Missouri, ecco come la polizia uccide i neri

Dodici colpi a bruciapelo: un video mostra il secondo omicidio di St.Louis. E in un altro video un agente minaccia di morte la folla. L’hanno sospeso

di Checchino Antonini

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Un agente di polizia della cittadina di St. Ann, nel Missouri, è stato sospeso a tempo indeterminato per aver puntato un fucile contro i manifestanti a Ferguson minacciandoli di morte. Una notizia che non ha precedenti in Italia dove da anni chi fa servizio di ordine pubblico ha le modalità identiche a chi opera nei teatri della guerra globale. Tutto ciò grazie a una riforma del reclutamento delle forze dell’ordine che prevede la precedenza assoluta per i reduci di guerra.

L’ufficiale è stato successivamente identificato come il luogotenente Ray Albers, un veterano con vent’anni di servizio, come ha spiegato Aaron Jimenez, della polizia di St.Ann, al St. Louis Post-Dispatch.

In un video si vede il corpulento, poliziotto calvo è puntare il suo fucile semi-automatico contro una folla di persone, tra cui alcuni giornalisti, che camminavano lungo una strada di Ferguson poco prima della mezzanotte di martedì.

Ecco dunque altre foto e altri video dal Missouri, sconvolto dalle proteste della popolazione nera dopo la sequela di omicidi da parte di poliziotti perlopiù bianchi.

Immagini forti, che potrebbero urtare la vostra sensibilità. Anzi, che potrebbero, dovrebbero, sconvolgerci. E indignarci. Perché cose del genere accadono spesso anche a queste latitudini come dimostra la triste litania di nomi che abbiamo imparato a conoscere grazie alle denunce di amici, familiari di vittime di malapolizia, o grazie ad associazioni che si battono per memoria, verità e giustizia. Ieri, 20 agosto, la polizia di St. Louis, nel Missouri, ha diffuso il video della morte di Kajieme Powell, un ragazzo afroamericano di 25 anni ucciso martedì dalla polizia a circa 5 chilometri da Ferguson, dove da settimane si protesta per l’uccisione di un altro ragazzo nero, Michael Brown, 18 anni. Nel video si vede Powell camminare su un marciapiede con un oggetto in mano (un coltello, secondo la polizia e alcuni testimoni). Powell viene raggiunto da due agenti che gli puntano le pistole addosso ordinandogli di sdraiarsi in terra. Powell non obbedisce e si muove verso i due agenti che a quel punto sparano. Dodici colpi di pistola. Questo il video:

Intanto, a Ferguson, è comparso il ministro della Giustizia, Eric Holder, mandato da Obama dopo che anche la notte precedente ha tenuto scena la piazza per l’uccisione del 18/enne nero Michael Brown da parte di un poliziotto. Nella protesta più pacifica degli ultimi dieci giorni, nella notte si sono comunque verificati tafferugli con la polizia che ha arrestato altre 47 persone. La popolazione afroamericana di Ferguson non si fida della giustizia bianca locale e sul luogo sono arrivati già da una settimana fa 40 agenti dell’Fbi che hanno già interrogato oltre 100 testimoni; ora faranno il punto con Holder sull’inchiesta relativa al rispetto dei diritti civili. Il ministro della Giustizia ha promesso un’inchiesta “equa e approfondita” e incontrerà anche i genitori di Michael Brown i cui funerali di terranno lunedì prossimo.

 

La visita del ministro della Giustizia coincide con la convocazione del Gran Giurì locale, che esaminerà le prove contro il poliziotto Darren Wilson – secondo l’autopsia indipendente, il giovane è stato colpito da sei proiettili, due dei quali alla testa – e dovrà decidere se incriminarlo per l’uccisione di Michael. Da quel maledetto giorno, l’agente è stato solo sospeso con paga. Nessuno sa dove sia dopo che la polizia ha deciso di allontanarlo da casa per le minacce ricevute, ma la solidarietà nei suoi confronti cresce su Facebook dove il profilo aperto per sostenerlo ha già superato i 30 mila “mi piace”. Intanto, crescono le richieste per far rimuovere il pubblico ministero Bob McCulloch del Missouri dal caso di Michael Brown.

 

La famiglia del giovane ha tentato invano di ottenere la sua ricusazione, in quanto teme che possa non essere imparziale a causa dei suoi legami con il dipartimento di polizia. Il padre di McCulloch era un agente che venne ucciso da un nero; la madre è impiegata per il dipartimento, il cugino e lo zio sono pure poliziotti. Ma il pubblico ministero ha fatto sapere che non intende rinunciare al caso.

 

 

 

 

Fonte:

http://popoffquotidiano.it/2014/08/21/missouri-ecco-come-la-polizia-uccide-i-neri-video/

 

Leggi anche:

http://popoffquotidiano.it/2014/08/19/90-anni-pacifista-ebrea-arrestata-mentre-protesta-per-brown/

http://popoffquotidiano.it/2014/08/18/lautopsia-su-brown-sei-proiettili-di-cui-due-alla-testa-mentre-aveva-le-mani-alzate/

 

 

 

James Foley, il boia avrebbe accento britannico

L’uomo che ha decapitato il reporter Usa è di Londra? Cameron: «Sempre più probabile». E Twitter blocca il video.

 James Foley in ginocchio prima della decapitazione. Alle sue spalle un miliziano dell’Isis.

Chimica e mostri

20 agosto 2014 – 22:08cape-ray

Nonostante le celebrazioni di successo del Pentagono per il completamento delle operazioni a bordo della Cape Ray, il presidente Obama avrebbe imposto la “completa eliminazione” dell’arsenale Chimico Siriano, in pratica, gli americani hanno fatto finora solo la metà del lavoro [ndr.: come abbiamo più volte ribadito dando voce al mondo scientifico Greco].

Nessuno, tranne i 64 esperti a bordo della Cape Ray, sa cosa esattamente è accaduto in acque internazionali al largo della costa di Creta.

La posizione è scelta dagli Stati Uniti per evitare di dover rispondere alla domanda più importante: cosa succede ai residui del processo di Idrolisi ?

La massa complessiva dei residui è stimata in circa dieci volte quella iniziale, i residui sono meno pericolosi della loro composizione iniziale, ma comunque ugualmente tossici.

L’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza la Sig.ra Catherine Ashton, ed il Presidente Barroso, entrambi dell’Unione europea, continuano a rassicurare … ma chi gli crede ??

Rob Malone, che lavora nella agenzia Edgewood Chemical & Biological Center degli Stati Uniti è uno dei 64 specialisti di armi chimiche che sono stati inviati nel Mediterraneo a bordo della Cape Ray, a sorpresa lo scorso gennaio dichiarò:

rob_malone«… il risultato di questo processo di neutralizzazione (l’Idrolisi) creerà circa 1,5 milioni di litri di un “emissario” tossico che deve essere smaltito, ma che non può essere utilizzato come arma chimica.

L’inattivazione chimica è ottenuta attraverso l’uso di sostanze tra cui l’acqua, la candeggina e idrossido di sodio. Queste sostanze sono contenute in 220 serbatoi da 25.000 litri, circa ciascuno.

Gli effluenti sono simili ad altri composti pericolosi e tossici che generano alcuni processi industriali. C’è un mercato commerciale a livello mondiale per lo smaltimento di tali rifiuti».

Ma la destinazione di tali residui non la conosce nessuno, l’unica cosa che sappiamo per ora, sulla base di comunicazioni ufficiali, è che la Germania si è impegnata ad accettare quantitativi di agenti dell’Iprite inattivati per l’ulteriore lavorazione nella fabbrica di Munster, mentre gran parte degli altri residui si tratteranno in un impianto a Port Arthur, in Texas, che è stato già usato in passato per la distruzione americana di armi chimiche.

Questo riguarda comunque l’Iprite ed il Methylphosphonyl Difluoride (DF) sostanza chimica di base del Sarin … che dire delle decine di tonnellate del gas VX, enormemente più letale del Sarin che presumibilmente era in possesso di Assad ?

E’ stato scelto il processo di Idrolisi per il semplice motivo che altri trattamenti (ad esempio la Pirolisi ovvero la “combustione” in assenza di ossigeno) richiederebbero anni, per tali quantità.

Gli scienziati di 14 paesi avevano lanciato l’allarme su possibili perdite in mare. Riusciremo mai sapere che cosa esattamente è accaduto nel Mediterraneo, in acque internazionali ad ovest di Creta ?

Liberamente tradotto da : fonte

 

 

Tratto da http://www.sosmediterraneo.org/chimica-mostri/

Welcome to Ferguson, Missouri, America.

Ci troviamo difronte ad uno stato di eccezione -l’omicidio, gli scontri, l’arresto dei giornalisti- tale da far intervenire il presidente Obama?

15 / 8 / 2014

Ma è davvero un’ eccezione Ferguson?

La città è appena a nord di una delle aree metropolitane più “segregate” degli Stati Uniti, St. Louis.

“L’intera area, in questa città è una polveriera razziale,” dice un uomo che protesta a Ferguson, Missouri, dopo che il colpo di pistola di un ufficiale di polizia ha ucciso l’adolescente Michael Brown.

Questa è una delle spiegazioni del perché il sobborgo di St. Louis dopo essersi riempito di manifestanti, ha visto, nelle notti scorse, duri scontri culminati con una pioggia di proiettili di gomma e di gas lacrimogeni. Da giorni la città è pattugliata da mezzi blindati ed i giornalisti, quando non vengono arrestati mentre svolgono il loro lavoro, hanno portato alla luce una storia di segregazione razziale, di disuguaglianze economiche e legislative e di abusi di polizia da far scrivere al The New York Times “ tutto questo è il prodotto della tensione ormai evidente per le strade. ”

Le disparità razziali che definiscono Ferguson sono davvero scioccanti. Più di due terzi dei residenti della città sono neri, ma quasi tutti i funzionari dell’amministrazione pubblica e gli agenti di polizia sono bianchi; così come il sindaco e il capo della polizia, cinque dei sei membri del consiglio della città, tutti tranne uno dei membri del consiglio scolastico.

Spesso questi poliziotti indagano e arrestano persone che non sono come loro. Nel 2013, il 92% delle indagini e l’86% degli arresti a Ferguson hanno coinvolto afro-americani. I numeri non corrispondono affatto ai livelli di criminalità: tra i bianchi uno su tre è stato scoperto in possesso di armi illegali e/o droghe, mentre solo uno su cinque tra gli afro-americani ha commesso un reato da arresto.

Allora ma è davvero un’ eccezione Ferguson?

La maggior parte delle città in America sono ancora altamente “segregate” quando si tratta del rapporto tra popolazione bianca e nera. Anche la maggior parte dei residenti neri di Ferguson vive al di sotto della soglia di povertà; questo è un dato (il 28%) coerente con la percentuale di neri americani che vivono in povertà in tutto il paese.

Il punto è che si tratta di una storia particolare e le statistiche di Ferguson contano sino ad un certo punto, poi sono lo shock per una morte violenta e inutile, l’indignazione e gli scontri che ne susseguono ad essere amplificate in modo esponenziale.

Si può sopportare la miseria, la povertà, la segregazione e gli abusi quotidiani quando non sono raccontati oppure quando avvengono da un’altra parte.

L’applicazione disuguale della forza della legge, alla base dell’idea di segregazione, è anche ben documentato in tutto il paese. Per cinque bianchi che usano droghe illegali – come i neri o altri-  i bianchi vengono arrestati e detenuti con un tasso minore di dieci volte rispetto a quello dei neri. E la disparità è evidente anche in altri modi come per gli agenti di polizia; per esempio, solo il 10% delle reclute del Dipartimento di Polizia di New York nel 2013 erano neri.

Il candore della leadership politica di Ferguson è un tratto nazionale.

Dall’abbandono della segregazione solo quattro Stati hanno eletto i senatori neri: Illinois, Massachusetts, South Carolina e New Jersey. Gli elettori degli altri venticinque Stati ancora non hanno mai eletto un rappresentante nero.

Sappiamo anche che l’uccisione di una giovane persona di colore e disarmata non è il caso isolato di Ferguson. Non lo era a Sanford o Jacksonville; né a Staten Island; Beavercreek, Ohio; Dearborn Heights, Michigan; Pasadena, in California; o una qualsiasi delle altre città dove è avvenuto un omicidio a sfondo razziale

Siamo davanti ad una crisi di sistema.

Ma Ferguson non ne è il cuore pulsante, ma è semplicemente l’ultimo capillare scoppiato in ordine di tempo; e che in tanti si sorprendano e si indignino per le proteste e la rabbia nelle strade di Ferguson, piuttosto che della risposta delle forze di polizia, con la militarizzazione di un territorio sovrano, è la migliore spiegazione di quello che sta avvenendo.

GAZA, LUGLIO 2014: UMANITA’ DOVE SEI? – PARTE QUINTA

Alcune ore fa scrivevo dei volti dei bambini gazawi in fila per i regali per l’Eid al-Fitr che nonostante quello che sta facendo Israele ci stanno provando ancora a essere bambini:
https://www.peruninformazionelibera.blog/gaza-luglio-2014-umanita-dove-sei-parte-quarta/
Solo ora ho avuto il tempo di leggere le altre notizie. A meta pomeriggio 10 bambini sono Stati uccisi in un doppio bombardamento su un ospedale e su un parco vicino a un campo profughi. E il boia Netanyahu afferma che “Non c’è guerra più giusta di questa” e parla ancora di terrorismo. Il mondo lo sta ancora a sentire a cominciare dal premio nobel della pace, Obama. Ma quale guerra? Quale terrorismo? Israele sta compiendo l’ennessimo attacco genocida, sta bombardando civili, sta uccidendo bambini, sta lanciando bombe su ospedali, su scuole, ovunque a Gaza. I carri armati israeliani stanno in questo momento colpendo pesantemente le zone più abitate.
Qui il link di Nena News aggiornato fino a ieri sera: http://nena-news.it/comincia-la-festa-del-fitr-ma-gaza-ferita-e-devastata-pochi-potranno-celebrarla

E’ di poco fa la notizia che Israele ha colpito un’altra scuola dell’Unrwa a est di Gaza che faceva da rifugio a persone sfollate: https://www.facebook.com/Gazahello/posts/812739372077742
Gli attacchi si  stanno intensificando di minuto in minuto e mentre scrivo si rincorrono le notizie sul web. Scrive Hani Siliman Salamah: “Israele sta colpendo da pazzi, massiccio bombardamento a est, ovest, nord e sud della Striscia”. Fonte: https://www.facebook.com/hani.s.salamah/posts/10203850278878519

Chiunque abbia un briciolo d’umanità pensando a quello che fa Israele non può che pensare a queste parole: pulizia etnica.
Sarà un’ altra lunga notte per Gaza.

 

D. Q.

GAZA, LUGLIO 2014: UMANITA’ DOVE SEI? – PARTE QUARTA

Oggi dovrebbe essere un giorno di festa per i palestinesi, per la fine del Ramadan, ma molti non potranno festeggiare perchè sono morti sotto le bombe o perchè hanno perso tutto. Mentre si continua a blaterare di tregue – continuando però a bombardare – e di terrorismo, la popolazione gazawi è in ginocchio fra martiri, sfollati e feriti.
Ma l’orrore sionista sembra non avere fine, prepara progetti a lungo termine con i suoi complici criminali tra cui anche l’Italia: non basta che il nostro paese venda armi a Israele, no, ospiterà anche  le sue esercitazioni in terra di Sardegna. Storia, ahime, non nuova.
In tutto ciò oggi l’umanità è nei volti dei bambini palestinesi in fila per i regali dell’Eid a Gaza City, bimbi che nonostante tutto ci provano ancora a essere bambini. E nei volontari che oggi hanno fatto visita ai pazienti gazawi nell’ospedale di Nablus, testimoni che ci ricordano che la Palestina è una, dal fiume al mare.

 

D. Q.

Qui un articolo sulle esercitazioni dei caccia isreeliani previsti per settembre in Sardegna:
http://bdsitalia.org/index.php/altre-campagne/bds-armamenti/1387-sardegna-esercizi

Cosa purtroppo già fatta in passato. Leggi anche qui: http://baruda.net/2010/12/10/italia-israele-esercitazioni-militari-congiunte-tra-sardegna-e-neghev/

Qui l’articolo di Samantha Comizzoli sulla visita di oggi all’ospedale di Nablus:

lunedì 28 luglio 2014

GAZA ALL’OSPEDALE DI NABLUS

E’ il primo giorno di Eid, ma siamo in Palestina e oggi molti, moltissimi qui non festeggeranno l’Eid. E’ un giorno per gli “shalid”, i martiri, tantissimi che ci sono stati a Gaza e in West Bank ad opera di israele. Oggi, quindi, abbiamo iniziato la giornata andando al Nuovo ospedale Al Nahia di Nablus, internazionali e palestinesi per far visita ad alcune vittime di Gaza che sono qui.
Gli amici palestinesi che hanno organizzato la visita hanno una t-shirt con scritto “all for Gaza”.
Iniziamo da due donne Gazawi, una ha un cancro ed è qui per essere operata, l’altra è vittima dei bombardamenti. Seguono altri pazienti Gazawi che sono qui per essere operati di cancro. Attendevano da mesi, ed ora, ora che sono ricoverati, mentre sono qui la loro casa è stata distrutta o hanno perso dei famigliari.
Ma all’ospedale di Nablus c’è anche un bambino vittima dei bombardamenti israeliani a Gaza. Ha 12 anni ed è attualmente in coma. E’ stato operato ieri. La bomba gli ha portato via parte del colon e dello stomaco perchè l’esplosione ha colpito all’altezza del bacino. Il medico che l’ha operato non aveva una faccia speranzosa, purtroppo; ha detto “anche se riesce a risvegliarsi, che vita potrà avere senza colon e stomaco?”

Ringrazio gli shebab di Nablus per aver organizzato questa visita. Troverete un report dettagliato con i nomi dei pazienti (in inglese) sul sito www.solidaritymovementsfp.wordpress.com

 

Fonte:

 

http://samanthacomizzoli.blogspot.it/2014/07/gaza-allospedale-di-nablus.html

Qui gli utlimi aggiornamenti da Nena News:

 

28 lug 2014
by Redazione

Le Nazioni Unite si uniscono all’appello di Obama per un cessate il fuoco senza condizioni. Netanyahu vuole il disarmo di Hamas, ma il movimento islamico rifiuta. Diverse ore di calma nella Striscia.

Mideast Israel Palestinians

 

AGGIORNAMENTI:

ORE 16.15 – RECUPERATI 12 CORPI FINORA A GAZA, 7 MEMBRI DELLA FAMIGLIA AL-KADIH A KHAN YOUNIS E 5 ALTRI AD AL-KHUZAA

ORE 15.45 – ABBAS A CAPO DI DELEGAZIONE PALESTINESE AL CAIRO CON HAMAS E JIHAD ISLAMICA. ISRAELE PIÙ LONTANA DAL CESSATE IL FUOCO E DAGLI USA

Abu Mazen guiderà una delegazione composta da membri di Hamas e della Jihad islamica al Cairo per i colloqui sulla proposta egiziana di cessate il fuoco. Lo ha detto un funzionario palestinese, che ha aggiunto che “l’obiettivo è quello di esaminare con i dirigenti egiziani per soddisfare le richieste palestinesi e mettere fine all’aggressione israeliana”.

E mentre il segretario generale dell’Onu dichiara che “entrambe le parti hanno espresso “serio interesse per un ulteriore cessate il fuoco di 24 ore”, da Israele arrivano segnali discordanti. Il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha detto che “la dichiarazione del Consiglio di sicurezza dell’Onu su Gaza “non guarda ai bisogni di Israele”, mentre secondo Isaac Herzog, leader dell’opposizione israeliana, “Israele ha il diritto di rispondere e decidere quando fermare il fuoco e quando agire per neutralizzare le fonti di fuoco.

Herzog ha anche parlato del raffreddamento delle relazioni tra Israele e Stati Uniti negli nell’ultima settimana: “ Le posizioni conflittuali di Israele e Stati Uniti, resi pubblici negli ultimi due giorni, rivelano un malfunzionamento prolungato dei legami tra il governo Netanyahu e l’amministrazione Obama, una disfunzione che danneggia gli interessi di Israele. E’ bene che il pubblico capisca che stiamo entrando nella fase successiva, la fase diplomatica in cui lasciamo la mischia e in cui il nostro credito è limitato”.

ORE 14.30 – ESTRATTI 7 CORPI DALLE MACERIE AD AL-KHUZAA. RAID ISRAELIANI DIFFUSI SU TUTTA LA STRISCIA

ORE 13.45 – SCONTRI A FUOCO TRA MILIZIANI DI HAMAS ED ESERCITO ISRAELIANO A KHAN YOUNIS. DIVERSI RAZZI SPARATI VERSO IL SUD DI ISRAELE

ORE 12.15 – UN BAMBINO UCCISO NEI RAID ISRAELIANI, DIVERSI ALTRI FERITI. ABBAS:”UNICA PROPOSTA VERA E’ QUELLA EGIZIANA”

Al-Jazeera riferisce che un bambino è stato ucciso poco fa in un raid in un raid israeliano a Jabaliya, mentre diversi altri sarebbero rimasti feriti.

Il presidente dell’Anp Abu Mazen, in viaggio in Arabia Saudita, ha detto di non aver partecipato al meeting di sabato a Parigi perché l’Egitto, la cui proposta per una tregua resta “l’unica sul tavolo”, non è stato invitato. “La proposta egiziana – ha dichiarato Abbas – accoglie tutte le richieste dei palestinesi e il suo rifiuto ha portato solo a un’escalation della violenza a Gaza”. Israele ha agito “mostruosamente e in violazione di tutte le leggi internazionali”. Stando a quanto dichiarato dal presidente dell’Anp i sauditi, che hanno accettato di donare 500 milioni di dollari per Gaza, finanzierebbero anche il team Onu incaricato di investigare sui crimini di guerra nella Striscia.

Intanto i parlamentari israeliani del Likud e di Casa Ebraica hanno emesso un avviso contro la richiesta del presidente americano Barack Obama di un cessate il fuoco immediato.

ORE 11.30 – BAMBINI PALESTINESI SFOLLATI IN FILA PER I REGALI DELL’EID A GAZA CITY (foto di Michele Giorgio)

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ORE 11.20 – BRIGATE AL-QASSAM ANNUNCIANO UCCISIONE DI DUE SOLDATI ISRAELIANI A EST DI JABALIYA

Le brigate al-Qassam annunciano l’uccisione di due soldati israeliani e il ferimento di altri due durante i violenti scontri in corso con le truppe israeliane che cercano di penetrare a est di Jabaliya.

ore 11 – 91 SOLDATI ISRAELIANI UCCISI SECONDO HAMAS, PER L’ESERCITO SONO 43

Oggi in un comunicato, le Brigate Al Qassam, braccio armato di Hamas, hanno dichiarato di aver ucciso 91 ufficiali e soldati israeliani durante scontri nella Striscia di Gaza. Secondo il governo e l’esercito israeliano, i militari morti sono invece 43.

ore 10.50 – BOMBARDAMENTI ISRAELIANI SUL CAMPO PROFUGHI DI AL-NUSEIRAT

ore 10.30 – HAMAS: “L’EGITTO PRESENTERA’ UNA NUOVA BOZZA DI TREGUA”

Il leader di Hamas in Egitto, Moussa Abu Marzouk, ha detto che l’Egitto presenterà una nuova bozza di tregua o modificherà la precedente – che prevedeva il cessate il fuoco senza alcuna condizione – seguendo le richieste di Hamas e delle altre fazioni palestinesi, che chiedono l’allentamento dell’assedio della Striscia-

ore 10 – MINISTERO DELLA SALUTE DI GAZA: I MORTI AD OGGI SONO 1.032, NON 1.062

ore 9.20- ALTRE DUE VITTIME PALESTINESI. IL CONSIGLIO DI SICUREZZA DELL’ONU CHIEDE IL CESSATE IL FUOCO IMMEDIATO

Un uomo di 65 anni è stato ucciso in un raid dell’esercito israeliano  nella parte orientale della Striscia di Gaza, mentre un altro palestinese è morto stanotte per le ferite riportate in un attacco dei giorni scorsi. L’esercito ha dichiarato di aver colpito la Striscia in risposta al lancio di un razzo che stamattina è caduto nella zona di Ashkelon.

Il Consiglio di sicurezza dell’Onu, al termine di una riunione d’emergenza, ha chiesto il cessate il fuoco immediato basato sulla piena implementazione della risoluzione 1860 del 2009, emessa durante l’operazione “Piombo Fuso” del 2008-2009. Il Consiglio ha inoltre sottolineato il bisogno di aiuti umanitari nella Striscia e quello di maggiori sovvenzioni all’UNRWA.

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Diretta di ieri, domenica 27 luglio

della redazione

Gaza, 28 luglio 2014, Nena News  – I muezzin di Gaza recitando la professione di fede hanno annunciato questa mattina la fine del mese di Ramadan e l’inizio della ricorrenza islamica del Fitr. Tre giorni di festa, specie per i bambini, che tanti qui a Gaza non potranno vivere. Troppi i lutti (oltre mille), 6mila feriti, le distruzioni di migliaia di case, le sofferenze. Sono oltre 180 mila gli sfollati ammassati in scuole ed edifici abbandonati o ancora in costruzione.  Molte di queste persone non hanno più una casa e sono destinate ad un futuro di estremo disagio.

Allo stesso tempo cresce di nuovo la speranza di un cessate il fuoco permanente che metta fine alla devastante offensiva militare israeliana contro Gaza cominciata l’8 luglio. I Paesi membri del Consiglio di Sicurezza dell’Onu hanno approvato una risoluzione per una tregua umanitaria incondizionata. Lo stesso ha chiesto Barack Obama durante una conversazione telefonica con il primo ministro israeliano Netanyahu. Il presidente americano ha anche precisato che qualsiasi accordo per Gaza dovrà passare obbligatoriamente per il disarmo delle milizie palestinesi, una delle richieste principali di Israele che, secondo il governo Netanyahu, non era contemplata nella proposta di cessate il fuoco del segretatio di stato John Kerry, respinta dallo Stato ebraico la scorsa settimana.

Nella telefonata, Obama  ha rimarcato  l’importanza di garantire una sicurezza duratura a Israele, che passa attraverso la “smilitarizzazione di Gaza” e il “disarmo dei gruppi terroristici”. Ha tuttavia anche sottolineato “la necessità di stabilire un cessate il fuoco umanitario immediato, senza
condizioni per arrivare a una cessazione definitiva delle ostilità”, che permetta ai palestinesi della Striscia  di condurre una vita normale e di avviare prospettive di sviluppo  a lungo termine per Gaza.

E’ difficile credere che Hamas possa accettare il disarmo di Gaza senza aver prima ottenuto un radicale cambiamento della condizione di Gaza e dei suoi abitanti, tale da poter affermare di aver raggiunto gli obiettivi dichiarati all’inizio del conflitto.

Da alcune ore regna una calma relativa a Gaza e nei centri abitati israeliani vicini al territorio palestinese. Dalla mezzanotte non sono stati lanciati altri razzi verso Israele e l’aviazione dello Stato ebraico ieri sera ha cessato i suoi raid. In precedenza le sue parti avevano continuato a colpirsi e i bombardamenti israeliani avevano fatto alcune vittime, tra le quali una donna della piccola comunità cristiana palestinese. Nena News

Fonte:

NETANYAHU: “LA PRESSIONE INTERNAZIONALE NON CI FERMERA”. INFATTI, 7 MORTI AL CAMPO DI JABALYA MENTRE GAZA E’ SENZA ELETTRICITA’

dalla redazione

AGGIORNAMENTO ore 01.35 – IL 75% DI GAZA CITY SENZA ELETTRICITA’

A causa di un bombardamento israeliano che ha danneggiato la linea elettrica di Gaza City, il 75% della città è ora senza elettricità.

AGGIORNAMENTO ore 01.30 – MASSACRO A JABALIYA: 7 MORTI

Bombardato il campo di Jabaliya, a Nord della Striscia, mentre un gruppo di persone era riunita fuori. Almeno sette i morti

AGGIORNAMENTO ore 19.30 – NETANYAHU: “LA PRESSIONE INTERNAZIONALE NON CI FERMERA’”

Il premier israeliano Netanyahu ha parlato ora alla stampa: “La pressione internazionale – ha detto – non ci impedirà di agire con tutto il nostro potere”. Netanyahu ha detto di aver avuto “buone discussioni” al telefono con i leader europei e il presidente Usa Obama, ma non intende cambiare idea sull’operazione contro Gaza: “Finiremo quando il nostro obiettivo sarà realizzato. Ovvero riportare la pace”.

L’ipotesi di un cessate-il-fuoco era già stata esclusa ieri (“Non è in agenda”) e oggi pare essere stata completamente cancellata dall’orizzonte. “Siamo nel mezzo di una battaglia”, ha detto Netanyahu, liquidando chi gli ha domandato se ci fossero ancora spiragli per una tregua. L’obiettivo del suo governo è stato chiaro sin dall’inizio dell’operazione ‘Barriera protettiva’: cancellare Hamas che, secondo il premier dello Stato ebraico usa i civili come scudi umani, mentre Israele ha investito energie e denaro per proteggere i suoi cittadini. Ma i raid israeliani hanno raso al suolo case private, nonostante la presenza di civili, donne e bambini, sui tetti.

Netanyahu ha anche chiarito che il suo governo sa bene come garantire la sicurezza di Israele e impedirà che “Giudea e Samaria” (la Cisgiordania) diventino “altre 20 Gaza”, chiamando direttamente in causa il segretario di Stato statunitense, John Kerry, sponsor del negoziato tra israeliani e palestinesi fallito ad aprile, che aveva fatto pressioni per l’allentamento del controllo israeliano sulla Cisgiordania.

 

 

Fonte

http://nena-news.it/diretta-gaza-vicina-linvasione-via-terra/#sthash.fojs8YOl.dpuf

GAZA, LUGLIO 2014: UMANITA’ DOVE SEI? – PARTE PRIMA

Se le “democrazie” di tutto il mondo – compreso lo stato italiano – forniscono a Israele armi di distruzione di massa; se i media mainstream gridano allo scandalo di centinaia di razzi lanciati – che per fortuna non hanno fatto vittime ( e spero non ne faranno) – e chiamano terroristi i palestinesi, di cui la maggior parte donne e bambini, ammazzati come mosche; se i coloni israeliani si godono lo spettacolo dei bombardamenti seduti come a un cinema all’aperto e applaudendo a ogni esplosione; se Israele continua a fare vittime innocenti, dov’è l’umanità? Negli oltre cento martiri palestinesi di questi giorni.

D. Q.

 

Qui la foto che ritrae i coloni di Sderot mentre vanno al “cinema”:

“[…] gli abitanti di Sderot, nel sud di Israele, ieri notte hanno portato le loro sedie in cima alla collina che sovrasta la Striscia di Gaza per godersi lo spettacolo “cinematografico” dei bombardamenti: secondo il giornalista Allan Sorensen, che ha postato la foto su Twitter, gli spettatori applaudivano a al suono di ogni esplosione.”

sderot cinema

Fonte: Nena News

 

Qui un articolo de il manifesto sulle armi fornite a Israele:

Ecco il contributo dell’Italia ai raid dell’aviazione di Tel Aviv

— Manlio Dinucci,

Armi. La cooperazione sancita da una legge del 2005. Coinvolte le forze armate all’interno di un vincolo di segretezza

I cac­cia­bom­bar­dieri che mar­tel­lano Gaza sono F-16 e F-15 for­niti dagli Usa a Israele (oltre 300, più altri aerei ed eli­cot­teri da guerra), insieme a migliaia di mis­sili e bombe a guida satel­li­tare e laser.

Come docu­menta il Ser­vi­zio di ricerca del Con­gresso Usa (11 aprile 2014), Washing­ton si è impe­gnato a for­nire a Israele, nel 2009–2018, un aiuto mili­tare di 30 miliardi di dol­lari, cui l’amministrazione Obama ha aggiunto nel 2014 oltre mezzo miliardo per lo svi­luppo di sistemi anti-razzi e anti-missili. Israele dispone a Washing­ton di una sorta di cassa con­ti­nua per l’acquisto di armi sta­tu­ni­tensi, tra cui sono pre­vi­sti 19 F-35 del costo di 2,7 miliardi. Può inol­tre usare, in caso di neces­sità, le potenti armi stoc­cate nel «Depo­sito Usa di emer­genza in Israele». Al con­fronto, l’armamento pale­sti­nese equi­vale a quello di chi, inqua­drato da un tira­tore scelto nel mirino tele­sco­pico di un fucile di pre­ci­sione, cerca di difen­dersi lan­cian­do­gli il razzo di un fuoco artificiale.

Un con­si­stente aiuto mili­tare a Israele viene anche dalle mag­giori potenze euro­pee. La Ger­ma­nia gli ha for­nito 5 sot­to­ma­rini Dol­phin (di cui due rega­lati) e tra poco ne con­se­gnerà un sesto. I sot­to­ma­rini sono stati modi­fi­cati per lan­ciare mis­sili da cro­ciera nucleari a lungo rag­gio, i Popeye Turbo deri­vati da quelli Usa, che pos­sono col­pire un obiet­tivo a 1500 km. L’Italia sta for­nendo a Israele i primi dei 30 veli­voli M-346 da adde­stra­mento avan­zato, costruiti da Ale­nia Aer­mac­chi (Fin­mec­ca­nica), che pos­sono essere usati anche come cac­cia per l’attacco al suolo in ope­ra­zioni bel­li­che reali.

La for­ni­tura dei cac­cia M-346 costi­tui­sce solo una pic­cola parte della coo­pe­ra­zione mili­tare italo-israeliana, isti­tu­zio­na­liz­zata dalla Legge n. 94 del 17 mag­gio 2005. Essa coin­volge le forze armate e l’industria mili­tare del nostro paese in atti­vità di cui nes­suno (nep­pure in par­la­mento) viene messo a cono­scenza. La legge sta­bi­li­sce infatti che tali atti­vità sono «sog­gette all’accordo sulla sicu­rezza» e quindi segrete. Poi­ché Israele pos­siede armi nucleari, alte tec­no­lo­gie ita­liane pos­sono essere segre­ta­mente uti­liz­zate per poten­ziare le capa­cità di attacco dei vet­tori nucleari israe­liani. Pos­sono essere anche usate per ren­dere ancora più letali le armi «con­ven­zio­nali» usate dalla forze armate israe­liane con­tro i palestinesi.

La coo­pe­ra­zione mili­tare italo-israeliana si è inten­si­fi­cata quando il 2 dicem­bre 2008, tre set­ti­mane prima dell’operazione israe­liana «Piombo fuso» a Gaza, la Nato ha rati­fi­cato il «Pro­gramma di coo­pe­ra­zione indi­vi­duale» con Israele. Esso com­prende: scam­bio di infor­ma­zioni tra i ser­vizi di intel­li­gence, con­nes­sione di Israele al sistema elet­tro­nico Nato, coo­pe­ra­zione nel set­tore degli arma­menti, aumento delle eser­ci­ta­zioni mili­tari con­giunte.
In tale qua­dro rien­tra la «Blue Flag», la più grande eser­ci­ta­zione di guerra aerea mai svol­tasi in Israele, cui hanno par­te­ci­pato nel novem­bre 2013 Stati uniti, Ita­lia e Gre­cia. La «Blue Flag» è ser­vita a inte­grare nella Nato le forze aeree israe­liane, che ave­vano prima effet­tuato eser­ci­ta­zioni con­giunte solo con sin­goli paesi dell’Alleanza, come quelle a Deci­mo­mannu con l’aeronautica ita­liana. Le forze aeree israe­liane, sot­to­li­nea il gene­rale Ami­kam Nor­kin, stanno spe­ri­men­tando nuove pro­ce­dure per poten­ziare la pro­pria capa­cità, «accre­scendo di dieci volte il numero di obiet­tivi che ven­gono indi­vi­duati e distrutti». Ciò che sta facendo in que­sto momento a Gaza, gra­zie anche al con­tri­buto italiano.

Fonte:

http://ilmanifesto.info/ecco-il-contributo-dellitalia-ai-raid-dellaviazione-di-tel-aviv/

 

Qui gli ultimi aggiornamenti da Nena News:

11 lug 2014
by Redazione

Israele intima a 100mila gazawi residenti a Beit Lahiya e Beit Hanoun di lasciare le proprie case. Abbas fa lo stesso appello: “Negoziati falliti”. Obama si offre come mediatore

 

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Giorno 3 – giovedì 1o luglio

Giorno 2 – mercoledì 9 luglio

Giorno 1 – martedì 8 luglio

 

dalla redazione

AGGIORNAMENTO ore 18 – ONU: “L’ATTACCO ISRAELIANO POTREBBE VIOLARE IL DIRITTO INTERNAZIONALE”

Secondo l’ufficio per i diritti umani delle Nazioni Unite, l’operazione israeliana in corso contro Gaza solleva dubbi sul rispetto del diritto internazionale, il diritto internazionale umanitario e quello di guerra. La portavoce, Ravina Shamdasani, ha detto che l’ufficio ha ricevuto rapporti su “numerose vittime civili, compresi bambini, dovuti al bombardamento di case. Tali rapporti sollevano dubbi sul rispetto da parte israeliana del diritto internazionale”. La Shamdasani ha aggiunto che gli attacchi alle case sono una violazione del diritto di guerra a meno che non siano usate per fini militari, ma che “in caso di dubbio, se l’edificio è normalmente utilizzato per fini civili, come abitazione, non può essere considerato un target legittimo”.

 

AGGIORNAMENTO ore 17.30 – COLPITA LA MOSCHEA DI ZEITOUN

La moschea del quartiere di Zeitoun è stata colpita dall’aviazione israeliana dopo la preghiera del venerdì. Almeno sette i feriti.

 

AGGIORNAMENTO ore 15.15 – HAMAS MINACCIA: “COLPIREMO L’AEROPORTO DI TEL AVIV”

Le Brigate Al Qassam, braccio armato di Hamas, hanno emesso un comunicato diretto alle compagnie aeree internazionali, nel quale avvertono dell’intenzione di colpire con i missili l’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv, perché sede della base aerea militare n. 27.  ”Decliniamo ogni responsabilità legale e etica per danni ai vostri passeggeri o ai vostri aerei da e per il suddetto aeroporto”, si legge nel comunicato. Secondo l’Autorità israeliana per gli aeroporti, le attività dello scalo sono state sospese per 10 minuti dopo l’allarme lanciato da una sirena di emergenza, ma tutti i voli programmati sono partiti e arrivati senza problemi.

AGGIORNAMENTO ORE 14.10: LE REAZIONI INTERNAZIONALI

OIC: L’organizzazione per la Cooperazione islamica ha condannato i continui raid israeliani su Gaza e ha esortato il  Consiglio di Sicurezza dell’Onu a impegnarsi per il cessate-il-fuoco.

TURCHIA: Il primo ministro turco Recep Tayyip Erdogan avverte Tel Aviv: “Fermate l’oppressione, altrimenti la distensione dei rapporti tra Turchia e Israele non sarà possibile”.

Le relazioni tra i due Paesi erano precipitate ai minimi storici nel 2010, in seguito al blitz delle forze speciali israeliane sula Mavi Marmara, una delle navi della Freedom Flotilla che tentava in maniera pacifica di rompere il blocco su Gaza. Nell’assalto, avvenuto in acque internazionali, erano stati uccisi nove attivisti turchi. L’azione aveva provocato l’espulsione l’ambasciatore israeliano, la richiesta di scuse formali, di un risarcimento per le vittime e della fine dell’embargo sulla Striscia.

Lo crisi diplomatica tra i due Paesi, trasformatasi in uno stallo delle relazioni, è durata oltre un anno e la svolta, che dovrebbe portare a una normalizzazione, è arrivata con l’intervento del presidente Usa, Barack Obama.

Ieri Erdogan, candidato per le presidenziali di agosto, ha detto che sebbene le prime due condizioni – scuse e risarcimento – siano state soddisfatte, l’operazione militare contro Gaza mostra che Israele non ha intenzione di soddisfare la terza condizione posta da Ankara, cioè la fine dell’embargo. Condizione che comunque Tel Aviv non sembrava affatto intenzionata a soddisfare.  Nena News

 

AGGIORNAMENTO ORE 13.15: L’Egitto ha chiuso il valico di Rafah dopo appena un giorno di apertura durante il quale sono riuscite a passare soltanto 11 persone. Nei raid israeliani sono stati feriti 600 palestinesi e il Cairo aveva aperto il valico ieri per consentire ai feriti gravi di curarsi in Egitto.

 

AGGIORNAMENTO ORE 13.00: LE REAZIONI INTERNAZIONALI

EGITTO: Oggi il Cairo ha stigmatizzato l’attacco israeliano a Gaza, parlando di “oppressive politiche di punizione collettiva” con un impiego “eccessivo e non necessario della forza militare” che sta provocando la “morte di innocenti”.

Una critica che arriva dopo il rifiuto egiziano di mediare una cessate-il-fuoco tra Tel Aviv e Hamas, che aveva fatto sperare in una fine delle violenze. L’intervento egiziano era stato richiesto da Abbas che ieri ha dovuto arrendersi di fronte al diniego del Cairo.

Il ministero egiziano degli Esteri ha rivolto un appello alla cosiddetta comunità internazionale per il raggiungimento di quella tregua che però il Cairo non ha voluto mediare, come accaduto nel 2012 per la precedente campagna militare contro Gaza denominata ‘Pilastri di difesa’.

Da allora la situazione in Egitto è molto cambiata. Il golpe del 3 luglio dell’anno scorso ha portato al potere il generale Abdel Fattah al-Sisi, nemicoga giurato dei Fratelli Musulmani legati ad Hamas. Soltanto ieri l’Egitto ha aperto il valico di Rafah, l’unica via di fuga oltre a Erez controllato dagli israeliani, per consentire il passaggio dei feriti più gravi. Nena News

 

AGGIORNAMENTO ORE 12.00: Sono 11 le vittime della quarta notte consecutiva di raid israeliani sulla Striscia di Gaza, tra cui cinque membri della famiglia Ghannam la cui casa, a Rafah, è stata rasa al suolo. L’offensiva denominata ‘Barriera Protettiva’ sinora ha fatto cento morti tra i palestinesi intrappolati in questo piccolo lembo di terra e circa la metà sono donne e bambini. È la più grande operazione militare israeliana contro Hamas a Gaza dal 2012: sono stati colpiti 1.090 obiettivi, mentre i razzi lanciati dalla Striscia sarebbero 407 e altri 118 sono stati intercettati dal sistema di difesa israeliano Iron Dome, secondo quanto riferito dalle Forze armate israeliane.

Nonostante le dichiarazioni di Tel Aviv che parla di attacchi mirati, nel mirino dell’aviazione israeliana non ci sono soltanto basi di Hamas e della Jihad islamica, o gli edifici pubblici, ma le case di decine di famiglie di gazawi. Oltre 300 abitazioni private sono state distrutte o danneggiate e circa duemila persone sono rimaste senza casa.

Durante la notte la marina israeliana ha puntato i suoi cannoni sul porto di Gaza City, colpendo anche l’Arca di Gaza, l’imbarcazione già bruciata lo scorso aprile che avrebbero dovuto compiere un viaggio simbolico nel Mediterraneo per rompere l’embargo israeliano.

 

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L’allerta è alta per il timore di un’offensiva di terra. Israele ha schierato i suoi carri armati al confine, ha richiamato almeno 40.000 riservisti  e ieri ha bombardato il versante palestinese del valico di Erez. Sami Abu Zuhri, portavoce di Hamas, ha accusato di codardia gli israeliani, dicendo che un’offensiva di terra sarebbe un errore. In una dichiarazione separata, il braccio armato del movimento islamico che governa Gaza dal 2007, le Brigate al-Qassam, ha di fatto minacciato di rapire soldati israeliani: “Un’offensiva via terra sarebbe un’opportunità per i prigionieri palestinesi”.

TERRITORI OCCUPATI

C’è rabbia nei Territori Occupati per la sorte dei palestinesi di Gaza. Ieri sera Betlemme una marcia di solidarietà è finita in scontri con i soldati israeliani: almeno nove i feriti tra i palestinesi, tra cui un ragazzo colpito da un proiettile al piede. Intanto, nel secondo venerdì di Ramadan, le autorità israeliane hanno limitato l’accesso alla moschea di al-Aqsa. Nena News

 

AGGIORNAMENTO ORE 9.30: Un razzo sparato dalla Striscia di Gaza ha colpito una stazione di rifornimento nei pressi di Ashdod, stamattina, 28 chilometri dal nord di Gaza, provocando un’esplosione in cui sono rimaste ferite tre persone, di cui una in maniera grave, secondo quanto riferito da fonti israeliane.

Nella Striscia, invece, il bilancio delle vittime continua ad aumentare. Secondo il portavoce del Servizio di emergenza di Gaza, Ashraf al-Qudra, sono circa 95 i gazawi uccisi da quando è iniziata l’operazione ‘Barriera Protettiva’ quattro giorni fa.

AGGIORNAMENTO ORE 9.00: Due razzi sono stati lanciati dal Libano, dall’area di Hasbaya, alle 6.30 di stamattina e sono caduti nei pressi dell’insediamento di Kfar Yuval, senza provocare danni, secondo quanto riferito dalle Forze armate israeliane che hanno risposto con l’artiglieria.

 

Gerusalemme, 11 luglio 2014, Nena News – L’offensiva via terra si avvicina. La tragedia che soffoca Gaza potrebbe intensificarsi ancora di più: con una serie di sms il governo di Tel Aviv ha intimato a 100mila gazawi residenti nel nord della Striscia, a Beit Lahiya, Beit Hanoun e Abasan al-Saghira, di lasciare le proprie case. Il presidente dell’ANP Abbas – dopo aver annunciato il fallimento di ogni tentativo di dialogo anche attraverso la mediazione parziale dell’Egitto – ha fatto appello alla popolazione perché se ne vada nel timore di una carneficina.

Israele ha richiamato 20.000 riservisti e stanotte è entrata in azione la marina israeliana che ha lanciato almeno due missili verso il porto di Gaza City. In fiamme anche Arca di Gaza della FreedomFlotilla.

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Novanta palestinesi sono morti nei raid. Ogni tentativo diplomatico è fallito. Ieri, durante una riunione di emergenza del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, il Segretario Generale Ban Ki-moon ha lanciato un appello al cessate-il-fuoco, mentre il presidente Usa, Barack Obama ha parlato con il premier Netanyahu offrendosi come mediatore per un cessate-il-fuoco con Hamas. Negli ultimi giorni sono stati lanciati circa 550 razzi dalla Striscia di Gaza, mentre i raid israeliani sono stati oltre 800.

Fonte:

Imperialismi e Ucraina

di Vincent Présumey

Le interpretazioni e i commenti predominanti sugli avvenimenti in Ucraina si distribuiscono spesso su due fronti: per gli uni, l’“imperialismo” è l’“Occidente” e aggredisce “la Russia”; per gli altri, viceversa, l’Occidente è colui che libera ed è democratico e se, in minor misura, impiegano il termine, l’imperialismo sarebbe russo.

Qualunque analisi seria dovrebbe invece partire dal fatto che esistono diversi imperialismi, preoccupandosi al tempo stesso di definire quello di cui si parla. Naturalmente, se non si procede unilinearmente, occorre dilungarsi un po’ di più: è il prezzo della ricerca seria.

 

Imperialismo

 

Quello di “imperialismo“ è un termine con significati che variano. Quello che sembra attualmente più pertinente è quello che ne fa una forma del capitalismo e dello Stato capitalista. Da questo angolo di visuale, e senza soffermarci troppo su questo, il famoso libretto su L’Imperialismo, fase suprema del capitalismo, scritto da Lenin nel 1916, può fornire un efficace punto di partenza. Vi si enumerano cinque criteri: la concentrazione del capitale, la fusione del capitale bancario e di quello industriale nel capitale finanziario, il posto centrale dell’esportazione dei capitali, la formazione di trust mondiali e il completamento della spartizione territoriale del globo tra grandi potenze. Parla anche di “reazione su tutta la linea, soprattutto rispetto alle aspirazioni democratiche e nazionali non risolte e che la borghesia non può più risolvere nella fase imperialista, “epoca di guerre e rivoluzioni”. Quest’ultimo punto è importante nel caso ucraino, perché lì c’è una questione democratica e nazionale di primo piano, che si sviluppa in problema geopolitico europeo.

Questi elementi dell’imperialismo, soprattutto l’ultimo sulla spartizione territoriale, implicano un rapporto di fondo con lo Stato, che rimanda di fatto alla natura del rapporto sociale capitalistico. Questo rapporto fondamentale era stato colto in maniera più globale, prima di Lenin, da Nikolaj Bucharin, che parlava di “trust capitalistici di Stato”, ed era stato tra l’altro descritto in maniera notevole, da angolazioni diverse, da Rosa Luxemburg ne L’accumulazione del capitale.

Il modo di produzione capitalistico si riproduce di per sé una volta costituitosi, ma lo Stato non è qualcosa di estraneo rispetto a questa riproduzione. Gli Stati ne costituiscono componenti indispensabili, per conservare il predominio del capitale sui lavoratori, l’esproprio permanente della massa umana rispetto alla terra e ai mezzi di produzione, la continuità dei rapporti di mercato (rispetto dei contratti, pagamento dei debiti) e, di più, la concorrenza, leale o meno, con gli altri trust e gli altri Stati, che si riproduce quale che sia lo stadio di interpenetrazione mondiale dei diversi capitali. Quando il capitale perviene allo stadio “imperialista” di concentrazione e mondializzazione, gli Stati svolgono un ruolo fondamentale nel processo. Vi sono dunque Stati capitalistici che diventano imperialisti, e tra di essi esiste una gerarchia, con altri Stati che, pur volendo, non raggiungono quello stadio e sono più o meno dominati dai primi e dal loro capitale interno. Essendo il pianeta completamente ripartito ormai da oltre un secolo, gli spazi costano.

 

Gli imperialismi: Stati Uniti, Germania, Francia

 

Dalla fine della Seconda guerra mondiale, l’imperialismo nordamericano (gli Stati Uniti) è dominante, pur non essendo l’unico né essendolo mai stato.

La principale struttura militare di dominazione messa in piedi dagli USA è la NATO. Con il pretesto della “lotta al comunismo” la Nato ha innanzitutto consentito agli Stati Uniti di istituzionalizzare e perpetuare la sottomissione militare e quindi politica delle altre potenze imperialiste europee, Inghilterra e Francia, poi, a partire dal 1955 e dal suo reinserimento nel concerto delle potenze, la Germania, con la presenza militare in quel paese (come in Giappone), la preponderanza nucleare e la direzione del comando integrato della NATO, che garantisce la dominazione. È noto che l’imperialismo francese sotto De Gaulle aveva cercato di contestare quel dispositivo, pur continuando a parteciparvi regolarmente. Se si capisce questo ruolo della NATO, si capisce anche che questa non poteva sparire con la scomparsa dell’Urss, che era servita da pretesto per la sua creazione. Il suo mantenimento e la sua espansione in Europa centrale e orientale tengono sotto tiro la Russia, ma puntano anche a tenere a bada l’imperialismo tedesco, proprio nel momento in cui UE ed euro sono praticamente diventate le forme del predominio continentale e della preponderanza di quest’ultimo.

I crimini dell’11 settembre 2011 hanno permesso all’imperialismo nordamericano di portare avanti un’offensiva mondiale che lo ha di fatto, a medio termine (su scala del decennio 2000), seriamente “affaticato” e indebolito, ma che ha anche avviato l’accerchiamento della Russia, con l’invasione dell’Afghanistan e dell’Iraq, con le basi in Asia centrale e, sul continente europeo, il precedente intervento in Kosovo, il sistema di missili antimissili destinati a neutralizzare il potenziale offensivo-difensivo della Russia (nel nucleare, qualsiasi difensiva è offensiva), raddoppiando l’estensione della NATO e coprendo quella dell’UE, rendendo anche qui manifesto l’obiettivo del contenimento della Germania. A partire dalla metà del 2000, gli USA procedono apertamente verso l’estensione della NATO all’Ucraina. la Moldavia e la Georgia.

Quest’aggressività ha suscitato l’opposizione russa e una prima guerra si è verificata in Georgia nel 2008. Causata da una provocazione ispirata dai servizi USA, essa ha visto una vera e propria invasione della Georgia da parte dell’esercito russo, e la mediazione dell’imperialismo francese dava soddisfazione a Mosca, con la copertura della retorica “occidentale”, quanto al controllo dell’Abcasia e dell’Ossezia meridionale. Questo episodio ha stabilito un equilibrio precario e temporaneo. Ucraina e Georgia non rientravano nella NATO, ingresso cui si era opposta la Germania, ma la Polonia rientrava nel dispositivo “antimissili”. Le lotte di fazioni oligarchiche in Ucraina, connesse alle alleanze e alle bustarelle delle potenze straniere al paese, non potevano non pesare sulla conservazione o il crollo di quel fragile equilibrio.

Maggio 2008 vuol dire anche il fallimento di Lehman Brothers e l’aprirsi della crisi finanziaria mondiale e, poco dopo, l’elezione di Obama. L’indebolimento e lo squilibrio dell’imperialismo nordamericano sono andati crescendo, incluso con la nuova irruzione di importanti movimenti sociali in terra statunitense. Vi hanno contribuito anche gli avvii di rivoluzioni in diversi paesi arabi a partire dal 2011. La situazione è sfociata di recente in importanti sviluppi. La velleità di una grande ostentazione militare in Siria a fine agosto-inizio settembre 2013 (appoggiata a fondo e addirittura scavalcata dall’imperialismo francese, per sue specifiche motivazioni di vecchia potenza mediterranea e africana) si è sgonfiata, in condizioni di eccezionale gravità per la Casa Bianca. È il presidente Putin che ha tirato fuori il presidente Obama dal vicolo cieco che lo avrebbe portato alla sua sconfessione da parte del Congresso. In seguito a questo, gli Stati Uniti siglavano l’accordo con l’Iran (la cui prima vittima è il popolo siriano, che non hanno mai appoggiato contro Bashar al-Assad). Il tutto, entro una strategia globale in cui l’accerchiamento della Cina è diventata la preoccupazione principale, esplicitamente dichiarata, dell’esecutivo USA, nella speranza, non irrealistica, di contrapporre Russia e Cina.

Questi sono richiami indispensabili: è impossibile analizzare una crisi come quella dell’Ucraina senza inserirla nel quadro dei rapporti di forza mondiali, in cui la lotta di classe è il fattore principale, anche se spesso sotterraneo. Sono state soprattutto la resistenza della classe operaia americana e le “rivoluzioni arabe” a determinare l’indebolimento e le esitazioni dell’imperialismo nordamericano, e anche la profonda divisione dei suoi esponenti politici, che si riflette fin nell’apparato di Stato, in quello militare, e quindi nella NATO, e in alcuni servizi diplomatici; una divisione tra quelli che vogliono gradatamente ritirarsi e quelli che vorrebbero riprendere mano libera per provocazioni e avventure, e combinazione di entrambe.

Allo stesso modo, gli sviluppi che conosce l’Ucraina dal novembre 2013 non si riescono assolutamente a capire se non si prende atto della realtà dell’“inopinata” e “inattesa” sollevazione popolare (come sempre lo sono le sollevazioni popolari).

Questi sviluppi erano inattesi per l’imperialismo americano, diviso tra quelli che vogliono sfruttarli e quelli che ne temono le conseguenze. Di qui l’aver “surfato” tra emissari ufficiali autoproclamati (ad esempio, il repubblicano McCain) e, a partire da metà gennaio quando fallisce il tentativo di schiacciare le masse con lo stato d’emergenza, l’appoggio al governo che si installa al posto del presidente Yanukovyč. Ma non è stato un colpo di Stato della CIA ad aver prodotto questo insediamento, che tra l’altro non ha soddisfatto del tutto la folla di Maidan, che ha subito manifestato clamorosa disapprovazione per la maggior parte dei membri del nuovo governo. In questa questione, non vediamo l’imperialismo americano prendere l’iniziativa, ma inseguire gli avvenimenti con l’intenzione palese di recuperarli, il che non significa evidentemente che non abbia sul posto le sue spie, i suoi mercenari, ecc. Per combattere l’imperialismo occorre capire in che condizione si trovi.

Alla vigilia della fuga di Yanukovyč, i ministri degli Esteri tedesco, francese e polacco avevano imposto la firma di un accordo per un governo di unità nazionale tra lui e i tre partiti autoproclamatisi esponenti di “Maidan”: quello di Tymošenko e Yacenjuk, quello del puglie Klyčko e quello di Svoboda. Non era quella la linea dell’imperialismo americano, che riteneva si dovesse subito puntare sulla caduta di Yanukovyč e che era molto irritato dalla politica della UE, vale a dire dalla politica tedesca, come è emerso agli occhi dell’opinione pubblica da una conversazione registrata e divulgata dai servizi russi, in cui la diplomatica Victoria Nuland, vicesegretaria di Stato USA, esclamava “Fuck the UE” [“Vada a farsi fottere l’UE”]. L’episodio è stato massicciamente utilizzato per dimostrare la manipolazione americana degli avvenimenti ucraini, mentre dimostra soprattutto le contraddizioni tra Stati Uniti e Germania, e la pubblicazione rivela piuttosto la volontà russa di sfruttarle.

Yanukovyč ha deciso di scappare da Kiev, pensando di ritornarvi, nella notte seguita a quell’intesa, mentre gli scontri armati si intensificavano nel centro della città e il suo stesso partito, il Partito delle Regioni, vedeva i suoi dignitari esigerne la partenza per salvare la propria pelle e le proprie prebende. Di colpo, il governo messo in piedi altro non era che il governo di unità nazionale previsto con Yanukovyč, ma senza di lui. Non è minimamente l’espressione del movimento Maidan, la cui sola vittoria è la fuga di Yanukovyč. Questo governo coinvolge solo fazioni acquistate dagli imperialismi occidentali, non fazioni filorusse (Julija Tymošenko, che fa il doppio gioco, ne è d’altronde diventata l’oppositrice). Dunque, si rimettono sul tappeto l’associazione dell’Ucraina all’UE, i suoi legami con la NATO, come quelli della Moldavia, enclave tra Ucraina e Romania, rompendo il precario equilibrio del 2008: ed è questo che l’imperialismo russo rifiuta.

L’analisi della politica delle potenze imperialiste presuppone che si distinguano fatti e dichiarazioni. Per quanto riguarda i fatti, Obama ha reso noto a più riprese che non si ritiene pensabile qualunque intervento militare. E invece gli agenti e i mercenari convergono verso l’Ucraina. Gli Stati Uniti hanno gesticolato parecchio a proposito della Crimea, ma non avevano la minima intenzione di fare alcunché, tanto più che quest’annessione non cambia i rapporti di forza militari e marittimi nel Mar Nero. Il 17 aprile, hanno firmato un accordo con la Russia e la Germania (quest’ultima sotto copertura dell’UE) e imposto al governo di Kiev un accordo che, di fatto, consentiva la prosecuzione dell’installazione di paramilitari legati alla Russia nelle prefetture e negli oblast [suddivisione amministrativa degli Stati slavi più o meno equivalente a regione, o provincia, o area] del Donbass e di Lugansk. Se un rapporto di forza esiste tra Stati Uniti, Germania e Russia, riguarda la spartizione delle zone di influenza in Ucraina. Ho già dettagliatamente commentato questo accordo chiave del 17 aprile in un mio articolo del 5 maggio.

I conflitti e le contraddizioni interimperialiste “occidentali” svolgono un ruolo importante nei loro atteggiamenti reali verso l’Ucraina. È evidente che la contraddizione principale contrappone Stati Uniti e Germania e per la Germania significa una vera e propria sfida, una scelta politica tra l’allinearsi agli Stati Uniti, oppure un’alleanza russa, perlomeno una politica più autonoma rispetto agli Stati Uniti e alla NATO, che sostengono naturalmente Schröder e Schmidt, e che rappresenta di fatto il ministro degli Esteri SPD del governo di coalizione, Stermeier. La fonte o il principale avallo delle voci su “chi ha sparato su Maidan”, fa peraltro risaltare questo ruolo della Germania o di determinati settori tedeschi. Sembrerebbe infatti che la maggioranza del padronato industriale e finanziario tedesco sia su una linea “continentale” di stretta collaborazione con Putin. Le divisioni si ripercuotono sui posizionamenti della Polonia, dei Paesi baltici, dell’Ungheria, della Romania e della Bulgaria.

Gli Stati Uniti utilizzano questa pressione sulla Germania in favore del Trattato di libero scambio transatlantico. Su questo argomento, tuttavia, loro stessi sono divisi: Obama non ha acquisito l’appoggio del Congresso. La crisi di dominazione nordamericana è senz’altro sistemica e, invece di feticizzare ogni loro progetto come complotto malefico la cui attuazione avrebbe conseguenze apocalittiche, sarebbe meglio analizzare concretamente, anche qui, le condizioni reali dell’oggetto reale “imperialismo nordamericano”.

Quanto alla Francia, che non può avere qui la sua zona d’influenza, gesticola e si associa alle manovre, in realtà molto limitate, della NATO nel Mar Nero. Anche nei confronti dell’imperialismo francese, per combatterlo occorre tener conto e delle dichiarazioni e dei fatti. Ad esempio, la visita di François Hollande in Azerbaigian, Armenia e Georgia è stata, fin dall’inizio, o un atto “coraggioso” contro la cattiva Russia o, viceversa, un atto “di aggressione” contro la povera Russia accerchiata (sono le due versioni simmetriche dei discorsi che prevalgono). Ma è proprio in quel viaggio che si è confermata l’intenzione francese di vendere un numero rilevante di navi da guerra Mistral alla Russia (compresi dispositivi di trasmissione high tech), il cui significato in termini di forza d’urto è perlomeno altrettanto forte dell’invio di qualche fregata in Mar Nero nel quadro della NATO: Washington ha vivamente protestato, e Parigi ha vivamente risposto a Washington replicando anche sul piano siriano con la “rivelazione” di altri impieghi di armi chimiche da parte di Bashar al-Assad, per denunciare la “codardia” USA. Anche l’imperialismo francese cerca di giocare la sua carta, e questa per il momento passa per un fruttuoso commercio di armamenti con la Russia. Combattere l’imperialismo presuppone, ancora una volta, che si tenga conto sia delle ostentazioni verbali, sia dei fatti concreti, specie se si tratta del “nostro” imperialismo.

 

Gli imperialismi: Russia

 

E la Russia?

Sommariamente: l’imperialismo Russo viene fuori direttamente dalla burocrazia staliniana, la quale a sua volta deriva dal fallimento storico della rivoluzione socialista europea, l’obiettivo per cui si era costituito il vecchio movimento operaio, fallito nel 1914: nonostante questo, la rivoluzione esplodeva in Russia nel 1917. Facciamo notare – ed ha la sua importanza – che l’Ucraina sovietica, le cui frontiere vanno fino al Donbass e a Lugansk incluso, fu il risultato e una conquista di quella rivoluzione. L’apparato di Stato (la burocrazia) si è autonomizzato rispetto alla classe operaia, riflettendo in particolare il ritorno dello sciovinismo dominante grande-russo nei confronti dei georgiani, dei tatari e degli ucraini. A partire dal 1923, sfuggiva completamente a qualsiasi controllo della classe operaia. A partire dal 1929, sotto il nome di “collettivizzazione” e di “pianificazione”, effettuava l’esproprio dei contadini e generalizzava il lavoro salariato. Nella seconda metà degli anni Trenta stermina fisicamente i residui delle organizzazioni della classe operaia che avevano fatto la rivoluzione del 1917, Partito bolscevico in testa, di cui il PCUS non era la continuazione ma la negazione tramite sterminio. In quel sistema sociale, i rapporti mercantili, che affiorano da tutti i pori, vengono sostituiti dal controllo dello Stato chiamato in modo fittizio “socialismo”. Con la perestrojka questi rapporti trionfano e, per preservare ed estendere i propri privilegi di fronte a un rinascente movimento operaio e alle aspirazioni democratiche, i burocrati si costituiscono un capitale privato. Il processo si compie sotto El’cin con un generalizzato saccheggio predatorio.

Nel corso degli anni, questa fase di accumulazione privata con saccheggi e messa all’asta dei beni di Stato vede svilupparsi la crisi implosiva di questo Stato, cominciata con l’esplosione dell’URSS e l’indipendenza delle ex Repubbliche sovietiche nel 1991. Probabile sbocco di questa crisi era il formarsi di un capitalismo di secondo piano, commerciale e largamente infeudato all’imperialismo nordamericano. Alla fine degli anni Novanta, tuttavia, la resistenza vitale della classe operaia, espressa materialmente dai picchetti di minatori calati a Mosca proprio nel momento in cui crollavano i corsi della recentissima Borsa di Mosca, ha evidenziato i pericoli di fondo per l’ordine capitalista della semicolonizzazione del paese. Quel che gli Stati Uniti avevano rinunciato a fare in Europa occidentale dopo la Seconda Guerra mondiale, dopo averci pensato (piano Morgenthau di deindustrializzazione della Germania, lasciato alla fine cadere in favore del Piano Marshall), si rivela al di là delle loro forze anche nel caso della Russia.

La svolta da El’cin a Putin, dall’alcolista al pugile, si situa in quel momento. Putin però non esprime la resistenza del popolo russo all’asservimento, ma la piena e integrale restaurazione di un capitalismo russo sfuggito al predominio imperialista, essendo imperialista a propria volta. Il suo consolidamento avviene sulla base della sconfitta dei movimenti sociali e nazionali della fine degli anni Novanta: si tratta del barbaro schiacciamento del popolo ceceno (e della promozione di uno strato di “askari caucasici” che collaborano con il potere russo), e della rimessa in riga della classe operaia con un nuovo codice del lavoro che atomizza i lavoratori e mette fuori legge la maggior parte degli scioperi. L’elemento chiave del nuovo consolidamento di El’cin al servizio del capitale è l’assenza di partiti, e anche di strutture sindacali nazionali autonome e non legate allo Stato, che rappresentino, legittimamente o anche in modo deformato, la classe operaia. Quest’assenza è l’eredità conservata dello stalinismo incarnata dalla persistenza dei vecchi “sindacati” ufficiali. Su queste basi Putin è riuscito, tramite l’arresto simbolico di vari oligarchi come Federovskij e alla fine Chodorkovskij, a concludere la strutturazione dello strato capitalista dominante, come strato sia indipendente dal capitale straniero, sia posto su un piano di relativa parità nei confronti del centro dello Stato in base alla stabilizzazione delle leggi e dei contratti – cosa che non impedisce, anzi al contrario, di avere propri conti in Svizzera, alle Bahamas, a Cipro (fino al gennaio 2013), propri operatori finanziari a Londra, e proprie ville in Costa Azzurra.

Gli attacchi agli operai sferrati da Putin negli anni 1999-2003 hanno del resto fatto della Russia uno Stato per certi aspetti molto più “commercializzato” (rispetto ad esempio a quel che resta dei servizi sociali, della Sanità e dell’Istruzione) di parecchie altre ex repubbliche sovietiche tra cui l’Ucraina, dove il permanere di fazioni oligarchiche negli anni di El’cin in Russia è andato di pari passo con una minore realizzazione delle privatizzazioni e commercializzazioni, soprattutto nella parte orientale del paese. È così, ad esempio, che era preferibile, finora, essere minatore nel Donbass ucraino (regione di Donetsk) che non nella vicina zona russa (regione di Rostov-sul-Don), dove la disoccupazione di massa è peggiore che in Ucraina e dove le miniere non sono più sovvenzionate dallo Stato oligarchico…

Il fatto che un capitalismo russo si affermi come indipendente dall’imperialismo nordamericano dominante, come l’affermarsi del capitalismo imperialista cinese oggi più potente di quello russo, e come in generale l’ascesa di potenze capitaliste regionali a vocazione imperialista, i cosiddetti “BRICS” (Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa), non vuol dire assolutamente che si tratti di fenomeni progressisti, se non per lo sviluppo della classe operaia che generano – e si noterà al riguardo che quest’ultimo aspetto è proprio quello che è stato assente nella Russia e nell’ex URSS passate per la deindustrializzazione.

Totalmente legati al modo capitalistico di produzione nello stadio imperialista, questi nuovi sviluppi sono portatori di guerra. Feticizzare il rapporto sociale capitalistico nella forma di uno Stato, di un popolo o di una cultura considerati “abominevoli” – quelli ad esempio “occidentali” o degli “anglosassoni”- apre la strada non alla rivoluzione emancipatrice ma allo sciovinismo, alla sant’alleanza, al razzismo e alla guerra imperialista.

Le caratteristiche sommarie dell’imperialismo elencate da Lenin, sopra richiamate, si ritrovano tutte nel caso russo contemporaneo, compreso il punto chiave dell’esportazione dei capitali e della ricerca di campi d’investimento per questi ultimi, precisando in oltre che la finanziarizzazione è immediatamente spinta al parossismo, a immagine del capitalismo come realtà mondiale. La peculiarità del capitalismo “putiniano” negli anni 2000 è quella di basarsi sull’esportazione di energia e di materie prime, intorno a due imprese, Rosneff e, al primo posto, Gazprom, che è direttamente il “trust” di Stato del petrolio (creato nel 1954) convertito in impresa petrolifera mondiale, che associa capitali europei e soprattutto interessi tedeschi, simboleggiati dal seggio occupato dall’ex cancelliere tedesco Schröder. Così come per Yukos [prima impresa petrolifera russa, sottratta a Chodorkovskij e confluita in Rosneff]. Queste caratteristiche esportatrici fanno dell’imperialismo russo un imperialismo di secondo piano, abbastanza largamente dipendente dai prezzi mondiali, che erano in rialzo negli anni 2000. La dipendenza rafforza l’incidenza relativa delle componenti militari e politiche nella sua equazione specifica.

La crisi mondiale apertasi dal 2008 accentua per l’imperialismo russo la necessità di passare a una nuova fase, in cui un settore industriale produca maggior plusvalore in loco, una transizione cui lavora il potere russo in vista di sviluppare i settori militare, delle infrastrutture e dei trasporti. I cantieri legati ai Giochi Olimpici di Sochi illustrano questa intenzione. Questo imperialismo, non giovane ma “resuscitato”, è altrettanto “marcescente” dei suoi rivali, non può avere sbocchi e soprattutto campi sufficienti di investimenti propri al di fuori di una proiezione politico-militare. È stretto e soffocato dall’imperialismo nord-americano, anch’esso non particolarmente in forma, e sorretto dalla sua forza militare come stampella della preservazione del suo predominio economico.

Di seguito riassumo le principali tappe di questo accerchiamento.

Dal 2008-2010, la reazione russa consiste soprattutto nel cercare di costituirsi una zona di investimenti che aggreghi alla Russia varie ex repubbliche sovietiche, in una “unione euroasiana” con l’Ucraina, il Kazakistan, la Bielorussia, l’Armenia. Il presidente dittatore eternamente rieletto del Kazakistan, Nazarbaëv, che rappresenta la totale continuità dello Stato e del capitale (era primo segretario del PC kazako sotto Gorbačëv), svolge qui un ruolo chiave. L’unione doganale euroasiana, per imperialista che sia, è su scala mondiale un’impresa relativamente limitata, dal momento che non copre neppure il campo dell’ex Unione sovietica.

Altrettanto importanti sono dunque l’inserimento del capitale russo nei circuiti finanziari mondiali e, sul piano politico – con le conseguenze che questo comporta in materia di potenza e di soft power – il fatto che la Russia di Putin si ponga come fattore di ordine sociale e di reazione. In larga misura lo ha fatto, suo malgrado, rispetto all’indebolimento e alle esitazioni nordamericane. Un punto critico si è raggiunto nell’estate 2003. Il crollo della presidenza islamista in Egitto, causato dalla maggiore ondata di manifestazioni della storia, non era nei piani degli USA e si è assistito allora all’intrecciarsi di contatti inattesi tra militari egiziani, servizi sauditi e Russia. Come ho già ricordato, Obama ha cercato di reagire montando un vero e proprio pseudo-intervento contro Bashar al-Assad, intrappolandosi nelle sue stesse contraddizioni, da cui è stato Putin a tirarlo fuori. L’aiuto militare russo ha un ruolo importante nel progressivo schiacciamento militare del popolo siriano, ad oggi la principale vittoria controrivoluzionaria nei paesi arabi dal 2011. Putin si afferma come un pilastro dell’ordine mondiale, in proporzione al calo del credito degli USA, senza però disporre dei mezzi, più di qualsiasi altro imperialismo, per sostituirsi al ruolo del gendarme mondiale che gli Stati Uniti non riescono più a svolgere correttamente. Tuttavia, facendo questo, i suoi specifici interessi hanno ottenuto una bella promozione.

Se è ricorrente la denuncia della russofobia spesso palese e ridicola dei nostri mezzi di comunicazione di massa, soprattutto da qualche mese a questa parte, conviene rendersi conto di come essa comporti anche un misto di ostilità e di fascino che le imprime la sua tonalità isterica particolare, e che il fascino per l’ordine sociale, la disciplina, la presunta salvaguardia dei “valori” religiosi e familiari ha, nel regime di Putin, un’influenza crescente in larghi strati borghesi e piccolo borghesi dei paesi “occidentali”. È importante quindi spendere due parole sulle costruzioni ideologiche coltivate da questo potere, o meglio dai suoi think tanks e altre cerchie satelliti, perché, imitando i neoliberisti, Putin ha saputo costruire o attrarre a sé reti analoghe, a immagine della sfera culturale, mediatica e ideologica del neoliberismo negli Stati Uniti.

In partenza Putin è uno spento burocrate e un poliziotto privo di ideali, ben lontano dall’immagine del superuomo che gli hanno forgiato i suoi comunicatori. Al consolidamento dello Stato russo come Stato capitalista corrispondeva l’adesione ufficiale a una retorica neoconservatrice piuttosto ultraliberista, tendente a presentare la storia russa su una linea di continuità: tutti i dirigenti russi sono buoni per definizione, e i dissidenti del passato (non gli attuali) anche loro lo sono in quanto hanno spianato loro la strada; l’unico momento spiacevole della storia russa è la rivoluzione del 1917, la figura di Lenin è condannabile (non però le sue statue ieratiche di fattura staliniana, che fanno parte del patrimonio allo stesso titolo delle icone), quella di Trotski deve rimanere all’inferno, Stalin va bene e anche gli zar vanno bene. Questa visione della storia era stata promossa in occasione dell’850° anniversario di Mosca, nel 1997, con la denominazione di “sintesi rosso-bianca”, dalla rivista Zavtra di tendenza “eurasiana”, ed era quotata sia tra i monarchici sia nella cerchia del dirigente del PC russo Žuganov.  Anche i legami tra Stato e Chiesa ortodossa sono sulla stessa linea.

Il think tank politicamente più attivo e più produttivo al servizio dell’apparato di Putin è quello del teorico “euroasiano” Alexandre Dugin, che dispone di potenti sponsor fra i capitalisti del complesso militar-industriale ed è anche legato al presidente del Kazakistan, Nazarbaëv. Dugin, animatore di Pamjat, associazione di destra stalin-zarista nata sotto la perestrojka, poi co-dirigente del “Partito nazional-bolscevico” di Limonov, si avvicina a Putin come consigliere ufficioso fin dal 1999-2000. Il suo “euroasianismo” (che non è l’unica variante di questa corrente, ma attualmente la più influente) combina un po’ di salsa occultista-esoterica con concezioni geopolitiche e razziste basate sulla contrapposizione tra paesi della terra (la Russia) e paesi del mare, commercianti e predatori (gli anglosassoni): La sua concezione della società, capitalista e religiosa, privilegia le esperienze fasciste e naziste. Il nazismo era nel complesso una buona idea tranne il fatto che ha commesso un errore, quello di attaccare l’Unione Sovietica, potenza della terra, insieme agli anglosassoni. Quanto al genocidio degli ebrei, non era per niente un errore: l’antisemitismo esplicito è rientrato ed è una componente fondamentale di questa ideologia. Il ristabilimento delle potenze terrestri e tradizionaliste, con l’instaurazione di una forma corporativa e ben regolata di capitalismo, passa per la potenza russa e la sua assimilazione dei popoli della steppa, turco-mongoli. Oltre agli ebrei, cosmopoliti che ispirano la finanza e le potenze marittime anglosassoni, due popoli si trovano nel mirino degli “eurasiani” versione Dugin. I tatari, soprattutto quelli di Crimea, perché costituiscono un ostacolo all’allineamento dei popoli turco-mongoli e caucasici allo statuto degli harkis [in Italia diremmo ascari] della santa Russia: ebraizzanti, sarebbero dei”Kazari”. Poi gli Ucraini, che non esistono e hanno la faccia tosta di aspirare all’esistenza nazionale, e che vanno inseriti, nella loro maggioranza, nel complesso pan-russo, con quelli del Donbass che sono in realtà russi e quelli di Galizia che si possono lasciare ai polacchi e all’Unione Europea (questo apre la possibilità di un’intesa per spartirsi l’Ucraina con l’estrema destra ucraina). Queste laboriose costruzioni ideologiche russe sono state di recente oggetto di una massiccia pubblicazione in francese, dal titolo La quatrième théorie politique, con una prefazione di Alain Soral, che si presenta come il nazional-socialista francese.

Assumendo l’etichetta di “eurasiano” ci si riferisce a un’importante componente intellettuale dell’emigrazione bianca degli anni Venti e Trenta, quella che fin dal 1921, con Ustrialov, sosteneva che l’apparato del PC al potere sarebbe stato fatalmente indotto a russificarsi e a incarnare gli interessi nazionali, cosa che li ha portati a sostenere la NEP ma anche la collettivizzazione. Non si trattava di una corrente marginale, ma rappresentava un consistente settore della borghesia russa emigrata – di fatto, più o meno tutto quello che aveva potuto produrre come intellighenzia, al di fuori delle religioni e delle mistiche che avevano spesso del resto idee politiche vicine. Con l’“eurasismo”, l’oligarchia rappresentata da Putin, prodotta dalla burocrazia staliniana, realizza dunque una duplice operazione ideologica: giustifica i propri appetiti di dominazione e si assegna la discendenza diretta dalla vecchia borghesia, quella che la rivoluzione d’Ottobre aveva espropriato, quella dell’epoca degli zar.

Malgrado la sua natura di delirio ideologico, si tratta di una costruzione coerente, è non è marginale. C’è da temere che la frenetica denuncia dei “nazisti ucraini”, cioè i riferimenti fascisti e nazisti della parte della destra nazionalista ucraina cosiddetta “banderista” (di fatto compattata soprattutto da cinque decenni di regime staliniano durante i quali gli ucraini si sono fatti trattare da nazisti), non serva soprattutto a dissimulare l’emergere di un’ideologia di stampo vicino al nazismo, concepita volutamente in questo spirito, nell’ottica di giustificare le imprese imperialiste russe.

Considerare questa ideologia che – con adattamenti, tende a essere dominante nello Stato e nei mezzi di comunicazione russi di oggi – una semplice reazione alla pressione occidentale (cosa che fa, ad esempio, Jean-Marie Chauvier, che fornisce molte informazioni al riguardo, ma la giustifica come “una reazione muscolosa all’espansionismo occidentale”, in Le Monde Diplomatique di maggio 2014), sarebbe un “errore” dello stesso tipo di quelli degli storici revisionisti tedeschi, che cercarono di presentare il nazismo come una reazione al “comunismo” o al trattato di Versailles: in questo modo si passano sotto silenzio la natura imperialista della Russia e l’aspetto di fondo di giustificazioni ideologiche di questo imperialismo.

 

La distruzione dell’Ucraina, programma dell’Imperialismo:

“reazione su tutta la linea”

 

Per l’ideologia imperialista russa di prima del 1914, l’Ucraina non deve esistere, perché non ne ha motivo, esiste la piccola Russia o, per riprendere un’espressione anche questa resa popolare da Alexandre Dugin, bisogna farla a pezzi, costruendo sulle sue rovine una “Nuova Russia” che comprenda il Donbass, Lugansk, Odessa e la Transnistria. Il termine “Novorossija” è semplicemente zarista: indica le steppe del Sud strappate con la forza ai cosacchi zaporoghi, vale a dire agli ucraini, e ai tatari. Ora, questo termine è stato ripreso da Putin in persona nel suo discorso del 17 aprile e suonava come incoraggiamento ai paramilitari a spingersi verso Odessa, con le conseguenze ben note del 2 maggio scorso.

La distruzione dell’Ucraina che si fa passare fra i nostalgici che ancora si immaginano che l’URSS costruisca il socialismo come un modo per rifare l’URSS, in realtà approfondisce la controrivoluzione. L’Ucraina, come altri 13 Stati dell’Europa centrale e orientale, del Caucaso e dell’Asia centrale, è una repubblica sorta dall’ex URSS, altrettanto quanto la Russia, e i suoi confini sono il frutto della rivoluzione del 1917, e del suo sviluppo in rivoluzione contadina e nazionale ucraina che ha permesso ai rossi di sconfiggere i bianchi. Sono questi confini del 1920 che Putin ha dichiarato assurdi, imposti alla vecchia Russia, quella del tempo degli zar. Mettere in piedi repubbliche posticce paramilitari nel Donbass e a Lugansk è in assoluto un’impresa controrivoluzionaria, che si colloca completamente nella prospettiva imperialista “eurasiana”, quella per cui il decoro “sovietico” serve solo a valorizzare gli stendardi zaristi, i nastri di San-Giorgio, le insegne dei Cento Neri e la società che a questo corrisponde.

La distruzione dell’Ucraina significa la “reazione su tutta la linea” nell’accezione di Lenin nel 1916, ed è il terreno di possibile intesa tra imperialismi russo, americano e tedesco. È con questo che si scontra la nazione ucraina, con al suo centro la classe operaia, come tendono a dimostrare gli sviluppi recenti nel Donbass, che contrappongono in modo crescente i minatori ai paramilitari “anti-Maidan”. Se le parole internazionalismo proletario” devono rinnovare il proprio significato originario mettendosi al tempo stesso in sintonia con il XXI secolo, si deve cominciare dalla solidarietà con la nazione ucraina in lotta per la propria sovranità democratica e la propria unità.

(24 maggio 2014. Traduzione di Titti Pierini).

Fonte:

http://antoniomoscato.altervista.org/index.php?option=com_content&view=article&id=1788:imperialismi-e-ucraina&catid=57:imperialismi&Itemid=73