Altro aggiornamento sulla strage a Barcellona: il killer è stato ucciso. 15 i morti nell’attentato

Barcellona, il killer è stato ucciso. 15 i morti nell’attentato, tutti identificati

Alle indagini collabora uno dei terroristi fermati ad Alcanar

Il killer di Barcellona Younes Abouyaaqoub è stato abbattuto dalla polizia catalana a Subirats: dopo le indiscrezioni della tv pubblica Rtve, la conferma arriva dall’agenzia spagnola Efe che cita fonti dell’antiterrorismo. Younes Abouyaaqoub indossava una finta cintura esplosiva. Lo riferisce la Efe che cita fonti della polizia catalana.

Il ministero degli Interni catalano ha confermato che l’uomo abbattuto a Subirats è il ricercato Younes Abouyaaqoub, il killer che ha guidato il furgone della morte sulla Rambla, riferisce El Periodico online.

Il bilancio ufficiale delle vittime degli attentati jihadisti di Barcellona e Cambrils la settimana scorsa è di 15 morti. Lo ha detto il ministro degli Interni catalano, Joaquim Font. La polizia ha infatti stabilito che Pau Perez, il giovane trovato morto all’interno di un’auto che aveva forzato un posto di blocco sulla Meridiana poco dopo la strage della Rambla, è stato ucciso dal terrorista Younes Abouyaaqoub, in fuga dopo l’attentato. Tutte le 15 vittime degli attentati di Barcellona e Cambrils sono state identificate ufficialmente. Sono sette donne e otto uomini. Sei morti sono cittadini spagnoli, tre italiani, due portoghesi, uno belga, uno statunitense, uno canadese e uno con doppia nazionalità australiana e britannica, il piccolo Julian Cadman.

Sono state pubblicate stamane dai media spagnoli le prime immagini del terrorista marocchino Younes Abouyaaqoub in fuga dopo la strage sulla Rambla. El Pais online (LEGGI L’ARTICOLO)  pubblica tre foto del jihadista mentre si allontana dal luogo dell’attentato a piedi, con indosso gli occhiali da sole, attraverso il mercato de La Boqueria, vicino al punto dove il furgone della strage si è schiantato contro un’edicola dopo avere travolto la folla.

L’Audi A3 utilizzata per l’attacco terroristico a Cambrils era stata fotografata da un autovelox, nella regione parigina dell’Ile-de-France, circa una settimana prima degli attentati. Lo rende noto Le Parisien, sottolineando che “secondo fonti concordanti, al momento le indagini non hanno stabilito nessun legame operativo con la Francia”. “Potrebbe trattarsi di un semplice transito su un tragitto più lungo” scrive il quotidiano. L’informazione proviene dalla cooperazione tra forze dell’ordine organizzata “a livello europeo per identificare eventuali complici” afferma il giornale parigino. Bfmtv ha affermato che la macchina è immatricolata in Spagna e non risulta essere stata affittata o rubata.

Uno degli arrestati della cellula jihadista che ha colpito Barcellona sta collaborando con gli inquirenti fornendo nomi e movimenti del commando e sul ruolo chiave dell’imam Abdel Baki Essati. E’ quanto rivela stamane Repubblica. “L’uomo – scrive il quotidiano – si chiama Mohamed Houli Chemlal, ha 21 anni, è originario di Melilla ed è l’unico sopravvissuto all’esplosione del covo della cellula ad Alcanar”. Secondo quanto riferisce Repubblica, “solo Mohamed sapeva chi e quanti uomini fossero all’interno di quella casa al momento dell’esplosione. Solo lui era in grado di ricordare che fossero tre, oltre a lui. Al punto da indirizzare il lavoro della Scientifica tra cumuli di macerie e lamiere di bombole divelte (ne erano state ammassate 120) alla ricerca di ciò che restava di brandelli carbonizzati appartenenti, appunto, a tre corpi diversi. Di cui Mohamed ricorda bene l’identità, tanto da far dire ufficialmente alla Polizia catalana che già ora, nonostante non siano stati ancora completati gli esami del Dna, almeno due dei tre uomini attualmente ricercati, sono sicuramente ciò che resta dei resti umani trovati ad Alcanar”. “Per tre giorni – prosegue ancora il quotidiano che cita una qualificata fonte di Intelligence – la collaborazione di Chemlal è stato uno dei segreti meglio custoditi dall’indagine. Al punto che, per oltre 36 ore, nonostante figurasse tra gli arrestati, non era stata rivelata neppure la sua identità. Ora, quel segreto cade e, domani, martedì, comparirà a Madrid di fronte ai giudici istruttori antiterrorismo dell’Audienca Nacional assieme agli altri arrestati perché i suoi verbali di polizia entrino formalmente nel fascicolo dell’indagine sulla strage della Rambla”.

Sta per partire da Roma, dall’aeroporto di Pratica di Mare, l’aereo militare predisposto dall’Unità di Crisi della Farnesina che porterà in Italia le salme di due delle tre vittime italiane dell’attentato a Barcellona: Luca Russo e Bruno Gulotta. Lo si apprende da fonti della Farnesina. Le procedure di rientro, sottolineano le stesse fonti, hanno avuto un’accelerazione anche grazie alla missione del ministro degli Esteri Angelino Alfano ieri a Barcellona. Durante la missione, il ministro ha incontrato, oltre al suo omologo – il ministro spagnolo Dastis – le famiglie delle vittime e ha fatto visita alla connazionale ferita, Marta Scomazzon. Il Boeing dell’Aeronautica militare, secondo quanto si è appreso, dovrebbe decollare da Pratica di Mare poco dopo le 18.30 per rientrare a Roma, a Ciampino (e non a Pratica, come si era appreso in un primo momento) intorno alle 23.30. Poi le salme verranno trasferite al policlinico Gemelli per l’esame disposto dalla procura. Quindi nuovo trasferimento a Ciampino e partenza per Verona

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Fonte:

http://www.ansa.it/sito/notizie/cronaca/2017/08/21/barcellona-e-braccato-in-tutta-europa-il-killer-autista-del-van_9d3d911f-83f6-4326-88e4-3ef00ad1abcc.html

Aggiornamento sull’attentato a Barcellona: ‘Volevano distruggere Sagrada Familia’. Killer in fuga

Nuovi colpi di scena nelle indagini sulla strage della Rambla, il cui probabile autore materiale, il marocchino Younes Abuyaaqoub, dato per morto ieri è invece tuttora in fuga, inseguito dalle polizie di Spagna e Francia. Secondo indiscrezioni degli inquirenti, il ‘piano A’ dei terroristi islamici era “far saltare in aria” la Sagrada Familia, simbolo di Barcellona, con “enormi quantità di esplosivo” Tatp, quello con cui l’Isis ha firmato le sue stragi in Europa.

Si indaga su imam di Ripoll, c’è il sospetto che sia morto o scappato

Nelle indagini è inoltre entrato di prepotenza come figura centrale un nuovo indagato, sospettato di aver svolto un ruolo chiave nelle stragi. E’ Abdelbaki El Satty, l’imam di Ripoll, la tranquilla (fino a ieri) cittadina dei Pirenei di 10mila anime, al 10% di origine marocchina, da cui venivano quasi tutti i 12 presunti membri della cellula. La polizia ha perquisito per tre ore oggi il suo appartamento. E’ sparito da martedì dopo aver detto al suo coinquilino che andava in Marocco in vacanza dalla moglie e dai figli. Gli inquirenti sospettano possa essere stato lui a indottrinare e dirigere i ‘baby-terroristi’ marocchini di Ripoll e che possa essere uno dei due terroristi morti nell’esplosione del covo della banda mercoledì notte ad Alcanar.

La cellula dei terroristi ragazzini

Nella base operativa vicino a Tarragona, secondo gli investigatori, il gruppo preparava da mesi un grande attacco a Barcellona. Nell’appartamento dell’imam marocchino al 4 di Carrer Sant Pere la scientifica ha raccolto campioni biologici per compararne il Dna con quello dei resti umani trovati in mezzo alle macerie di Alcanar, accanto a tracce di Tatp ed a 106 bombole del gas con le quali i terroristi volevano rendere ancora più micidiale l’onda d’urto di tre furgoni bomba.

Il ‘piano A’ che i jihadisti di Ripoll preparavano da mesi doveva essere ancora più sanguinoso e spettacolare. Fonti dell’inchiesta hanno detto a El Confidencial che l’obiettivo del gruppo era la Sagrada Familia, il celeberrimo capolavoro di Antoni Gaudì visitato ogni giorno da migliaia di turisti. Per questo dovevano preparare “enormi quantità di esplosivo” ad Alcanar per i tre furgoni che sarebbero stati usati per “fare saltare in aria” il tempio. Un atto che avrebbe provocato una probabile ecatombe e un’onda d’emozione enorme nel mondo.

Da Barcellona a Cambrils: cosa sappiamo dell’attentato

Ora la cellula, formata si ritiene da 12 persone, è praticamente distrutta. Cinque terroristi sono stati abbattuti dalla polizia a Cambrils, due sono morti nell’esplosione del covo di Alcanar, quattro persone sono in manette. Resta in fuga solo Abouyaaqoub, 22 anni, pure di Ripoll, che la polizia ora sospetta dopo varie indicazioni contraddittorie possa essere stato il killer della Rambla. E’ attivamente ricercato in Spagna ma anche in Francia, nell’ipotesi sia riuscito a passare la frontiera dei Pirenei. Dopo averlo escluso troppo in fretta, gli inquirenti verificano ora se non possa essere stato lui, fuggendo dalla Rambla, a forzare in auto un posto di blocco sulla Meridiana giovedì sera e a fuggire di nuovo a piedi lasciando nella vettura – dopo averlo ucciso – il cadavere del proprietario.

Da Nizza a Barcellona, auto e camion contro la folla VIDEO

Mercoledì notte qualcosa è andato storto. Probabilmente il Tatp, noto per la sua alta instabilità, è stato manipolato male e il covo è esploso. La cellula ha così dovuto rinunciare “all’enorme attentato” che pianificava a Barcellona e ripiegare su soluzioni più ‘artigianali’ senza esplosivi sulla Rambla e a Cambrils, spezzando 14 vite umane e facendo 134 feriti. Tre gli italiani uccisi: oltre a Bruno Gulotta, 35 anni e Luca Russo, di 25, si è appreso oggi che anche Carmen Lopardo, 80 anni, da 60 in Argentina, è stata uccisa sulla Rambla. Il bimbo australiano di 7 anni di cui non si avevano notizie dall’attentato di Barcellona, Julian Cadman, è stato ritrovato sano e salvo. Lo riferisce El Mundo. Il piccolo è stato localizzato in un ospedale di Barcellona e il padre è in viaggio per raggiungerlo. La madre del piccolo, una filippina residente in Australia, era rimasta gravemente ferita nell’attacco sulle Rambla.

 

Sulla distruzione o meno della cellula ci sono state oggi le prime scintille fra Barcellona e Madrid dopo l’unità nazionale proclamata dopo la strage della Rambla. Il ministro degli Interni spagnolo Juan Manuel Zoido ha annunciato lo “smantellamento” del gruppo, subito pubblicamente smentito dal collega catalano Joaquim Form, un ‘falco’ secessionista. La tregua scoppiata dopo la strage fra Madrid e Barcellona nella guerra sull’indipendenza della Catalogna potrebbe avere già le ore contate.

Blitz polizia a Cambrils, uccisi 5 sospetti terroristi VIDEO

La Rambla di Barcellona non si svuota, anzi. Migliaia di persone continuano a percorrere la passeggiata che conduce al porto, teatro di un attentato islamico, con 14 morti. Sono in centinaia a fermarsi davanti ai piccoli memoriali improvvisati, poco prima della teatro dell’Opera del Liceu, e a lasciare un messaggio di solidarietà, accanto a centinaia di candele. Nonostante ciò la tensione non cala: ad un certo punto vigilantes della metro particolarmente violenti ed aggressivi cacciano in malo modo due maghrebini dalle viscere della città accusandoli di furto, e minacciano gli operatori televisivi numerosi sulla Rambla. Qui non si filma. Ma siamo in uno spazio pubblico, anche se loro sembrano dimenticarlo.

Polizia in azione tra le strade a Barcellona VIDEO

 

‘Non abbiamo paura’ – Migliaia di cittadini si sono riuniti attorno a Re Felipe VI, al premier Mariano Rajoy e al presidente catalano Carles Puigdemont in Plaza Catalunya, cuore di Barcellona, per un minuto di silenzio in omaggio alle vittime dell’attentato di ieri. Dopo il minuto di silenzio la folla si è sciolta in un lungo applauso, fra grida di “No Tengo Miedo”, “Non ho paura”. La Spagna stringe le fila davanti all’attacco del terrorismo islamico. Il premier spagnolo Mariano Rajoy ha proclamato l’unità nazionale davanti alla minaccia jihadista. A Barcellona ha tenuto un vertice con il presidente catalano Carles Puigdemont. I due uomini – durissimi avversari sulla corsa della Catalogna verso l’indipendenza alla quale Puigdemont ha detto di non voler rinunciare – hanno promesso totale collaborazione sulla sicurezza e si sono stretti la mano ben tre volte, ha registrato la stampa spagnola. Domani Madrid deciderà se portare al livello 5, il più alto, l’allarme terrorismo, una misura che porterebbe anche l’esercito a difesa dei punti sensibili del Paese.

 

Rimane elevato in Italia il livello di vigilanza con misure sul territorio rafforzate: è quanto ha deciso il Viminale dopo l’attentato di Barcellona. Intanto negli Stati Uniti si diffonde l’uso degli ultimi ritrovati hi-tech che potrebbero evitare o limitare gli attentati: dispositivi a microonde e laser sviluppati dall’esercito USA che bloccano i veicoli provocando un collasso elettronico. L’Isis ha rivendicato l’attentato di Barcellona attraverso la sua ‘agenzia’ Amaq, definendo gli attentatori “soldati dello Stato islamico”. Lo riferisce il Site, il sito di monitoraggio dell’estremismo islamico sul web, pubblicando una immagine della rivendicazione in arabo.

Il video del furgone (da Twitter)


IL TRAGITTO DEL FURGONE (DA GOOGLE MAP)

VIDEO DA YOUTUBE

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Fonte:
http://www.ansa.it/sito/notizie/mondo/europa/2017/08/17/furgone-contro-la-folla-sulla-rambla-a-barcellona_3cf57b76-ed29-42db-909a-0f60db0f1ccf.html

Strage a Barcellona

Dal profilo Facebook di Guido Olimpio, giornalista del Corriere della Sera:

Da confermare: Moussa Oukabir sarebbe stato ucciso

Polizia cerca Moussa Oukabir, fratello di Driss. Probabile che fosse alla guida del furgone-killer. E c’è chi non esclude sia tra i morti di Cambrils. Tutto ipotetico.

Un breve aggiornamento al pezzo precedente, con news.
Prima la strage, dopo la confusione. Con cambi di versione continui. Totale. Per alcune ore la polizia catalana ha indicato come responsabile Driss Oukabir, alias “la faina”: è lui l’uomo che ha noleggiato il furgone, lo abbiamo arrestato. Storia capovolta in serata quando è stata diffusa la notizia che una persona si è presentata alle autorità ed ha raccontato: “Sono il vero Driss, qualcuno mi ha rubato i documenti”. E qu

Altro…

Polizia conferma: cinture esplosive dei 5 uccisi a Cambrils erano false

Barcellona. Confusione su news continua. Non è chiaro se terroristi uccisi a Cambrils avessero delle cinture esplosive, media dicono che forse erano false.
Driss Oukabir era noto a polizia ma per reati comuni e non terrorismo (sempre che sia questa la versione buona)

Nella notte, come saprete, nuovo episodio a Cambrils, regione di Barcellona. 5 terroristi uccisi.
Intanto qui pezzo uscito sul cartaceo del Corsera, ovviamente non contiene riferimenti a ultimi eventi e alcuni aspetti saranno superati.
Prima la strage, dopo la confusione. Con cambi di versione continui. Totale. Per alcune ore la polizia catalana ha indicato come responsabile Driss Oukabir, alias “la faina”: è lui l’uomo che ha noleggiato il furgone, lo abbiamo arrestato. Sto…

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Afghanistan, Trump ordina di lanciare la ‘madre di tutte le bombe’

E’ la prima volta dell’ordigno più potente

Gli Usa hanno sganciato la bomba Moab (la ‘madre di tutte le bombe’) sull’Afghanistan orientale per colpire l’Isis. E’ la prima volta che la superbomba è usata in combattimento. La ‘Massive ordnance air blast’ pesa quasi 10 tonnellate e ha la forza di distruggere tutto nel raggio di centinaia di metri. “Un altro grande successo, sono orgoglioso dei nostri militari”, ha detto Trump. L’obiettivo, dice la Casa Bianca, sono “tunnel e grotte usate dai miliziani dell’Isis” e “sono state prese tutte le precauzioni per evitare vittime civili e danni collaterali”.

Gli Stati Uniti di Donald Trump hanno sganciato la bomba nella zona di Nangarhar. Si tratta di una cosiddetta bomba MOAB (la sigla significa ‘Massive ordnance air blast’, ma è stata ribattezzata mother of all bombs -madre di tutte le bombe).

ECCO GLI EFFETTI DI UNA MOAB – VIDEO DA YOUTUBE

Il portavoce della Casa Bianca Sean Spicer ha confermato in apertura del briefing quotidiano che gli Stati Uniti hanno colpito l’Afghanistan sganciando una bomba mirata a colpire “tunnel e grotte usate dai miliziani dell’Isis”. Spicer ha quindi sottolineato che nell’azione “sono state prese tutte le precauzioni per evitare vittime civili e danni collaterali”, rimandando poi al Pentagono per ulteriori dettagli.

“Un’altra missione di successo, sono molto orgoglioso dei nostri militari”. Così il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha risposto a domande dei giornalisti sulla ‘superbomb’ sganciata dagli Usa in Afghanistan, sottolineando che i militari hanno la sua “totale autorizzazione”, cioè carta bianca.

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L’attentato a Stoccolma e una vecchia gaffe (?) di Trump

Ancora un tir sulla folla, 4 morti a Stoccolma
Un fermato ha confessato. Ma l’autista è in fuga

Prima Nizza. Poi Berlino. Ora Stoccolma. Ancora una volta un camion lanciato contro la folla ha travolto i passanti, questa volta sulla Drottninggatan, la “via della regina”, cioè la strada pedonale più famosa e frequentata della città. Il tir – rubato durante alcune consegne ai ristoranti – ha concluso la corsa contro le vetrine di un grande magazzino. La polizia ferma un sospetto che rivendica l’attacco. Ma non è l’autista del camion: è caccia all’uomo

di F. Q.

•scheda – camion e auto come armi: i precedenti da Nizza a Londra

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Attentato a Stoccolma, la gaffe mondiale di Trump meno di due mesi dopo diventa realtà

Attentato a Stoccolma, la gaffe mondiale di Trump meno di due mesi dopo diventa realtà
Mondo
“Guardate cos’è successo in Svezia ieri sera… Chi poteva immaginarlo?”. Così parlava dalla Florida il presidente degli Stati Uniti il 17 febbraio, alludendo a un attacco terroristico mai avvenuto
Da gaffe di livello internazionale a imprevedibile realtà. Era il 17 febbraio quando Donald Trump durante un comizio a Melbourne, in Florida, dichiarava la sua solidarietà alla Svezia per un attentato in realtà totalmente inesistente. Parole che tornano dopo l’attacco nel centro commerciale di Stoccolma. “Guardate cosa sta succedendo – si infervorava quel giorno il presidente americano davanti ai suoi sostenitori – Dobbiamo mantenere il nostro Paese sicuro. Guardate quello che sta succedendo in Germania, guardate quello che è successo la notte scorsa in Svezia. In Svezia, chi può crederci? Stanno avendo problemi che non avrebbero mai pensato di avere”.La fake news del presidente americano scandalizzò il mondo, fino alla denuncia di Margot Wallström, ministra degli Esteri della Svezia, per la “tendenza generale” a diffondere “informazioni sbagliate“. Trump aveva provato a rifugiarsi in corner spiegando che la sua dichiarazione era arrivata dopo aver visto un servizio televisivo della Fox. Tuttavia il video dell’emittente Usa non faceva alcun riferimento ad attacchi in Svezia, ma solo all’afflusso di migranti in Scandinavia e ad un attentato, con due feriti, sì a Stoccolma ma risalente a sette anni prima, nel 2010. Tra l’altro quell’attacco passato era avvenuto, con due autobombe, proprio nella stessa zona colpita oggi, l’area pedonale della Drottninggatan.

Condannate tre suore Carmelitane per maltrattamenti su minori. Una per abusi sessuali

Docce gelate, a letto senza coperte per non farle sporcare di pipì, sono solo alcune delle torture inflitte ai piccoli ospiti delle case famiglia «Amicizia» e «Aurora» gestite dalle imputate

di Giulio De Santis

 

Bambini costretti a mangiare il loro vomito, a dormire senza coperte, a fare docce gelate. È il clima di terrore imposto per mesi tra le mura delle case famiglia “Amicizia” e “Aurora” riservate ai minorenni a Rocca di Papa da tre suore Carmelitane, condannate per maltrattamenti. Una di loro, Amparo Pena Guardaro, è stata anche ritenuta responsabile di aver intrattenuto rapporti intimi con uno dei ragazzi ospitati nella struttura, ed è infatti l’imputata per cui il tribunale ha pronunciato la sentenza più severa: cinque anni e due mesi di reclusione con l’accusa di violenza sessuale cui i giudici hanno anche aggiunto il divieto di lavorare per sempre con altri bambini.

Le suore sudamericane

Per le altre due suore il verdetto è stato circoscritto ai reati inerenti al regime di paura instaurato all’interno della struttura: Virginia Pena Guardado – gemella di Amparo – è stata condannata a due anni, mentre nei confronti di Lorena Mely Sorto Hendriquez è stata pronunciata una sentenza di colpevolezza a un anno di reclusione. Entrambe le sorelle godranno della sospensione della pena. Tutte le imputate sono di origine sudamericana. Il dramma vissuto tra le mura della casa famiglia in via Locatelli è emerso tre anni fa, quando alcuni genitori si accorsero che i figli avevano lividi, graffi, punti di sutura e soprattutto uno di loro si era rotto entrambi i polsi.

I bimbi puniti

Davanti alle pressanti domande delle mamme e dei papà su cosa fosse successo, i bambini confessarono di subire vessazioni continue dalle responsabili della struttura. Drammi che si sono ripetuti anno dopo anno a partire dal 2007 fino al 2011, come sostenuto dai giudici di Velletri. L’incubo dei ragazzi cominciava la mattina presto, quando le suore li obbligavano a riordinare le stanze ma soprattutto a fare le docce con acqua fredda per consumare meno energia possibile. Una sofferenza estrema se si considera che nelle notti invernali dormivano senza coperte, protetti solo dalle lenzuola e il pigiama. A motivare le angherie, la decisione delle suore di punire i bambini perché si facevano la pipì addosso e le imputate non avevano alcuna intenzione di pulire la biancheria sporca.

Il bimbo di sette anni con le scarpe numero 44

«Pur esprimendo soddisfazione per la condanna per quello che concerne i gravi e continuati maltrattamenti subiti dai figli minori della mia assistita, non posso che rammaricarmi per la dichiarata prescrizione relativamente al reato di abbandono di minore – dice l’avvocato Erika Iannucci, difensore di una delle parti civili- Per la mia cliente resta l’amarezza di aver denunciato, senza essere creduta, presso il Tribunale per i Minorenni gli abusi e le violenze che sono emersi con grande chiarezza nel dibattimento subiti dai propri figli.” Drammatico il racconto in aula di una delle mamme dei bambini maltratti: “Per i miei bambini è stata una tortura, per sette anni hanno vissuto all’inferno, erano terrorizzati». La signora, cui furono tolti i figli quando avevano 6 e 2 anni, riferì nel corso del processo che “I bambini negli orari di visita non mi lasciavano andare via e fu allora che notai su mio figlio dei lividi. La situazione peggiorava sempre: occhi neri, un polso rotto, graffi e una volta 40 punti di sutura perché qualcuno aveva spinto mio figlio contro un vetro. D’inverno capitava che avessero vestiti troppo leggeri per il clima e una volta mio figlio, avrà avuto sui 7 anni, aveva al piede scarpe di misura 44».

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No Dal Molin – Manifestazione regionale per la difesa dei territori dalle grandi opere e dalle servitù militari

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Da circa due mesi, nella provincia di Vicenza, abbiamo dato vita alla campagna #vicenzasisolleva, un percorso fatto da attivisti No Dal Molin, da Comitati contro le grandi opere e da cittadini impegnati per la difesa dei Beni Comuni.

Questa campagna ci sta portando verso il prossimo 16 gennaio, data in cui saranno 10 anni dal sì di Romano Prodi alla costruzione della nuova base militare Usa al Dal Molin. Una scelta che allora, da un lato, calpestò la volontà popolare con una pesante imposizione alla città di Vicenza e, dall’altro, generò una presa di coscienza e un percorso di lotte virtuose e radicali contro la militarizzazione del territorio e le grandi opere.

Dal 12 al 26 Gennaio torneremo al terreno del Presidio No dal Molin rimontando quel tendone che ha saputo essere piazza di discussione in difesa della terra e dei beni comuni, ci torneremo per 15 giorni di assemblee convegni, iniziative perché siamo ancora in cammino verso una società che ripudia la guerra, dove al primo posto mettiamo la tutela della terra e la difesa dei beni comuni.

Ci torneremo perché vogliamo ancora lottare contro la voracità dei potenti che cura gli interessi di pochi, e costruire insieme un mondo diverso e migliore. Vicenza non è un’eccezione nel consumo del suolo e nella predazione delle risorse. Dalla Tav alla Pedementana, dalla Valdastico Sud e Nord alle Grandi Navi, dai progetti di incenerimento dei rifiuti alle discariche, dalle cave all’inquinamento dell’acqua, il territorio del nord-est è sottoposto alla continua cementificazione ed è divorato da piccole e grandi opere inutili e dannose, facili prede per le lobby del cemento e del capitalismo finanziario.

All’interno della cornice dei 10 anni dall’inizio della battaglia contro il Dal Molin vorremmo costruire insieme a tutt* voi un momento di manifestazione e mobilitazione che metta insieme i nostri No!
Per dispiegare quella necessità di alternativa di sistema che vogliamo affermare a partire dai nostri territori.
Vogliamo che sabato 21 gennaio diventi la giornata in cui affermiamo, ancora una volta, il nostro amore per la terra in cui viviamo.
Vogliamo che i NO che abbiamo gridato negli ultimi dieci anni, e quelli precedenti a noi, i NO che emergono dalle paludi dei ricordi, dalle nebbie che respiriamo in queste terre di pianura, che sorgono sulle nostre colline e sulle montagne all’alba, che questi NO diventino un favoloso SI alla vita, liberi dal malaffare, dalle mafie, dalle ruberie dell’uomo sull’uomo e sull’ambiente.

Vogliamo affermare che dove non c’è terra non c’è vita.

L’alternativa esiste, bisogna saperla vedere.

http://www.nodalmolin.it/

*** PROGRAMMA COMPLETO DEGLI EVENTI DAL 12/01 AL 27/01 AL PRESIDIO NO DAL MOLIN***

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Luogo

Presidio No Dal Molin
Vicenza, + Google Map:

L’inferno dei Rohingya

La foto che ricorda al mondo l’inferno dei Rohingya

Myanmar. Il bimbo riverso senza vita sulla sabbia scappava dal Myanmar dopo l’ennesimo eccidio

Rohingya su una barca diretta in Bangladesh

Un video nel quale le forze di sicurezza birmane prendono a calci un poveraccio che si nasconde la testa tra le mani e la fotografia di un bimbo riverso sulla sabbia a faccia in giù e senza più vita fanno il giro del mondo e risollevano la questione di una minoranza bistrattata e selvaggiamente perseguitata.

06inchiesta bambino morto Rohingya

UN POPOLO IN FUGA Il piccolo Mohammed e il povero contadino preso a calci, divenuti virali sui social media finora attenti alla tragedia di Aleppo, sono due rohingya. Appartengono a un popolo in fuga che, dagli inizi di ottobre, scappa dall’ennesima persecuzione ai suoi danni. Questa volta a scatenarla è stato l’eccidio di alcuni poliziotti birmani attribuito a un gruppo islamista radicale alla frontiera.
Altre volte, e a più riprese, questa comunità musulmana di un milione di persone che abitano nello Stato occidentale birmano del Rakhine, è stata oggetto di violenze che l’hanno costretta alla fuga. Si stima che la metà dei Rohingya viva ormai fuori dal Myanmar mentre un quinto di chi è rimasto vive nei campi profughi nel Rakhine. Oltre trentamila sono invece la colonna infame dell’ultima fuga che, tra ottobre e dicembre, ha raggiunto le coste del Bangladesh. Un esodo che non si è fermato.INUTILI PRESSIONI Finora, le pressioni sul governo birmano sono state praticamente inutili. Né ha ancora sortito effetti la lettera che una dozzina di Nobel per la pace e altrettanti personaggi pubblici hanno scritto all’Onu perché si faccia qualcosa.
L’unica cosa certa è che Naypyidaw manderà a Dacca un suo inviato per «discutere» della questione. Poco quando le accuse sono di stupro, esecuzioni sommarie, violenze, incendio di villaggi.

Mercoledi scorso, una commissione d’inchiesta del governo birmano ha negato tutte le accuse che, da Human Rights Watch ad Amnesty International , sulla base di testimonianze raccolte tra i fuggiaschi, sono state descritte in questi mesi: un quadro a tinte forti che il documento del governo ora cerca di nascondere sotto una mano di vernice bianca. Un tentativo che appare ridicolo nel momento in cui ai giornalisti stranieri e a quelli non accompagnati è vietato – così come alle organizzazioni umanitarie – entrare nelle frontiere sigillate del Rakhine per vedere cosa succede davvero.

Il governo della Malaysia ha accusato il Myanmar di genocidio e anche la rappresentante a Dacca dell’Unhcr ha usato il termine «pulizia etnica». Ma per ora non è bastato.

LA MALEDIZIONE Ma chi sono i Rohingya? La loro origine è controversa e si presta a interpretazioni declinate politicamente. E naturalmente, quando c’è un pasticcio etnico recente, c’è di mezzo una frontiera e, tanto per cambiare, le geometrie variabili – in fratto di confini – dei diplomatici di Sua maestà.

Quando nel 1826 finisce la prima guerra anglo-birmana, viene firmato il Trattato di Yandabo con cui i birmani sono costretti a cedere le coste dello Stato dell’Arakan tra Chittagong, nell’attuale Bangladesh, e Capo Negrais (oggi nuovamente birmano). Passano sotto il controllo della Corona o meglio della East India Company, che allora amministrava le terre del subcontinente indiano. L’Arakan è l’attuale Stato di Rakhine (che i Rohingya, che in parte lo abitano, chiamano Rohang).

Ha forse origine da quelle spartizioni sulla testa di contadini e pescatori la maledizione rohingya.

Contrariamente alla maggior parte dei birmani, i rohingya non parlano una lingua del gruppo sino-tibetano ma un idioma indoeuropeo del ramo delle lingue indoarie, come il bengalese (o bengali). Sono infine musulmani come la maggioranza dei bengalesi o meglio di quei bengalesi che abitano il Bangladesh (l’ex Pakistan orientale staccatosi dal Pakistan nel 1971).

ANTICHI IMMIGRATI In un Paese a maggioranza buddista questa minoranza è dunque molto isolata e le sue caratteristiche hanno fatto attribuire ai suoi appartenenti lo status di antichi immigrati dal Bangladesh durante l’occupazione britannica, motivo per cui Naypyidaw non riconosce loro né la cittadinanza né una rappresentanza politica garantita ad altre minoranze (Karen, Kachin eccetera).

Per il Bangladesh, con motivi più fondati, i rohingya sono invece semplicemente dei birmani musulmani che parlano una lingua vicina al bengali ma che restano immigrati indesiderati.

Schiacciati tra le due nazioni e con una terra d’origine che non riconosce loro uno straccio di documento, i membri di questa comunità hanno ormai una spiccata vocazione alla fuga. Colonie di rohingya vivono in Bangladesh ma anche in Malaysia o in Indonesia, dove hanno cercato e trovato rifugio in questi anni di persecuzioni. Persecuzioni cicliche ogni 5-10 anni. Il primo grande flusso è del 1978 e altri ne sono seguiti a intervalli sino a quello biblico di questi mesi.

FACCENDA DELICATA Politicamente la faccenda è molto delicata. Il governo bangladese li accoglie e minaccia di rispedirli a casa ma non può fare a meno di considerarsi il loro grande protettore e di fatto non li sta espellendo. Nondimeno in Bangladesh, i rohingya non possono integrarsi né avere la cittadinanza e dunque, pur se accolti, hanno davanti una vita da sfollati con la quale si barcamenano in decine di campi profughi e lavorando saltuariamente nelle varie attività stagionali.

Anche per le organizzazioni umanitarie la situazione è difficile e delicata anche perché il Myanmar non è più la feroce dittatura di un tempo e il governo di Aung San Suu Kyi vive un momento di difficilissima transizione. Infine le organizzazioni umanitarie impegnate nel sostenere l’urto dell’immigrazione rohingya sono molto caute nel denunciare le violazioni oltre confine nel tentativo di poter ottenere il permesso dalle autorità birmane per poter lavorare dentro lo Stato di Rakhine, ora sigillato. È lì il buco nero di cui non sappiamo e di cui abbiamo solo informazioni frammentate e non sempre verificabili.

IMMAGINI Ma l’informazione passa, come accaduto col video del pestaggio e l’immagine del piccolo Mohammed. In Bangladesh gli attivisti rohingya ci hanno mostrato decine di immagini di corpi straziati e villaggi bruciati. Immagini che girano comunemente sui social network legati al movimento rohingya.

 

 

Fonte:

http://ilmanifesto.info/linferno-dei-rohingya-e-la-foto-che-ricorda-al-mondo-il-dramma-di-un-popolo-in-fuga/

 

Leggi anche qui:

http://ilmanifesto.info/il-silenzio-di-aung-san-suu-kiy-macchia-indelebile-sul-suo-vestito-zafferano/

E qui:

http://ilmanifesto.info/rohingya-e-land-grabbing-gli-interessi-economici-oltre-alla-persecuzione-religiosa/

 

Grosso guaio al canile di Reggio Calabria

La struttura assegnata nonostante non fosse a norma. Il Comune cerca di metterci una pezza. Ma i volontari di “Dacci una zampa” si rivolgono alla magistratura

Martedì, 20 Dicembre 2016 20:06 Pubblicato in Cronaca

REGGIO CALABRIA È possibile dare in gestione una struttura pur sapendola non a norma? E ricordarsene circa nove mesi dopo, annunciando lavori che ci mettano una pezza, ma che senza che una gara al riguardo sia stata bandita? A quanto pare, a Reggio Calabria sì.

IMPEGNO A TEMPO DETERMINATO A svelarlo è l’ultimo episodio dell’ormai guerra aperta fra l’amministrazione e i volontari di “Dacci una zampa”, l’associazione animalista che per prima ha rimesso in funzione il canile municipale di Mortara di Pellaro, per anni lasciato a marcire nonostante fosse da tempo completato. Una struttura all’epoca frequentata anche dall’allora aspirante sindaco Giuseppe Falcomatà, che in piena campagna elettorale non ha esitato a “metterci la faccia” insieme alla futura consorte, immortalando il suo impegno «per i cani di Mortara» con il consueto selfie.

CANILE ASSEGNATO Ma l’idillio con i volontari è durato poco. Dopo che Tar e Consiglio di Stato hanno confermato l’assegnazione dell’appalto per la gestione del canile all’associazione Aratea, il sindaco ha usato la mano dura. Nonostante le diverse irregolarità da più parti segnalate – dall’agibilità solo parziale della struttura, al mancato accatastamento, come alla non conformità di spazi e box alla nuova normativa regionale di riferimento, entrambe confermate dagli annunciati lavori – Falcomatà ha deciso di procedere comunque con l’assegnazione del canile.

ASSEGNAZIONE Scortata dalla polizia municipale, ad aprile l’associazione Aratea fa il suo ingresso a Mortara. Dopo un po’ di parapiglia con i volontari di “Dacci una zampa” si trova – almeno sulla carta – un accordo. Loro escono dalla gestione, ma dentro rimangono i cani che nel tempo cittadini, Asp, vigili urbani e forze dell’ordine hanno portato alla struttura, affidandoli ai volontari. Gli animali – si stabilisce – saranno ospiti della struttura dietro pagamento di 0,68 centesimi a cane, cioè la diaria che ha permesso all’associazione Aratea di imporsi sulle altre che hanno concorso per l’assegnazione del canile. Dal punto di vista sanitario invece, con un verbale della dirigente del settore ambiente, Loredana Pace, l’intero canile – sia la parte adibita rifugio, sia quella destinata al “sanitario”– è stata invece affidata al dottore Mario Marroni, responsabile dell’area A dei servizi veterinari dell’Asp. Entrambe, sono ordinariamente gestite dall’associazione Aratea con il proprio personale.

LE PRIME ANOMALIE E qui ci si trova di fronte alla prima anomalia. Anzi, ad una prima serie di anomalie. A metterlo nero su bianco, in una nota ufficiale, otto mesi dopo è il direttore dell’Area C dell’Asp, dottor Giuseppe Giugno, che con una nota sollecita il sindaco Falcomatà «a voler con la massima urgenza nell’ottica di una fattiva cooperazione tra le parti, convocare una riunione per porre fine a questa situazione che ormai si protae da molto tempo e che inevitabilmente oltre a determinare responsabilità di natura economica, amministrativa e penale, crea confusione nei ruoli e nelle competenze istituzionali».

LA DURA LEGGE DEL DCA Perché? Semplice. Il Dca di riferimento, emanato il 31 maggio 2015 dal commissario ad acta alla Sanità, Massimo Scura, stabilisce criteri molto precisi per i canili in regione. In generale, recita il documento, nella stessa struttura non possono esistere canile sanitario e canile rifugio, a meno che non si tratti di strutture municipali in cui le due sezioni siano nettamente divise e delimitate. Diversi sono anche gestione, personale e mantenimento, così come le aree dell’Asp che vigilano su di essi.

LA MUNIFICITÀ DI PALAZZO SAN GIORGIO Secondo la normativa regionale di riferimento, se le spese dei rifugi municipali sono a carico del Comune che li ospita, quelle del sanitario invece competono alla conferenza dei sindaci della provincia per cui il sanitario è riferimento, chiamata anche ad assistere gli animali con proprio personale. Dal punto di vista veterinario invece, se l’Area A è chiamata a vigilare sul sanitario, il canile rifugio compete all’area C. Sottigliezze burocratiche? Non proprio. Ignorandole, l’amministrazione comunale reggina ha dovuto sborsare (quanto meno sulla carta) anche i soldi necessari al mantenimento degli animali per i quali altri sindaci avrebbero dovuto versare il proprio obolo.

ACCREDITAMENTO SÌ O NO? In più, se l’area C non è mai stata coinvolta nella supervisione del canile, come fa la struttura ad essere accreditata, dunque come può operare? Ecco perché Giugno parla di «responsabilità di natura economica, amministrativa e penale». Ed ecco perché la medesima comunicazione è stata mandata per conoscenza anche a Questura, Prefettura, Nas e Nirda (Nucleo investigativo per i reati in danno agli animali della Guardia forestale).

TRA CHIUSURE E ORDINANZE Tutti soggetti che nel corso degli ultimi otto mesi sono stati più volte chiamati a occuparsi del canile di Mortara. E non solo per la chiusura della struttura a causa di un’epidemia, disposta con ordinanza del sindaco del 14 luglio e preceduta di circa un mese da una comunicazione della dirigente Pace. O per i consueti battibecchi – legali e no – tra l’associazione Aratea, che gestisce il canile, e i volontari di Dacci una zampa, che lì hanno ospiti i propri cani.

MESI COMPLICATI Da aprile a oggi, carabinieri e municipale più volte sono dovuti piombare di fronte ai cancelli, su sollecitazione di cittadini e volontari cui è stato interdetto l’ingresso, al canile si è presentata persino una delegazione di Lav e parlamentari del Movimento 5 stelle arrivati a Mortara per un’ispezione conclusasi con un nulla di fatto, mentre più problematica per l’associazione sembra essere stata quella dei Nirda che durante un blitz hanno rinvenuto medicinali ad uso umano, escrementi non smaltiti correttamente e altre criticità strutturali, in tutto e per tutto simili a quelle messe in luce da più parti ancor prima dell’assegnazione del canile. Circostanze alla base di una serie di denunce per maltrattamenti, come in una serie di querele per diffamazione, seguite a battibecchi – dai toni spesso aspri – sui social.

ARRIVANO I NAS Per destare l’amministrazione però ci sono voluti i Nas, che ad agosto – in piena emergenza cimurro – piombano in canile e riscontrano una serie di anomalie, a partire dall’inesistente divisione fra canile sanitario e canile rifugio. Ragion per cui chiedono chiarimenti alla dirigente responsabile, Loredana Pace, ordinando contestualmente immediati lavori di adeguamento. Richieste che il Comune non ha potuto ignorare.

SGOMBERATE TUTTO Ecco perché a novembre, il sindaco Falcomatà ordina lo svuotamento del settore rifugio, in attesa dei lavori di adeguamento, inibendo contestualmente l’ingresso di altri animali. Alla dirigente Pace – prevede l’ordinanza del sindaco – toccherà inoltre individuare altre strutture del territorio in grado di ospitare i cani in attesa del completamento dei lavori di adeguamento. Intimazioni che comportano una serie di problemi.

QUALCHE PROBLEMA Primo, l’ingresso degli animali nella sezione “sanitaria” è regolamentato da rigide norme e – quanto meno sulla carta – non possono transitarci senza specifica motivazione. Secondo, tutte le altre strutture della provincia sono private – dunque lì i cani potrebbero essere trasferiti solo a caro prezzo – e negli anni scorsi più volte sono emerse criticità al riguardo. Ma ad amministrazione e gestori del canile la cosa sembra poco importare. E il meccanismo si mette in moto. O almeno così pare. Ai volontari di “Dacci una zampa”, che in questi mesi hanno lavorato alla costruzione di un’oasi canina su un terreno donato dalla Provincia, è stato ordinato di portar via i cani ospiti di Mortara entro 15 giorni, pena il sequestro. Un provvedimento “abnorme” per i legali dell’associazione e “insensato”.

QUALE URGENZA? Perché – banalmente – il sequestro presuppone un’urgenza che allo stato non è rintracciabile in alcun dove. Sugli albi online, non c’è infatti notizie di gare o manifestazioni di interesse. Che si sappia, mai il consiglio comunale ha discusso della questione. Eppure in ballo rischiano di esserci un bel po’ di soldi. Stando al Dca, per l’adeguamento o la creazione di canili sanitari nella provincia di Reggio ci sarebbero 270mila euro. Se e in che misura il Comune di Reggio Calabria abbia intenzione di contare su questi soldi non è dato sapere, tantomeno se la probabile mancanza di accreditamento possa influire sulla fruizione di questo denaro. Quel che si sa è che – al momento – non c’è documento o albo ufficiale che rechi traccia di questi lavori. E allora perché tanta fretta?

LE DOMANDE DI DACCI UNA ZAMPA «C’è qualcosa che non va e non ha senso in tutta questa storia – dicono dall’associazione – e non si tratta solo dell’ostinazione con cui il Comune ignora le nostre istanze, inoltrate anche via pec, all’ufficio dirigenziale competente e al sindaco. Come mai si scoprono solo adesso le criticità strutturali che noi segnaliamo da anni? Come hanno fatto ad assegnare la gestione del canile pur essendone a conoscenza? Perché tanta fretta di trasferire i cani? E com’è possibile che oggi si organizzino “feste di natale” in una struttura non adeguata e con gran parte degli animali trasferiti nel settore sanitario?». Domande rimaste senza risposta. Ma di fronte al silenzio dell’amministrazione, i volontari hanno deciso di rivolgersi alla magistratura.

Alessia Candito

 

Fonte:

http://www.corrieredellacalabria.it/index.php/cronaca/item/52997-grosso-guaio-al-canile-di-reggio-calabria