolo scavalcando e forzando gli ingressi con l’ausilio di bastoni e spranghe. I decessi sarebbero stati causati dal soffocamento provocato dall’uso sconsiderato di lacrimogeni e pallini, e dal conseguente accalcarsi dei giovani in fuga. Non è ancora chiaro se la polizia abbia usato proiettili di piombo o meno. Quasi tutte le vittime avevano tra i 17 e i 23 anni. Nonostante la tragedia, la partita non è stata interrotta. L’unico giocatore che si è rifiutato di proseguire – Omar Gaber – è stato sospeso dal suo stesso club. Nel frattempo i vari lacchè di corte stanno facendo a gara per discolpare lo stato, dal presidente del Zamalek – che ha attribuito la colpa degli omicidi ai Fratelli Musulmani per poi aggiungere che gli ultras sono criminali intenzionati a danneggiare la nazione – agli onesti cittadini fedelissimi del generale – che sostengono su internet che chi vuole entrare senza biglietto merita di morire.

Gli ultras sono stati una delle principali forze di strada della rivoluzione, uno dei pochi gruppi in grado di organizzare in modo durevole i giovani dei quartieri più emarginati. In seguito all’insurrezione del 2011, i due rivali storici del Cairo – la tifoseria dell’Ahly e quella del Zamalek – avevano messo da parte le rivalità per concentrarsi nella lotta contro lo stato di polizia, che tentava di ripristinare il proprio potere e la propria impunità nell’uccidere e torturare. Non a caso, il massacro di Port Said dell’1 febbraio 2012 è visto come la prima grande vendetta della polizia egiziana sugli ultras. In quell’occasione, un gruppo di ultras El Masry attaccò la tifoseria dell’Ahly, nota appunto per la sua militanza anti-regime, facendo 72 morti. Le uscite da cui gli ultras Ahly avrebbero potuto fuggire erano state precedentemente saldate e la polizia si limitò a osservare la carneficina bloccando le altre uscite. In molti sostengono che il massacro sia stato organizzato da notabili del vecchio regime in collaborazione con la polizia. Dopo le rivolte scatenatesi nei giorni successivi, le partite furono chiuse al pubblico e l’accesso era stato ripristinato solo di recente.

Ma nonostante la pausa forzata, gli ultras sembrano avere ancora le idee piuttosto chiare. “Abbasso lo stato” recita il post della pagina FB degli UAW che accompagna la foto degli scontri. E fuori dall’obitorio il lavaggio del cervello propinato alle tv di stato non fa affatto presa: tutti sanno che gli assassini sono la polizia egiziana e il regime di Sisi.

 

 

Fonte:

http://www.globalproject.info/it/mondi/ennesimo-massacro-in-egitto-uccisi-almeno-30-ultras-del-zamalek/18674

 

 

Sulla strage di Port Said leggere qui:

http://osservatorioiraq.it/approfondimenti/egitto-i-fantasmi-di-port-said

 

 

 

 

Rivoluzione egiziana: economia politica di un altro anniversario di sangue. 25 i manifestanti uccisi

26 / 1 / 2015

 

Il quarto anniversario della rivoluzione egiziana ha confermato la situazione di brutale e sfrenata repressione del dissenso da parte del regime controrivoluzionario del generale Sisi. Secondo le stime disponibili, sono oltre 15.000 i prigionieri politici e più di 2.000 i manifestanti uccisi da quando i militari hanno deposto il presidente islamista Morsi nel luglio 2013. Inizialmente la repressione si era concentrata sulle forze islamiste, ma si è molto presto abbattuta anche sulla gioventù rivoluzionaria, con campagne di arresti e molteplici uccisioni.

La polizia aveva segnalato che non avrebbe tollerato alcuna manifestazione di dissenso già nei due giorni precedenti l’anniversario, assassinando due giovani donne ad Alessandria e al Cairo. La prima vittima è stata Sondos Reda Abu Bakr, ragazza di diciassette anni che stava partecipando a una manifestazione dei Fratelli Musulmani ad Alessandria il 23 gennaio. Secondo i testimoni, gli agenti hanno colpito la studentessa al petto con pallottole sparate da distanza ravvicinata. La seconda vittima è stata Shaima Al-Sabbagh, militante dell’Alleanza Popolare Socialista, freddata da una pallottola alla testa mentre si accingeva a deporre dei fiori in memoria dei martiri della rivoluzione a Piazza Tahrir, nel corso di una manifestazione pacifica e di dimensioni assai esigue.

Nonostante il sistematico terrorismo di stato, manifestazioni di dissenso hanno avuto luogo nelle più svariate località del paese nel giorno dell’anniversario. La commemorazione ufficiale e di regime era stata rinviata a causa del lutto per la (a noi assai gradita) morte del re saudita Abdullah e piazza Tahrir era stata chiusa al pubblico. Il bilancio della giornata è stato di 25 morti confermati dal Ministero della Salute, almeno un centinaio di feriti e più di cinquecento arresti. La maggior parte delle uccisioni sono avvenute durante proteste ad Alessandria e nei quartieri popolari del Cairo, sembrerebbe di matrice islamista. Tre jihadisti sono morti a Beheira mentre tentavano di piazzare una bomba. I gruppi rivoluzionari di sinistra e liberali hanno organizzato proteste nel centro del Cairo, anch’esse represse brutalmente.

Se lo stato egiziano può permettersi simili livelli di repressione, che per il momento stanno avendo tra i loro effetti quello di radicalizzare l’opinione pubblica della destra islamista ingrossando le file degli jihadisti, non è certo un caso. Il regime di Sisi è stato fin dagli inizi finanziato generosamente dagli stati più reazionari della regione mediorientiale: l’Arabia Saudita in testa (da sempre nemica dei Fratelli Musulmani quanto della democrazia), seguita da Emirati e Kuwait. Alle decine di miliardi fornite dalle monarchie del Golfo si aggiungono ovviamente gli “aiuti” militari degli Stati Uniti, che sono ripresi dopo un periodo di esitazione, non appena le violazioni su larga scala dei diritti civili hanno smesso di arrivare in prima pagina. Le condizionalità di questi finanziamenti si sono rivelate nella ripresa della neoliberalizzazione interna e nella “moderazione” della posizione egiziana sull’apartheid palestinese in politica estera.

Recentemente il flusso di aiuti dalle monarchie del Golfo si è ridotto, cosa che potrebbe costringere Sisi ad accelerare le politiche di austerità e privatizzazione. Alcuni osservatori ipotizzano che ciò sia dovuto al crollo dei pezzi del petrolio, ma a dire il vero questo non è un problema reale, data l’abbondanza di riserve di dollari detenute dall’Arabia Saudita. L’avarizia dei signori del petrolio potrebbe piuttosto evidenziare una volontà di tenere l’Egitto, ormai paese satellite, legato a un guinzaglio assai corto. Tuttavia, come ha evidenziato Juan Cole, i tentativi da parte delle economie emergenti di diminuire la propria dipendenza dai combustibili fossili potrebbe comportare un abbassamento strutturale dei prezzi nell’oro nero in un futuro non troppo remoto. Per quanto la complessità della politica mediorientale non sia affatto riducibile alle rendite petrolifere, è probabile che una crisi delle economie rentier causerà potenti traumi negli attuali rapporti di forza. In tal caso tornerà il tempo della resa dei conti, e non solo in Egitto.

 

 

Fonte:

http://www.globalproject.info/it/mondi/rivoluzione-egiziana-economia-politica-di-un-altro-anniversario-di-sangue/18597

 

EGITTO: MUBARAK ASSOLTO DA TUTTE LE ACCUSE. SCONTRI AL CAIRO: DUE VITTIME

Da http://arabpress.eu/:

 

 

Mubarak e il “processo del secolo”: un passo avanti o indietro?

Mubarak e il “processo del secolo”: un passo avanti o indietro?Di Salma El Shahed. Al-Arabiya (30/11/2014). Traduzione e sintesi di Roberta Papaleo. Dopo essersi trascinato per anni, il “processo del secolo”, come lo chiamano i media egiziani, è terminato ieri con l’assoluzione dell’ex presidente Hosni Mubarak da tutte le accuse, tra cui quella di aver ordinato l’uccisione dei manifestanti durante le proteste del 2011. Per alcuni, […]

Egitto: sale il numero delle vittime negli scontri al Cairo

Egitto: sale il numero delle vittime negli scontri al Cairo(Agenzie) Sale a due il numero di persone rimaste uccise durante gli scontri tra manifestanti e polizia egiziana che sono scoppiati al Cairo in seguito alla notizia dell’assoluzione dell’ex presidente Hosni Mubarak da qualsiasi accusa. Secondo quanto riportato da ministero della Salute egiziano, altre nove persone sono rimaste ferite nelle violenze, avvenute nella piazza Abdel-Moneim Riad, non […]

Egitto: Mubarak assolto da tutte le accuse

Egitto: Mubarak assolto da tutte le accuse(Agenzie) Hosni Mubarak, ex presidente egiziano, è stato assolto dalla corte da tutte le accuse a suo carico, sia quelle per corruzione nell’affare della venditaa vendita di gas a Israele, sia quelle per omicidio per la morte di centinaia di manifestanti durante le rivolte del 2011. Assieme a Mubarak, assolti dall’accusa di complicità in omicidio anche  l’ex […]

Quando tra Assad e l’Isis correva buon sangue

Siria. Dal maggio 2011 con lo scoppio delle prime rivolte e la liberazione dei prigionieri

Dopo l’apertura del pre­si­dente siriano ai bom­bar­da­menti sta­tu­ni­tensi, mirati e coor­di­nati con Dama­sco, con­tro i jiha­di­sti dello Stato isla­mico (Isis) in Siria, il tanto odiato regime di Assad è tor­nato a essere cen­trale per gli inte­ressi Usa in Medio oriente. Non solo Stati uniti e Siria stanno col­la­bo­rando per fer­mare i com­bat­tenti radi­cali dell’Isis, hanno anche qualcos’altro in comune: entrambi hanno con­tri­buito alla nascita e all’ascesa del temi­bile movi­mento jihadista.

27inchiesta siria hassad

La logica di Assad è molto sem­plice e con­di­visa dalle élite mili­tari di altri stati del Medio oriente: in un con­te­sto di rivolte, è sem­pre utile pun­tare sulla paura gene­ra­liz­zata dell’ascesa di estre­mi­sti e ter­ro­ri­sti. In que­sto modo gli isla­mi­sti mode­rati (i Fra­telli musul­mani siriani per esem­pio), ma anche l’opposizione seco­lare, saranno facil­mente messi in un angolo. Que­sto ha fatto l’esercito egi­ziano, atti­vando i movi­menti sala­fiti in occa­sione delle prime ele­zioni libere del 2012. Per poi accu­sare tutti gli isla­mi­sti di ter­ro­ri­smo ed avere le mani libere per repri­mere i mode­rati Fra­telli musul­mani, lasciando fare ai sala­fiti, diven­tati i prin­ci­pali alleati del gene­rale Abdel Fat­tah al-Sisi.

Alti uffi­ciali vicini ad Assad hanno con­fer­mato que­sta rico­stru­zione. In altre parole, i ter­ro­ri­sti dello Stato isla­mico (Isis) hanno deci­mato l’Esercito libero siriano (Els). «Se que­sti gruppi si scon­trano tra loro, il primo a bene­fi­ciarne è il governo siriano. Quando hai così tanti nemici che si com­bat­tono tra di loro, puoi trarne bene­fi­cio», ha aggiunto la fonte.

Ai mili­tari siriani hanno fatto eco gli Stati uniti. «Il regime di Assad ha gio­cato un ruolo chiave nell’ascesa dell’Isis», ha detto il por­ta­voce del Dipar­ti­mento di Stato, Marie Harf. Assad ha sem­pre negato di aver dato qual­siasi soste­gno all’Isis. Eppure nel mag­gio del 2011, con lo scop­pio delle prime rivolte in Siria, il governo di Dama­sco ha libe­rato dalla pri­gione mili­tare di Sagnaya i prin­ci­pali dete­nuti accu­sati di ter­ro­ri­smo nella prima di una serie di amni­stie. Molti dei pri­gio­nieri libe­rati quel giorno sono ora arruo­lati nelle file dell’Isis. Qual­cosa del genere è avve­nuto anche in Egitto il 28 gen­naio del 2011, quando con l’acqua alla gola per scio­peri e mani­fe­sta­zioni di piazza, la poli­zia sparì dalle strade, men­tre decine di isla­mi­sti radi­cali e dete­nuti comuni lascia­rono le carceri.

Il diplo­ma­tico siriano Bas­sam Bara­bandi ha spie­gato in que­sto modo gli eventi del mag­gio 2011: «Il timore di una pro­lun­gata rivolta per­mise il rila­scio dei pri­gio­nieri isla­mi­sti: sono alter­na­tivi alla con­te­sta­zione paci­fica». Dal 2012 in poi, i gruppi radi­cali, con il soste­gno indi­retto anche degli aiuti mili­tari sau­diti e occi­den­tali, hanno pro­li­fe­rato in Siria: dal fronte al-Nusra alla costola siriana di al-Qaeda fino allo Stato isla­mico (Isis). Quest’ultimo è chia­ra­mente sfug­gito dal con­trollo anche di Assad a tal punto che i jiha­di­sti sono stati impe­gnati non solo in una guerra senza quar­tiere con­tro l’Els ma hanno creato quasi uno stato nello stato. E così l’Isis ha ine­so­ra­bil­mente con­ti­nuato la sua avan­zata, pren­dendo la città set­ten­trio­nale di Raqqa. Il cen­tro, dove molti degli stra­nieri rapiti negli ultimi mesi sono scom­parsi, è diven­tato il quar­tiere gene­rale dei jiha­di­sti. È qui che Abu Bakr al-Baghdadi ha dichia­rato la fon­da­zione del suo calif­fato. Qual­cosa di simile è acca­duto spesso anche nella sto­ria egi­ziana con il ter­ro­ri­smo isla­mi­sta radi­cale inne­scato dalla con­ni­venza con l’intelligence mili­tare (si veda il Sinai).

Dama­sco e Washing­ton da nemici tor­nano a essere amici, que­sta volta con­tro una crea­tura «ter­ri­bile» che hanno entrambi con­tri­buito a far cre­scere ma che è poi sfug­gita al loro controllo.

Fonte:

http://ilmanifesto.info/quando-tra-assad-e-lisis-correva-buon-sangue/

GAZA FESTEGGIA LA TREGUA. MA NON DIMENTICHIAMOCI DELL’ASSEDIO E DELLA CISGIORDANIA

Dopo 50 giorni di bombardamenti da parte dell’esercito israeliano e 2140 martiri palestinesi (fonte: http://www.lettera43.it/cronaca/gaza-50esimo-giorno-di-guerra-raid-e-missili_43675138893.htm), oggi alle 19 ora locale, le 18 italiane, si è arrivati a un accordo per una tregua (dicono) duratura tramite mediazione egiziana. La tregua prevede l’apertura dei valichi della Striscia per consentire l’arrivo di aiuti umanitari e di materiale per la ricostruzione. Seguiranno altri negoziati. (Fonte: http://www.tgcom24.mediaset.it/mondo/2014/notizia/tregua-tra-hamas-e-israele-durera-tel-aviv-cessa-attacchi-festa-a-gaza_2064633.shtml )

Gaza tira un sospiro di sollievo e stasera è in festa.

 

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E’ bello vedere queste e altre immagini simili dopo tanta morte e distruzione e è giusto che i Palestinesi festeggino con gioia. Questo fa parte della loro resistenza, riuscire ancora a gioire dopo tanto orrore. Noi però che siamo qui non distraimoci pensando che sia finita. Non siamo come i media e i politici che si ricordano della Palestina solo quando c’è un attacco in atto. Ricordiamoci che la Palestina è sempre sotto l’assedio israeliano, che tanti palestinesi sono ancora rinchiusi nelle carceri israeliane e altri continuano a essere arrestati ogni giorno. Anche oggi, prima della tregua a Gaza, ci sono stati arresti in Cisgiordania e al momento sono in corso scontri tra palestinesi e esercito israeliano, come ci riporta la volontaria italiana Samantha Comizzoli che vive lì. Vi invito a seguire la sua pagina Facebook dove potete leggere continui aggiornamenti (https://www.facebook.com/samantha.comizzoli).

D. Q.

GAZA: IL BILANCIO DELLE VITTIME SALE A 2016 MORTI E 10.196 FERITI. NEGLI ULTIMI GIORNI MORTI MOLTI FERITI GRAVI

D. Q.

Gaza: superate le 2.000 vittime

Naharnet (18/08/2014). Il ministero della Salute palestinese ha dichiarato che il numero di vittime causate dal conflitto che ha colpito Gaza ha superato i 2.000 morti. Per l’esattezza, la dichiarazione del ministero parla di 2.016 morti e 10.196 feriti; tra le vittime, 541 bambini e 250 donne.Il numero di vittime è notevolmente cresciuto negli ultimi giorni dopo che molti feriti gravi sono morti negli ospedali di Gaza, Cairo e Gerusalemme.

 

Fonte:

http://arabpress.eu/gaza-superate-2-000-vittime/

1° ANNIVERSARIO DELL’ATTACCO CHIMICO SU AL GHOUTA – MOBILITAZIONE INTERNAZIONALE

10574265_513421402124505_497035575808450689_nUn appello a mobilitarsi il 21 agosto e creare una rete di solidarietà e supporto alla rivoluzione siriana.

Dichiarazione in solidarietà con la rivoluzione siriana

Mentre i siriani commemorano il primo anniversario degli attacchi chimici su Al-Ghouta, noi sottoscritti siamo solidali con i milioni di siriani che lottano per la dignità e la libertà fin dal marzo 2011. Rivolgiamo un appello ai popolo del mondo perchè agiscano in sostegno della rivoluzione ed i suoi scopi, pretendendo la fine immediata della violenza e del regime illegittimo di Assad.

Per il primo anniversario dell’attacco con armi chimiche, il 21 agosto, invitiamo i sostenitori della Rivoluzione siriana e delle sollevazioni per la libertà, la dignità e la giustizia sociale in tutta la regione e nel mondo, di organizzare eventi per denunciare le atrocità, la disinformazione, le menzogne ed i silenzi vergognosi e per mostrare la propia solidarietà, sia a livello politico che concreto, con la lotta dei cittadini siriani.

I rivoluzionari siriani hanno continuato a lottare per la libertà nonostante gli innumerevoli ostacoli che gli si sono parati innanzi. Per uccidere la rivoluzione, il regime siriano ha perseguito quattro strategie:
1) militarizzazione delle rivolte attraverso una campagna di repressione violenta delle proteste pacifiche che erano durate sei mesi;
2) l’islamizzazione dell’insurrezione, concentrandosi contro i gruppi secolari e lasciando mano libera ai jihadisti;
3) settarizzazione del conflitto attraverso l’assunzione di un numero crescente di combattenti sciiti da altri paesi, abbinata alla presa di mira di città e villaggi a maggioranza sunnita;
4) internazionalizzazione del conflitto, invitando l’Iran, la Cina e la Russia a svolgere un ruolo centrale. Allo stesso tempo, paesi come gli Stati Uniti, Arabia Saudita e Qatar hanno dato il loro sostegno a gruppi reazionari per sconfiggere la rivoluzione.

Anche il caso dei “Douma4” [https://www.facebook.com/douma4?fref=ts] dimostra come i rivoluzionari stiano lottando su due fronti: quattro coraggiosi attivisti che lavorano per il Centro di Documentazioni dei Violazioni sono stati rapiti nel dicembre 2013 da uomini armati, mascherati e sconosciuti. Il motivo principale dietro il rapimento è che questi militanti rappresentano il popolo siriano auto-cosciente e attivo, consapevole della sua forza quando agisce unitariamente, ma soprattutto dimostrano che il popolo rifiuta qualsiasi forma di sottomissione all’autoritarismo. Il sequestro di questi quattro militanti ricorda che il popolo siriano della rivoluzione per la libertà e la dignità non è solo contrario alla dittatura di Assad, ma anche e sempre schierato contro i gruppi reazionari ed opportunisti che sono contrari agli obiettivi della rivoluzione: la democrazia, la giustizia sociale, la fine di settarismo.

Il primo anniversario degli attacchi chimici è l’occasione per riaffermare l’importanza del processo rivoluzionario non solo in Siria ma anche in tutto il mondo arabo. La lotta dei siriani contro la dittatura, contro il jihadismo globale e contro l’imperialismo occidentale non deve essere visto come locale e nemmeno come regionale. È parte di un momento d’insurrezione in cui il mondo è diventato il campo di battaglia. Il nuovo sviluppo in Iraq, fra l’altro, la guerra a Gaza hanno mostrato che il destino della rivoluzione è interconnesso con la situazione in tutta la regione. La lotta dei siriani per la dignità, la libertà e l’autodeterminazione non può quindi essere separata dalla storica ribellione palestinese contro il sionismo, dalle lotte delle donne egiziane contro i militari e le molestie sessuali, dalla coraggiosa insurrezione in Bahrein contro il totalitarismo, dalla lotta curda per l’autodeterminazione, da quella del’ EZLN e delle altre popolazioni indigene nelle loro resistenza contro il razzismo ed il neoliberismo o le grandi ribellioni dei lavoratori contro le misure di austerity che portano solo povertà ai cittadini.

La rivoluzione siriana si trova ad un crocevia. Il mancato arresto dell’ondata contro-rivoluzionaria in Siria avrebbe enormi ripercussioni sulla società siriana per un lungo periodo di tempo e le sue implicazioni nella regione saranno enormi. Il successo della rivoluzione in Siria invece scatenerebbe le aspirazioni rivoluzionarie nel mondo arabo ed oltre, tra popoli che sono stati oppressi per troppo tempo.

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Syrian Revolution Support Baseshttps://www.facebook.com/Syrian.Revolution.Support.Bases?fref=ts
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Per favore, firmate la petizione ed aiutateci a diffonderla in tutto il mondo:

https://www.change.org/petitions/social-movements-activists-global-civil-society-a-global-day-of-action-and-solidarity-with-the-syrian-revolution

[Per sottoscrivere questa dichiarazione inviate una mail con nome, cognome, paese ed eventuale organizzazione/ruolo all’indirizzo srsbases@gmail.com]

Evento a Milano sabato 23:  https://www.facebook.com/events/534190049950791/

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Fonte:

http://diariodisiria.wordpress.com/2014/08/17/1-anniversario-dellattacco-chimico-su-al-ghouta-mobilitazione-internazionale/

 

Qui l’evento su Facebook:

https://www.facebook.com/events/844951738857890/?ref_dashboard_filter=upcoming

 

 

Fonte:

http://diariodisiria.wordpress.com/2014/08/17/1-anniversario-dellattacco-chimico-su-al-ghouta-mobilitazione-internazionale/

APPELLO PER UNA SOTTOSCRIZIONE STRAORDINARIA IN FAVORE DELL’OSPEDALE AL AWDA E DELLE ALTRE STRUTTURE DELL’UNION OF HEALTH WORK COMMITTEES OPERANTI NELLA STRISCIA DI GAZA

Posted on 1 agosto 2014 by

al awda

L’aggressione israeliana contro i Palestinesi della Striscia di Gaza si è rivelata ancora più feroce e distruttiva dell’operazione “Piombo Fuso”. I morti sono quasi 1.500, i feriti migliaia, le distruzioni sono immani, in un territorio che si trovava già al limite del collasso a causa del pluriennale assedio israeliano, con la complicità del regime egiziano. Le infrastrutture della Striscia sono state distrutte dai bombardamenti israeliani, che non risparmiano nemmeno gli ospedali ed i centri di ospitalità dell’ONU.
L’ospedale Al Awda, nel nord della Striscia di Gaza, è il solo presidio sanitario in uno dei territori più colpiti dalla violenza dell’aggressione israeliana. Anni di rapporto fraterno ci legano all’ospedale Al Awda ed ai suoi medici, infermieri, volontari. Conosciamo le difficoltà che incontrano nel loro lavoro in favore dei settori più poveri e disagiati della popolazione palestinese, il loro impegno per garantire il diritto alla salute ed i diritti e la dignità delle donne palestinesi, come è prassi per tutti gli operatori e le operatrici della rete di associazioni di cui, oltre all’ospedale Al Awda ed altri ambulatori, fa parte anche l’associazione “Ghassan Kanafani”, nostro partner nella realizzazione dell’asilo “Vittorio Arrigoni”.
Lanciamo, quindi, un appello per una sottoscrizione straordinaria in favore dell’ospedale Al Awda e delle altre strutture dell’Union of Health Work Committees operanti nella Striscia di Gaza. In questo momento, è pressoché impossibile far giungere a Gaza medicinali ed altri aiuti umanitari, mentre è possibile far pervenire il denaro necessario per acquistare i materiali indispensabili, a cominciare dal carburante per i generatori, fonte di energia vitale a fronte della distruzione della sola centrale elettrica di Gaza.

LE DONAZIONI POSSONO ESSERE EFFETTUATE :

ON LINE : con carta di credito da questo sito (icona DONATE nella colonna a sinistra) sulla carta PayPal numero 5338750110925023

BONIFICO BANCARIO: Conto 5000 1000 65881 di Banca Prossima S.p.A. intestato a “Associazione Dima”

IBAN  IT83 Q033 5901 6001 0000 0065 881

A donazione effettuata, inviare mail a [email protected] con nome e mail, così sarete aggiunti alla lista dei donatori. Alla stessa mail potete scrivere per chiedere ulteriori informazioni.

 

 

 

Fonte:

http://www.freedomflotilla.it/2014/08/01/appello-per-una-sottoscrizione-straordinaria-in-favore-dellospedale-al-awda-e-delle-altre-strutture-dellunion-of-health-work-committees-operanti-nella-striscia-di-gaza/